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Dio del Sagittario: Firenze, un altro caso per Simòn e Mezzanotte
Dio del Sagittario: Firenze, un altro caso per Simòn e Mezzanotte
Dio del Sagittario: Firenze, un altro caso per Simòn e Mezzanotte
E-book436 pagine6 ore

Dio del Sagittario: Firenze, un altro caso per Simòn e Mezzanotte

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Info su questo ebook

Firenze, anno 2002. A poche settimane dalla Pasqua, una serie di delitti sconvolge la città. Il ricordo del Mostro è ancora ben vivo, ma quello che il nuovo maniaco, che la stampa ha battezzato Il Sagittario, fa alle proprie vittime è qualcosa di mai visto: le tortura e le uccide secondo i rituali di martirio dei Santi della Chiesa Cristiana. Le indagini sono affidate al commissario Franco Mezzanotte, un poliziotto vecchio stampo che dopo la vicenda del Mostro ha sperato di non rivedere tanto sangue tutto insieme. Mezzanotte chiede aiuto all’amico ex poliziotto Simòn Renoir, omonimo del grande pittore impressionista, e come lui dotato di un singolare spirito di osservazione che nelle indagini si trasforma in prezioso intuito. Simòn, dopo aver abbandonato la polizia, ha trovato un nuovo equilibrio come docente all’Accademia di Belle Arti di Venezia, ma è disposto a rimettersi in gioco spinto da un’insana voglia di riscatto che lo porterà a rivivere ciò che aveva cercato di dimenticare e a rischiare la sua stessa vita. In una Firenze cupa e piovosa, luci e ombre si alterneranno in una danza lenta ma implacabile, fino a un epilogo crudele e inatteso, oltre il quale crolleranno anche le certezze più solide. Perché là dove la luminosità è intensa e rassicurante, l’ombra è più profonda e insondabile. E niente è più accecante della luce di Dio.
LinguaItaliano
Data di uscita4 ago 2016
ISBN9788869431470
Dio del Sagittario: Firenze, un altro caso per Simòn e Mezzanotte

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    Anteprima del libro

    Dio del Sagittario - Simone Togneri

    Prologo

    Domenica 10 marzo

    Il primo corse attraverso l’uscita di servizio del teatro. Il suo grido si scontrò con quello del temporale, sopra i tetti del vicolo deserto. Raggiunse il camioncino sotto la pioggia. Si chinò dietro alla sponda posteriore, la testa si abbassò di scatto e la paura si riversò sulla strada insieme ai resti del pranzo. Si tirò su sputando e tossendo e si voltò verso la porta. Vide uscire il secondo. E il terzo, subito dietro. Fantasmi pallidi e incrostati di calce rappresa. Si fermarono sotto la pioggia, a respirare forte. Il più giovane colpì il camioncino con il pugno. Il suono dell’urto aprì la strada a un’imprecazione subito soffocata da un altro tuono, che rotolò verso la cupola del Brunelleschi e parve tornare indietro. Il primo degli operai cadde a sedere contro una ruota dal battistrada consumato. Il secondo si accovacciò e nascose il viso tra le mani. Il terzo, dopo aver sfogato la sua rabbia contro Dio, si mise a vagare per il vicolo mormorando frasi sconnesse.

    La pioggia aumentò d’intensità. Da tre giorni non faceva altro che piovere. Sempre più forte.

    L’uomo seduto raccolse il cellulare dalla tasca e compose il centotredici. La conversazione si chiuse con un secco «fate presto» e il telefono scivolò sotto al furgone.

    Se non altro, almeno lui, al riparo dalla pioggia.

    Parte prima

    IL SAN SEBASTIANO

    1

    La Giulietta 1980 prima serie color profondo blu del commissario Franco Mezzanotte, costeggiò la fiancata nord del duomo di Santa Maria del Fiore. Il lampeggiante sul tetto aveva fretta, ma l’auto avanzava lentamente perché il vecchio motore temeva l’acqua sollevata dalle ruote. Percorse un tratto di via del Proconsolo e svoltò in via Ghibellina. Cento metri più avanti due poliziotti sorvegliavano i confini dell’inferno. Mezzanotte, che all’inferno c’era già stato, si consumò gli occhi cercando di vedere la strada. Oltre il parabrezza le luci azzurre lampeggianti si sgretolavano in mille schegge luminose, insegne inquietanti di qualcosa che non sarebbe dovuto accadere. Il commissario aveva ancora nelle orecchie la voce dell’ispettore Quadrano, che lo aveva buttato giù dal divano nel suo unico giorno di riposo. C’era un morto nel teatro Verdi. L’ispettore però non si era soffermato sui dettagli, secondo la sua abitudine di limitare le informazioni telefoniche. Aveva definito la scena come qualcosa di mai visto prima e questo bastava per gettare Mezzanotte in uno stato di apprensione crescente.

