Sotto questo sole tremendo
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Anteprima del libro
Sotto questo sole tremendo - Carlos Busqued
Titolo dell’opera originale
BAJO ESTE SOL TREMENDO
© Carlos Busqued, 2009
© Editorial Anagrama S.A
Traduzione dallo spagnolo di Silvia Raccampo
© Atmosphere libri
Via Seneca 66
00136 Roma
www.atmospherelibri.it
info@atmospherelibri.it
Redazione a cura de Il Menabò (www.ilmenabo.it)
I edizione nella collana noir marzo 2013
ISBN 978-88-6564-079-1
OPERA PUBBLICATA NELL’AMBITO DEL PROGRAMMA SUR
DI SUPPORTO ALLE TRADUZIONI DEL MINISTERO DEGLI AFFARI ESTERI,
DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE E DEL CULTO DELLA REPUBBLICA ARGENTINA.
OBRA EDITADA EN EL MARCO DEL PROGRAMA SUR
DE APOYO A LAS TRADUCCIONES DEL MINISTERIO DE RELACIONES EXTERIORES,
COMERCIO INTERNACIONAL Y CULTO DE LA REPÚBLICA ARGENTINA.
1
«Gli uncini si conficcano nell’apparato digerente e in questo modo riusciamo a portarli in superficie senza che si lacerino nel tentativo di scappare. Sono animali molto voraci e praticano anche il cannibalismo. Spesso il calamaro che tiriamo sulla barca non è quello che ha inghiottito l’esca, ma un esemplare più grande che stava mangiando il primo che ha abboccato».
Cetarti era nel soggiorno, intento a fumarsi una canna e a guardare un documentario sulla pesca notturna dei calamari Humboldt nel Golfo del Messico trasmesso da Discovery Channel. Aveva eliminato l’audio perché il servizio era in inglese con i sottotitoli in castigliano. In piedi su una barca, un tizio mostrava i richiami utilizzati per la pesca dei calamari giganti, una sorta di cilindri luminosi coronati da una cinquantina di uncini aperti obliquamente all’insù. Simulando i movimenti del calamaro con una mano, l’uomo illustrava la scena: l’Humboldt si accosta all’esca dal basso, spalanca i tentacoli, la immobilizza e poi con un paio di movimenti la inghiotte. Gli uncini vanno a piantarsi nell’esofago, e a quel punto al pescatore non resta che issare l’animale sulla barca.
«Cosa del resto per niente facile: questi predatori, lunghi fino a due metri, hanno una forza incredibile e quando arrivano sulla barca sono furibondi. Ogni anno nella stagione degli Humboldt si verificano incidenti mortali tra i pescatori. Sono animali sempre affamati, estremamente aggressivi, e divorano ferocemente la loro preda».
Squillò il telefono. L’identificatore di chiamata segnalava sconosciuto
, probabilmente qualcuno che telefonava da un apparecchio pubblico. O che voleva nascondere il proprio numero. Cetarti non rispose. Tornarono a insistere altre due volte. Alla terza alzò la cornetta.
«Dica».
«Buonasera, parlo con il signor...» all’altro capo una voce grossa e sibilante esitò come se stesse leggendo «Javier Cetarti? È lei?»
«Sono io».
«Ah, molto piacere. Mi chiamo Duarte e la chiamo da Lapachito, Chaco. Sono l’esecutore testamentario del signor Daniel Molina».
Cetarti restò in silenzio. Nessuno dei due nomi gli diceva qualcosa.
«Daniel Molina era il...» la voce indugiò, leggermente a disagio «ehm, il convivente di sua madre. Devo darle una brutta notizia».
Mentre Cetarti stava a sentire, il tizio del documentario aveva dato istruzioni all’operatore di spegnere le luci e filmare l’acqua. Lo schermo si oscurò completamente, salvo il giallo dei sottotitoli:
«A una ventina di metri sotto di noi c’è un banco di sardine e i calamari sono a caccia. Possiamo vedere il luccichio verde dei loro occhi fosforescenti...»
2
Sedici ore dopo aver riagganciato il telefono (il tempo che impiegò a vedere la fine del documentario sui calamari Humboldt, guardarne un altro sugli arsenali nucleari e la politica di dissuasione USA negli anni Cinquanta, preparare la scorta di canne per il viaggio, rifornire di mangime i pesci rossi dell’acquario, chiudere le finestre, salire in auto e correre per settecentocinquanta chilometri di fila) Cetarti entrava a Lapachito. Abbassò il finestrino per arieggiare l’auto. Una zaffata di merda lo investì. Richiuse. Le strade del paese erano maltenute e coperte da uno strato sottile di fango. Non c’erano nuvole, ma doveva aver piovuto da poco. Guardò l’orologio: quasi le nove, e il sole già picchiava forte. Fece un paio di giri, così, per esplorare il posto. Nulla di piacevole. La maggior parte delle case aveva i muri scrostati, invasi da macchie umidità e da crepe vistose, conseguenza dello sprofondamento sbilenco degli edifici. L’effetto visivo era desolante. Parcheggiò in una stazione di servizio vicino alla piazza centrale. Entrò nel bagno, si lavò la faccia, inumidì i cappelli e si spruzzò del deodorante. Poi andò al bar e ordinò un caffè e due croissant. Mentre lo servivano, chiamò Duarte. Questi aveva già rilasciato la sua dichiarazione, ma doveva tornare a prendere un paio di documenti necessari per le pratiche, per cui si dettero appuntamento al commissariato alle dieci meno un quarto. Cetarti arrivò qualche minuto in anticipo. Duarte era già lì, piantato accanto allo stemma della polizia del Chaco, che lo aspettava. Era un omone grande e grosso, faccia rubizza, sessant’anni circa. L’ampio sorriso scopriva una dentatura ripugnante, giallastra e smangiata dalle carie. Aveva con sé una ventiquattrore di cuoio. Salutò Cetarti con un’energica stretta di mano. Le sue mani erano enormi.