    Un poliziotto sul marciapiedi riconobbe la silhouette della Giulietta. Si sbracciò davanti ai fanali e indicò di superare l’ingresso principale del teatro e svoltare nel vicolo. Mezzanotte incastrò l’auto tra il muro bagnato e il furgone di un’impresa edile, sicuro che una volta entrato in quel budello non sarebbe più riuscito a venirne fuori. Gli agenti si agitavano sotto la pioggia. Alcuni erano impegnati a tenere a bada un gruppo di curiosi assiepato sui marciapiedi. Gli uomini della Scientifica si affrettavano a srotolare gli ultimi cavi delle luci artificiali. Tutti cercavano di gridare più forte del temporale.

    Mezzanotte si inzuppò prima ancora di scendere dalla macchina. Cercò di accendersi una sigaretta, ma era come farlo sott’acqua. Ci riuscì solo chinandosi nell’abitacolo della Giulietta. Quando si tirò su, sbuffando fumo, vide Lapo De Simoni che gli andava incontro a passo spedito.

    – Ciao Midnight – lo salutò Lapo.

    Mezzanotte rispose con un grugnito. Non era felice di vederlo e non gli importava di darlo a vedere.

    – Non saluti il tuo vecchio amico? – domandò Lapo. L’ombrello che aveva tra le mani non riusciva a proteggerlo. Era come cercare di tenere all’asciutto un Caterpillar usando un fazzoletto da naso.

    – Non ho amici tra i giornalisti – rispose il commissario.

    – Si può vedere questo morto?

    Mezzanotte si accigliò. – Come fai a sapere che c’è un morto?

    – Ho le mie fonti, lo sai. Dicono che sia ridotto male.

    – Non lo so io, e lo sai tu?

    Mezzanotte non era mai riuscito a capire come De Simoni riuscisse a mettere le mani su certe informazioni riservate, ma era sicuro che la fonte di cui parlava il giornalista si annidasse in qualche ufficio del commissariato.

    Sulla porta di servizio spalancata, un cartello avvertiva che l’ingresso era riservato esclusivamente agli artisti. O agli sbirri, pensò Mezzanotte. C’era l’agente Sogliano davanti all’apertura, la sua incerata luccicava alla luce delle fotoelettriche. Quando vide Mezzanotte lo salutò sbattendo i tacchi e gonfiando il petto. – Di sotto, commissario. Nel seminterrato.

    Sogliano riconobbe De Simoni e preferì assecondare le raccomandazioni che gli avevano impartito il primo giorno di servizio: nessun dettaglio se nei paraggi ronza qualcuno della stampa.

    – Resta qui – intimò Mezzanotte a Lapo, già in procinto di seguirlo.

    Il giornalista si infiammò. – Vuoi impedirmi di fare il mio lavoro, Midnight?

    – Falla finita di chiamarmi così.

    – Vuoi che lo scriva sul giornale di domani? Sai che bel titolo. – De Simoni aprì il palmo della mano libera e la puntò verso le nuvole come se volesse salutarle. – Commissario di polizia contrario alla libertà di stampa. Ci farai un figurone.

    – Scrivi questo – ribatté Mezzanotte buttando la cicca in una pozzanghera. – Commissario di polizia arresta giornalista leccaculo e rompicoglioni. Ti piace?

    Senza dare il tempo a Lapo di replicare, Mezzanotte si rivolse a Sogliano, che guardava la scena con una certa perplessità. – Tienimelo fuori dalle palle.

    Lungo i seminterrati color bianco sporco, il commissario seguì i cavi che serpeggiavano sul pavimento bagnato, vipere velenose che correvano a nascondersi dietro ogni angolo.

    – Qui dentro – lo chiamò De Seriis sbucando da una porta. – Nel magazzino.

    Una grande stanza ingombra di calcinacci e attrezzi da muratore. In un angolo erano accatastate alla rinfusa cianfrusaglie e vecchie scenografie coperte di polvere e ragnatele. Sei grandi pilastri sostenevano il soffitto. Sulla parete di fondo, da una fila di finestrini sbarrati vicino al soffitto, entrava la luce dei lampeggianti. Riuniti attorno a uno dei pilasti centrali, un gruppo di uomini osservava qualcosa che Mezzanotte ancora non riusciva a vedere.

    Fece qualche passo respirando aria che sapeva di muffa e intonaco vecchio. La polvere e i calcinacci impastati con l’acqua portata dalle suole, gli dettero la sensazione di camminare su un tappeto di insetti morti.

    – Non è un bello spettacolo – lo avvertì De Seriis.

    Mezzanotte indossò i guanti senza rispondere. Guardava il gruppo di uomini al centro del locale. Insieme agli agenti c’erano il medico legale Birardi e l’ispettore Quadrano. Uno degli uomini riprendeva la scena con una videocamera digitale. Un altro scattava foto. Altri due stavano ultimando l’installazione delle fotoelettriche.

    Il primo a vedere Mezzanotte fu Quadrano. Lo salutò e a quel punto la sua presenza fu nota anche agli altri. Il commissario fece un cenno e li raggiunse.

    Da più di vent’anni Franco Mezzanotte guidava la Squadra Mobile di Firenze. In questi vent’anni era sceso all’inferno e risalito più volte di un ascensore in un albergo di lusso. E in ognuna di queste volte aveva respirato l’odore del sangue fino a farsi venire la nausea. Il primo viaggio lo aveva fatto appena entrato in Polizia quando, giovanissimo, si trovò di fronte all’opera del Mostro di Firenze. Promosso commissario, entrò a far parte della SAM, la Squadra Anti Mostro. All’epoca si augurò di non rivedere mai più niente di simile e in effetti, dopo l’ultimo delitto del Mostro, fu così. Fino a quel momento, in quel magazzino, dopo più di trent’anni di carriera. Trent’anni di certezze calpestate come mozziconi di sigaretta.

    Al pilastro di calcestruzzo era legato un uomo. Nudo a eccezione di un drappo bianco attorno alla vita. Uno sciame di frecce si apriva la strada attraverso le sue carni. Mezzanotte ne contò quindici e le sentì tutte dentro di sé. Le immaginò attraversare le gambe spaccando i muscoli con i cigolii affilati della punta contro le ossa; le sentì penetrare nella pancia inchiodando la stoffa bianca alla pelle e spingendola fin dentro le budella; le sentì nel petto lacerare le membrane e i tessuti con strappi sonori e sanguinanti. E poi le sentì nella testa attraverso la massa celebrale, i pensieri, le emozioni. Le luci si accesero. Negli occhi aperti del morto le pupille luccicarono come se avessero ripreso vita.

    – Chi è? – domandò Mezzanotte.

    – Si chiamava Andrea Forti – rispose De Seriis dietro di lui.

    – È giovane – osservò Mezzanotte.

    – Diciotto anni appena compiuti.

    – Chi lo ha trovato?

    – I suoi colleghi, oggi quando sono rientrati dopo la pausa pranzo. Lui è rimasto solo e al ritorno lo hanno trovato così.

    – Adesso dove sono?

    – Fuori sul cellulare. Sono sconvolti. Gli abbiamo dato delle coperte e un po’ di caffè.

    – C’era da aspettarselo?

    – No, sembra di no – rispose Quadrano avvicinandosi. – È incensurato. Nessun legame con il mondo della criminalità. Almeno in apparenza.

    Mezzanotte studiò il corpo. Sulla pelle chiara il sangue aveva dipinto un intricato arabesco.

    – Secondo me è stato punito per qualcosa che ha fatto e che non avrebbe dovuto fare. O forse che ha visto e che non avrebbe dovuto vedere – azzardò De Seriis.

    Mezzanotte schioccò la lingua in segno di diniego. – Questa non è un’esecuzione.

    De Seriis guardò il cadavere e poi il commissario, poi di nuovo il cadavere. Ebbe la sensazione che i due si stessero parlando. – Come fa a saperlo?

    – Basta incontrarlo una volta il diavolo per riconoscerlo sempre – disse Mezzanotte. Poi si voltò verso il poliziotto. – Tu sai cosa faceva il Mostro alle sue vittime?

    – Ne ho sentito parlare.

    – Ne hai sentito parlare – ripeté il commissario scuotendo la testa.

    – So che non usava arco e frecce – osservò De Seriis.

    – No, ma la follia è la stessa.

    Una serie di flash accese la rete di sangue che imbrigliava il cadavere. Il giovane Stefano Torrisi alzò gli occhi dall’obiettivo e asciugò il sudore dalle sopracciglia. Mezzanotte puntò il dito verso la macchina digitale. – Voglio quelle foto sul tavolo del mio ufficio domattina. Formato trenta per quaranta.