«Ben arrivato! Purtroppo ci conosciamo in queste circostanze».
Con una pacca sulla spalla lo invitò a entrare per primo.
Attraversarono il corridoio fino a un ufficio dove un uomo in divisa leggeva il giornale su internet con il ventilatore da tavolo puntato addosso. Duarte fece le presentazioni. Il poliziotto era l’agente Cardozo, incaricato dell’indagine. Cardozo li invitò ad accomodarsi, sistemò il ventilatore in modo da distribuire più equamente il flusso d’aria e riferì all’incirca quanto gli aveva raccontato la sera prima lo stesso Duarte, senza però lesinare i dettagli scabrosi. Daniel Molina, «sottufficiale in pensione dell’aeronautica, rappresentato qui dal signor Duarte», alle ore 12 del giorno precedente aveva ucciso la sua convivente e il di lei figlio. Ovvero, la madre e il fratello di Cetarti. Li aveva colpiti al petto con un fucile a ripetizione. Poi si era tolto la dentiera e si era sparato alla testa, la canna spinta contro il mento.
«Ecco le immagini, se vuole vederle» disse Cardozo allungandogli un fascicolo.
Erano una ventina di foto. Cetarti le sfogliò rapidamente. La testa di quel Molina era conciata un disastro (vista a rovescio ricordava una sacca sfondata) ma i volti di sua madre e suo fratello erano intatti, immortalati nell’espressione di chi osserva qualcosa di non troppo divertente. Si stupì di quanto sembrassero vecchi, suo fratello soprattutto. Se non ricordava male doveva avere quarantatre anni, e ne dimostrava sessanta.
«È chiaro che il signor Molina ha ucciso la signora e il figlio» riprese Cardozo, «dopodiché si è sparato. Quello che non sappiamo è quale sia stata la scintilla che ha fatto esplodere la situazione. Forse lei potrebbe aiutarci».
«Non saprei dirle».
«Aspetti un momento che le prendiamo direttamente la deposizione...» L’agente rimpicciolì la pagina del quotidiano on-line, lanciò il programma di scrittura, trascrisse le generalità di Cetarti e gli chiese di ripetere quanto aveva appena detto. Cetarti obbedì docilmente.
«Sua madre le ha mai accennato a qualcosa che potesse lasciar presagire un simile epilogo?»
«Sono anni che non vedo mia madre. Non sapevo che vivesse in questo posto, e neanche che si fosse risposata».
Cetarti si sistemò sulla sedia. In quel momento avrebbe voluto scomparire. Non gli venne in mente un solo posto piacevole dove ricomparire.
«E suo fratello?» proseguì il poliziotto. «Era in cattivi rapporti con il signor Molina?»
«Non ne so nulla. Mi sorprende che vivessero insieme. Lui se n’è andato di casa prima di me».
«Non vivevano insieme» intervenne Duarte. «Tuo fratello era qui in visita».
«Fa lo stesso».
Il poliziotto prese un paio di appunti sul retro di una fotocopia che ripose nello stesso fascicolo delle foto.
«Un istante ancora e abbiamo terminato».
Finì di battere il documento, ne stampò due copie e le fece firmare a Cetarti.
«Con questo è tutto. Dopo il riconoscimento dei cadaveri potete sbrigare le formalità e portarveli via. I corpi sono all’obitorio del cimitero, a disposizione dei familiari». Aprì un cassetto, ne estrasse una busta di Manila e l’allungò a Duarte. «Ecco le copie che mi ha chiesto».
Ringraziandolo, Duarte afferrò la busta e lo pregò di avvisarlo in caso di novità. Appena fuori chiese a Cetarti se era venuto in auto. Cetarti annuì.
«Ottimo, il cimitero è a un paio di chilometri da qui e io sono venuto a piedi. Mi dai un passaggio? Così intanto parliamo un po’».
3
Cetarti aveva acceso l’aria condizionata e nell’auto faceva freddo, ma il sole picchiava attraverso i vetri arroventando la pelle ugualmente. La pelle sudava, il sudore si raffreddava e le sensazioni di freddo e di caldo, anziché annullarsi, coesistevano sgradevolmente. Sempre meglio che stare fuori. Duarte gli indicò la strada, lo fece svoltare un paio di volte finché, dopo dieci o dodici isolati, sbucarono in una via più grande.
«Bravo, ora va’ dritto per qualche chilometro. Quando ci siamo, ti avverto».
Malgrado il sole implacabile, il manto di fanghiglia per terra non si era asciugato per niente. Invadeva tutte le strade.
«Dev’essere piovuto parecchio da queste parti» osservò Cetarti.
«Macché, non fa una goccia da aprile o giù di lì. Dici per il fango?»
«Già».
«Quello è colpa dell’innalzamento delle falde, l’acqua ha quasi raggiunto il livello del suolo. Guarda le case: sono tutte crepate. Il terreno è diventato fango, sprofondano. I pozzi neri tracimano e gran parte di questa melma in giro, in realtà, è merda e piscio dei pozzi neri. Per questo gli alberi sono morti, sono marciti tutti già il primo anno. Fai lavare l’auto quando riparti, altrimenti ti si corrode tutta la carrozzeria, e soprattutto i parafanghi: questo fango è veleno per le macchine».
Duarte aveva ragione, quasi tutte le auto per strada erano semicorrose dall’ossido.
«Grazie del consiglio.