    Il ragazzo annuì costringendosi a sorridere.

    Il commissario lo fissò strizzando gli occhi. – Sei nuovo tu, vero?

    – Sì.

    – Allora impara a non sorridere per forza. Non sei alla reception di un hotel a quattro stelle.

    Mezzanotte si allontanò verso l’uscita del magazzino e accese una sigaretta. Una lunga boccata di fumo scivolò dritta nei polmoni già troppo irrigiditi dalla nicotina.

    – Avete avvisato la famiglia? – domandò tossendo.

    – Non ancora – rispose De Seriis.

    – Allora qualcuno ci vada, ma non fateli venire qui. Non voglio che lo vedano ridotto così. Nessuno che lo abbia sentito gridare?

    De Seriis scosse la testa. – Quaggiù sotto terra? Con questo cazzo di temporale? Hai voglia a urlare, chi vuoi che ti senta?

    Il tuono che scosse l’aria e il fragore della pioggia battente confermarono le parole di De Seriis. Lì sotto Mezzanotte avrebbe faticato perfino a sentire le proprie, di urla.

    – Gli operai li interroghiamo subito? – domandò De Seriis.

    Mezzanotte sentì che la testa cominciava a fargli male. L’umidità aveva risvegliato la sua sinusite. Prese un pacchetto vuoto dalla tasca e ci spense dentro il mozzicone. Aveva l’abitudine di portarsi dietro due pacchetti: uno per le sigarette nuove, l’altro per le cicche. – No, falli portare in questura. Li interrogherò stanotte.

    De Seriis alzò il mento verso il corpo di Andrea Forti. – Che c’entrino qualcosa?

    Mezzanotte fece schioccare la lingua.

    Un uomo di bassa statura irruppe nel seminterrato. La luce delle fotoelettriche si rifletteva sul suo cranio lucido. Si muoveva a grandi falcate. Sembrava che stesse attraversando un torrente in piena cercando di saltare da un sasso all’altro. In realtà voleva solo evitare di inzaccherarsi le scarpe lucide. Si tenne a debita distanza dal cadavere, quasi temesse di esserne aggredito, e puntò dritto sul commissario.

    – Lei chi è? – chiese Mezzanotte.

    – Sani Domenico. Sono il direttore del teatro.

    Mezzanotte lo squadrò da capo a piedi. Nessuno dei due ebbe voglia di stringere la mano all’altro. – Lei non dovrebbe stare qui. – L’osservazione fu un diretto rimprovero verso gli agenti. De Seriis fece una smorfia di scusa e si avvicinò al direttore. – Venga direttore, torniamo di sopra.

    – Un momento. – Dalla tasca della camicia il commissario estrasse un blocchetto per gli appunti. – Ci sono un paio di domande che vorrei farle subito, dato che è qui.

    Il direttore annuì e si stropicciò le mani.

    – Perché questi uomini stavano lavorando di domenica?

    – Perché siamo indietro con i lavori di ristrutturazione. Il teatro deve riaprire subito dopo Pasqua e se non forziamo i tempi non ce la faremo.

    Mezzanotte scrisse due righe sul taccuino. Poi indicò il Forti con la penna. – E lui? Lo conosceva?

    Sani scosse la testa. – Non di persona. Ho sentito dire che era un bravo ragazzo, ma che avesse dei problemi.

    Mezzanotte si accigliò. – Che genere di problemi?

    Sani si tamburellò una tempia con un dito. Mezzanotte prese un altro appunto. – Chi glielo ha detto?

    – Il titolare della ditta edile per cui lavorava, per esempio. E poi l’ho visto anche con i miei occhi. Non che fosse del tutto suonato eh, intendiamoci. Sembrava solo un po’ ritardato. Di quelli che vivono in un mondo tutto loro e ogni tanto si svegliano nel nostro. Gli facevano fare lavori più che altro di fatica, niente di troppo impegnativo per il cervello. E anche con quelli ho notato che bisognava ripetergli le cose dieci volte prima che capisse. Non so se ho reso l’idea, commissario.

    – L’ha resa benissimo. E mi dica, direttore, ha idea del perché sia stato ucciso nel suo teatro?

    – Dovrei? – rispose Sani con espressione disgustata.

    – Non so, me lo dica lei.

    – Cosa dovrei dirle? – si infiammò Sani.

    – Magari qualcuno ce l’ha con voi.

    – Crede che io non mi sia già fatto le stesse domande che mi sta facendo lei, commissario? – ribatté Sani.

    – Non so, non sono nella sua testa, direttore.

    – Senta, io non so che cosa abbia fatto questo ragazzo per meritarsi questa fine e, detto tra noi, nemmeno mi interessa. Il fatto che sia stato ucciso qui dentro, non è in alcun modo legato con le attività del teatro.

    – Meritarsi – disse Mezzanotte.

    – Cosa?

    – Ha detto meritarsi.

    Sani sbatté le palpebre e non capì. – Sì, e allora? Ha qualche importanza?

    – Lei pensa che se lo sia meritato.

    Il direttore divenne rosso in faccia e si lisciò la testa. – Ma no, certo che no. Nessuno merita di morire così. Ho solo detto la prima parola che mi è venuta in mente. D’istinto.

    – Appunto – affermò il commissario. – E d’istinto lei ha attribuito una colpa a questo ragazzo e un movente a questo omicidio. E io adesso voglio sapere perché.

    – Non ho attribuito colpe a nessuno. – Sani era infastidito dalle parole di Mezzanotte e non lo nascondeva. – È evidente che si tratti di un omicidio, e dietro un omicidio c’è sempre un movente. Però io non lo conosco.

    – Va bene, se però le venisse in mente qualcosa mi chiami. – Mezzanotte prese un biglietto da visita e lo passò al direttore, che lo infilò in tasca senza guardarlo.

    – Ne avrete per molto?

    – Con cosa, scusi?

    – Tutto questo – Sani alzò le mani, come per abbracciare la stanza. – Dobbiamo finire i lavori.

    Mezzanotte scambiò un’occhiata con De Seriis, che stava in piedi oltre le spalle del direttore. – Per cortesia, vuoi accompagnare fuori il direttore?

    – Subito commissario. Prego direttore, venga. – De Seriis portò via il direttore quasi di peso. Sani parve sul punto di voler dire qualcosa, ma tenne la bocca chiusa e si lasciò aportare via.

    Mezzanotte rimase da solo e si avvicinò all’ispettore Quadrano. Osservava alcuni tecnici della Scientifica che fissavano fili rossi alla base delle frecce e li tendevano fino a farli incontrare. Nel punto dove si incrociavano, i tecnici mettevano un sostegno e vi legavano i fili. Riuscirono così a stabilire che le frecce erano state scagliate da tre punti e tre altezze diverse. Segno evidente che l’assassino si era mosso per trovare la mira migliore. Quadrano si accovacciò sul pavimento, in cerca di impronte, e scosse la testa.

    – Che c’è? – domandò il commissario.

    – C’è che è passata più gente qui dentro che al mercato di San Lorenzo – si lamentò Quadrano rimettendosi in piedi. Tra le mani teneva un pezzo di filo rosso e ci giocherellava. – Manca solo che abbiano camminato sul soffitto e siamo a posto.

    – E a parte gli aggiornamenti sul traffico, ti sei fatto qualche idea?

    – Ancora no.

    – Tu ti fai sempre un’idea.

    L’ispettore sospirò, si tolse un guanto di lattice e si grattò il mento. – D’istinto?

    Mezzanotte annuì. – D’istinto.

    – Penso al Mostro.

    – A Firenze ogni volta che viene ucciso qualcuno si pensa al Mostro – osservò il commissario.

    – Lo so, ma dietro questo omicidio c’è un rituale che lo ricorda. La pianificazione, la scelta dell’arma, del luogo, qualcosa da portarsi a casa. Un trofeo, insomma.

    – Non mi piace questa parola – confessò Mezzanotte.

    – Nemmeno a me – convenne l’ispettore.

    – Che genere di trofei?

    – Gli abiti della vittima, commissario, i suoi effetti personali: non si trovano. Manca il portafogli, mancano i documenti. Il ragazzo ha il lobo dell’orecchio bucato, ma non c’è traccia di orecchino. Probabilmente chi lo ha ucciso si è portato via tutto.

    – Magari l’orecchino se lo toglieva lui per venire al lavoro – ipotizzò il commissario.

    – Questo è possibile, ma il resto? Non credo che al lavoro ci venisse nudo – rispose Quadrano.

    – E perché li avrebbe presi? – chiese Mezzanotte. Ma non era una domanda vera e propria, era solo il bisogno di ricevere una conferma.

    – Di solito l’assassino porta via qualcosa che appartiene alla vittima per ricordarla e per rivivere l’evento tutte le volte che vuole. Anche il Mostro faceva così. – rispose Quadrano.

    – Ma non portava via gli abiti – mormorò Mezzanotte.

    L’ispettore allungò il collo – come ha detto?

    – Dicevo che il Mostro non si portava via gli abiti, ma parti delle vittime stesse. E poi qui siamo in centro, in pieno giorno: troppa gente, troppa luce, poco tempo. Lui ha bisogno della solitudine, del buio, di tempo. Quindi, ammesso che il vero Mostro sia ancora libero da qualche parte là fuori, questa non è opera sua. – Mezzanotte mise in bocca una sigaretta, ma non l’accese.

    De Seriis rientrò nel magazzino dopo aver accompagnato fuori il direttore e Mezzanotte lo chiamò subito. Il poliziotto batté i tacchi.

    – Mettiti in contatto con le scuole e le associazioni di tiro con l’arco che ci sono a Firenze. Butta giù un elenco di allievi e insegnanti.

    – Bene, commissario.

    – Birardi?

    La testa calva del medico legale si affacciò da dietro il pilastro. Poi apparve il resto del corpo. Prima con un’angolazione piuttosto accentuata, infine in posizione eretta e scricchiolante. – Sono qui.

    – Allora?

    – Allora che?

    – Che ne pensa?

    – Penso che è domenica, c’è un tempo da schifo, mi fa male la schiena e dovrei essere sul mio divano a guardare la televisione.

    – E a parte questo?

    Birardi lasciò cadere le spalle con una certa rassegnazione. – Posso dire che l’orario della morte coincide con quello che hanno detto i suoi colleghi. È stato ucciso qui dove l’abbiamo trovato. Vedremo con l’autopsia se sarò in grado di dire qualcosa di più.

    – Quando?

    – Appena avrò il via libera del magistrato di turno.

    – E chi è?

    Birardi alzò gli occhi al cielo e si lasciò scappare una smorfia annoiata. – Eh, saperlo.

    Quando Mezzanotte uscì dal teatro, trovò ad attenderlo la pioggia. E sotto la pioggia Lapo e il suo ridicolo ombrello. Sogliano, secondo gli ordini, gli stava appiccicato addosso come il cellophane su un pacchetto di sigarette ancora da aprire.

    – Bentornato, Midnight.

    – Sei ancora vivo? – La sigaretta che il commissario teneva tra le labbra era ancora spenta e vibrò.

    – Io faccio solo il mio lavoro – protestò il giornalista. – Si deve sapere quello che succede in città, non credi?

    – Se aspetti che ti dica qualcosa io, puoi morire di vecchiaia.

    – Andiamo, non sarai davvero contro la libertà di stampa?

    – Contro la libertà di stampa non ho niente, è sulla tua che non sono d’accordo.

    Fece per avviarsi verso la Giulietta, ma Lapo lo trattenne per un braccio. Mezzanotte lo guardò in faccia. I lineamenti solcati dalla pioggia erano duri, gli occhi affossati. Lapo non aveva più voglia di scherzare e la lucina che brillava nelle pupille non era più solo la scintilla dell’ambizione: era qualcosa di più profondo. Era paura.

    – Che c’è là sotto?

    Mezzanotte si tolse la sigaretta di bocca e la infilò tra le labbra carnose del giornalista. Lapo la gettò via con rabbia e capì di aver ragione. Era successo qualcosa di grosso in quel magazzino, qualcosa che lui doveva assolutamente portare alla luce. – È lui, vero? È il Mostro. È tornato per finire il lavoro. Dimmi la verità, Midnight. Dimmela.

    Mezzanotte si avviò verso la sua macchina. Lapo lo seguì continuando a parlare. Si fermarono in mezzo al vicolo, sotto la pioggia che li investiva come se con loro avesse un conto in sospeso. Il commissario allargò appena le braccia. – Vaffanculo te e il Mostro – e ricominciò a camminare.

    – È lui, vero? – insisté Lapo andandogli dietro. – Lo so che è lui, tanto vale che me lo dici.

    Il commissario raggiunse la Giulietta, ci montò sopra, chiuse la portiera. Lapo andò quasi a sbatterci contro. Bussò al finestrino, ci picchiò con il pugno chiuso. Voleva sapere e continuava a sbraitare. Mezzanotte mise in moto e abbassò il finestrino. Una piccola cascata d’acqua si riversò nell’abitacolo, sul braccio, sui pantaloni già fradici. – Non mi rompere i coglioni perché sennò ti arresto per interruzione di servizio e oltraggio a pubblico ufficiale. Giuro che lo faccio.

    – È lui, vero? – gridò ancora Lapo. Il fragore della pioggia e dei tuoni lo costringeva ad alzare la voce per farsi sentire.

    – Pensala come cazzo ti pare – disse Mezzanotte. Tirò su il finestrino e Lapo fece un passo indietro. Come aveva previsto, faticò parecchio per uscire dal vicolo in retromarcia. I vetri appannati non lo aiutavano. Appena riuscì a mettere la macchina dritta lungo via Ghibellina, schizzò via con uno stridore bagnato di pneumatici.

    La curiosità assalì Lapo, immobile sotto la pioggia, e l’odore di prima pagina gli invase le narici dilatate. Decise che non avrebbe deluso i giornali, di conseguenza il suo portafoglio, neppure stavolta. Il Mostro è tornato, compose mentalmente. Bastava per stravolgere la placida tranquillità di Firenze. Tuttavia, nonostante di scrupoli se ne fosse sempre fatti pochi, scrivere una notizia come quella senza verificare con i suoi occhi poteva costargli un prezzo più alto di quanto poteva permettersi di pagare. Così tornò verso l’ingresso di servizio del teatro. L’agente Sogliano lo vide solo quando fu dentro.

    – Fermo! – gridò il poliziotto, ma la sua voce si spense nell’aria fredda delle scale che scendevano ai seminterrati. Sogliano gli si infilò dietro bestemmiando, intralciato nell’inseguimento dall’incerata bagnata che gli si avvolgeva alle gambe.

    Lapo si orientò nei corridoi seguendo i cavi e le voci che sopraggiungevano da qualche parte là avanti e raggiunse il magazzino con il cuore che gli batteva sotto la lingua. Sulla soglia si voltò indietro: per il momento era solo. Così, prima che tutti potessero rendersene conto, entrò sulla scena del crimine e girò attorno al pilastro.

    Per un attimo che parve non finire mai nessuno seppe cosa fare. Poi finalmente due agenti afferrarono il giornalista per le braccia e lo strattonarono con forza verso la porta. Lapo De Simoni ruggì come un autotreno lungo una salita. Cercò di divincolarsi dalla presa gridando che era un giornalista e aveva il diritto di sapere. Era pagato per sapere e per scrivere ciò che sapeva. I suoi erano gli occhi della gente perbene che lavora e spezza il pane davanti alla TV.

    Più tardi, sulla volante che procedeva a rilento sotto la pioggia battente, né lui né i poliziotti che lo accompagnavano alla questura ebbero voglia di parlare. Lapo, seduto sul sedile posteriore a guardare i rivoli d’acqua che dal finestrino scivolavano via nella notte, continuò a comporre mentalmente il suo articolo dell’anno. Firenze città della luce. Città di Dante, di Lorenzo il Magnifico, di Michelangelo. Le menti più splendenti, esempio di quanto la bellezza dell’uomo si avvicini a quella di Dio. Ora aveva visto, ora sapeva. Ora poteva scrivere la verità. Firenze, città dell’oscurità. Città del Mostro, mente deviata, nefasta, esempio di quanto la malvagità dell’uomo si avvicini a quella del demonio. Non era sicuro che il Mostro fosse tornato in azione, non ne aveva riconosciuto il modus operandi, ma di certo Firenze sarebbe tornata ad avere di nuovo paura. Perché quando la luce è accecante, non riesci a vedere ciò che si muove nel buio.

    2

    Lunedì 11 marzo

    Venezia che aspettava la pioggia si specchiava nelle grandi vetrate dell’aula di Tecnica e teoria dei mass media, all’ultimo piano dell’Accademia di Belle Arti. Sulla superficie lucida i palazzi si fondevano l’uno nell’altro in una massa scura e informe e sullo sfondo il cielo grigio galleggiava pesantemente come se fosse sul punto di precipitarvi sopra.

    Simòn Renoir sbirciò oltre i vetri e Venezia gli parve in bilico tra mare e cielo. La paragonava a una tela in cui entrare ogni volta con un’emozione diversa. A volte, con il sole che si rifletteva sulle guglie dorate di piazza San Marco, somigliava a un chiassoso dipinto vedutista. Quella mattina, con le nuvole che schiacciavano la basilica di San Giorgio Maggiore e tingevano il Canale della Giudecca di blu cobalto, era ombrosa e pesante come in un paesaggio romantico.

    Simòn lasciò che la città gli penetrasse dentro. Amava assaporarne tutte le sfumature, i colori, gli odori, i suoni, i sapori. Come Pierre Auguste Renoir anche Simòn era un attento osservatore del mondo. Come se il cognome illustre che portava avesse trovato il modo di influenzare la sua sensibilità. Quel cognome, tuttavia, costituiva una pesante eredità per i sogni di gloria di Simòn: avrebbe voluto essere un grande pittore ma, spirito di osservazione a parte, del grande pittore impressionista non possedeva né la tecnica, né la forza, né la sensibilità del sentire i colori. Erano queste le critiche che gli insegnanti gli avevano sempre rivolto all’epoca in cui studiava all’Accademia di Firenze. Quegli insegnanti si aspettavano da lui, o meglio dal suo cognome, un grandioso modo di dipingere. Non intendeva giustificare la mediocrità della sua pittura rispondendo che di Renoir ce n’era stato uno solo, ma era certo che se di cognome non avesse fatto Renoir, forse essa non sarebbe stata così male.

    Simòn distolse lo sguardo dalle vetrate e si voltò verso l’interno dell’aula. I suoi allievi lo fissavano aspettando che riprendesse a parlare.

    – Cosa stavamo dicendo?

    – Stava per chiudere la tenda, professore – rispose una ragazza seduta nella prima fila.

    Simòn la ringraziò e fu certo che lei stesse cercando di non mettersi a ridere. Forse non era l’unica. Gli capitava, in certe giornate, di perdere di vista il filo del discorso.

    – Sì, bene – disse Simòn. Chiuse le tende e accese il proiettore. Sulla parete oltre la cattedra comparve una vignetta con in primo piano la canna di una pistola che sta sparando e la scritta BANG! sullo sfondo.

    –Come dicevo, – proseguì Simòn, – l’onomatopea è una delle figure retoriche più importanti e ricorrenti nel mondo della narrazione a fumetti. La troviamo praticamente in ogni tipo di storia e nelle più svariate rappresentazioni grafiche. E può avere diversi livelli di lettura. Nel caso che vedete è la semplice riproduzione di un suono o di un rumore. Si parla di onomatopea descrittiva, che si limita cioè a descrivere il suono dello sparo.

    Simòn fece scorrere il carrello delle diapositive e sulla parete apparve un’altra vignetta in cui un uomo visto di spalle si allontanava nella neve. Nell’immagine si ripeteva la scritta CRUNCH, la cui dimensione diminuiva progressivamente.

    – Qui l’onomatopea non è più solo descrittiva, non ci dice solo che rumore fa la neve quando ci si cammina sopra, ma il suo progressivo rimpicciolirsi ci racconta qualcosa in più: ci dice che il personaggio si sta allontanando. Se nella vignetta di prima il BANG! rappresentava un evento racchiuso in un lasso di tempo molto breve, in questa il tempo si dilata.

    Simòn cambiò nuovamente immagine e sul muro comparve un’intera tavola, composta da dodici vignette di identiche dimensioni disposte su tre strisce. Alternativamente le vignette presentavano il grottesco viso di un uomo e la scritta TUMP. Sia il volto che la scritta erano bianchi su sfondo nero e a ogni ripetizione diventavano più grandi, fino a occupare l’intero riquadro.

    – L’autore di questa tavola, si chiama Alberto Breccia, che da appassionati di fumetti quali siete conoscerete senz’altro. Sicuramente capiamo che il TUMP in questione è il battito del cuore. E capiamo anche che la sua ripetizione indica il trascorrere di un certo lasso di tempo. L’aumento dei caratteri, come il volto che appare più grande, ci dice che ci stiamo avvicinando a quest’uomo. Ma questo TUMP ci comunica anche un’altra cosa: l’emozione. Questa sequenza è una scena silenziosa, tesa, rotta solo dal battito del cuore che diventa più forte, un martellamento ossessionante. Il personaggio vive un crescente stato d’angoscia. In nessun altro modo si sarebbe potuto rendere questa sensazione. In questo caso l’onomatopea ha lo stesso valore della colonna sonora in un film. Una sola parola ha il potere di comunicare più di altre mille. Pensateci, quando lavorate alle vostre storie.

    Simòn guardò l’ora e decise che poteva fermarsi. Fece tornare Venezia nell’aula e spense il proiettore, raccomandando ai ragazzi di dare un’occhiata alle dispense che avrebbe lasciato alla solita copisteria. Domande non ce n’erano. Gli studenti lo salutarono e lui li osservò dividersi in piccoli gruppi e disperdersi giù per le scale e nel corridoio.

    Solo quando l’aula rimase vuota notò il professor Alberto Foglian seduto in una delle ultime file. Dietro gli occhiali c’era orgoglio e la bocca, circondata da una barba curata, era dischiusa in un sorriso.

    – Di solito si va negli ultimi posti per fare casino – commentò Simòn.

    – In effetti è molto

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