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Info su questo ebook
È la fine della civiltà?
Forse c’è ancora speranza.
Maria Pia Ascione è nata nel 1956 a Roma, dove vive e svolge la sua attività professionale di consulente del lavoro.
Laureata in Giurisprudenza e in Scienze religiose, ha ampliato il suo raggio di interessi in vari ambiti: sicurezza sul lavoro, comunicazione efficace, gestione risorse umane, mediazione familiare ecc.
Il suo esordio in campo letterario avviene nel 2020 con il libro Qualcuno doveva pur farlo. A pochi mesi dalla prima pubblicazione partecipa di nuovo alla riuscitissima collana “Nuove Voci” con una seconda fatica letteraria. Si tratta di una lunga lettera scritta a un’amica in particolare, ma estendibile a chiunque si trovi coinvolto in un legame affettivo “problematico”. Nel 2021 scrive Non si è mai troppo grandi, pubblicata nella collana “Gli speciali”. Si tratta di una raccolta di racconti su alcuni aspetti spesso tralasciati eppure fondamentali della nostra vita quotidiana, delle nostre esperienze, delle nostre aspirazioni.
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Anteprima del libro
Virtualmente reale - Maria Pia Ascione
Maria Pia Ascione
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© 2022 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma
www.gruppoalbatros.com - info@gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-6034-2
I edizione novembre 2022
Finito di stampare nel mese di novembre 2022
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
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Nuove Voci
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
INTRODUZIONE
Alfio Canzonieri La Torre, nato a Pisa il 29/08/1949, è deceduto in Firenze il 05/01/2026 alle ore 2:45 a.m. per arresto cardiaco.
Il laconico certificato redatto dal dottor Ganesh, suo medico curante, attestava la cessazione delle funzioni vitali di un uomo speciale, tanto potente quanto invisibile alla collettività.
Alfio era sofferente di cuore da diversi anni e il suo amico dottor Ganesh, nel certificare l’avvenuto decesso, non aveva ritenuto di segnalare alcun sospetto sulla sua morte refertandola come attribuibile a cause naturali.
Inoltre, Alfio era anche affetto da un tumore al cervello non operabile. Il tumore non aveva dato sintomi per molto tempo. Il problema venne alla luce in modo del tutto casuale quando era ormai troppo tardi. Si trattava di un meningioma a crescita lenta che aveva raggiunto, quando scoperto, dimensioni tali che non consentivano l’operabilità.
Sappiamo tuttavia che la morte di Alfio non era stata per nulla naturale
.
Ma non c’era alcun giallo
da scoprire. Alfio si era semplicemente suicidato con una certa quantità di veleno, la tetrodotossina per l’esattezza.
Ne sarebbe bastata poca. Ne sarebbe bastata anche meno se si fosse iniettato la sostanza, ma questa pratica avrebbe potuto in potenza causare qualche problema. Nel caso fosse venuto in mente a qualcuno di indagare sulle cause di morte, il piccolo foro della puntura avrebbe potuto essere rilevato ad un esame autoptico. No, troppo pericoloso, e lui non poteva certo correre rischi. O, meglio, nessuno dei suoi doveva essere esposto a rischi.
Come ulteriore cautela aveva anche disposto la cremazione delle sue spoglie mortali e stabilito che le sue ceneri fossero gettate dall’alto da un elicottero e disperse in alto mare. Alla fine, si decise per l’assunzione di una dose tripla rispetto al necessario per il timore di restare vigile e paralizzato anche se per pochi minuti, subendo così molte sofferenze. Lo scopo era quello di ottenere una morte sicura, ma anche quello di trapassare velocemente e con il minimo di sofferenza possibile.
Alfio le aveva pensate veramente tutte.
Per quanto possa sembrare assurdo, il suo suicidio non era stato un atto di viltà o di disperazione. Al contrario. Il suicidio era stato, almeno nelle sue intenzioni, un atto di fiducia, in suo figlio, nei suoi soci, nell’umanità e se esiste, anche in un Dio, chiunque esso sia.
Aveva studiato a lungo i veleni cercando di scegliere quello meno visibile ad una approfondita indagine autoptica, ma anche quello che gli consentisse una morte veloce e comunque con tutte le caratteristiche desiderate.
Studiò così il mondo dei veleni.
Tanti.
Scoprì che tutte le sostanze velenifere, oltre ad avere un effetto più o meno letale, comportavano anche ulteriori danni collaterali spiacevoli.
Alcuni erano anche invisibili ad un esame tossicologico ma in grado di provocare grandi sofferenze per un tempo più o meno breve.
Non che lo spaventasse la morte. Alfio temeva la sofferenza.
Lui che aveva una bassissima soglia del dolore. Lui che alla comparsa del più piccolo fastidio era sempre ricorso agli analgesici in dosi massicce. Anzi, sembra ragionevole pensare che proprio il suo frequente ricorrere agli analgesici in grande quantità abbia provocato i problemi di cuore che aveva al momento della morte. È noto che molti farmaci antidolorifici possono aumentare il rischio di insufficienza cardiaca e lui ne aveva sempre fatto un uso più che abbondante. Ma grazie anche ai suoi problemi di cuore fu più facile convalidare l’idea che il decesso fosse dovuto ad un infarto fulminante.
Nella sua storia familiare non c’erano state cardiopatie importanti, fatta eccezione per suo padre che era morto nel sonno per complicanze connesse certamente all’apparato cardiocircolatorio. Ma a parte suo padre tutti i suoi avi, sia da parte di madre che di padre, erano tutti morti di vecchiaia e avevano goduto in vita di una salute di ferro. Non che questo affranchi i discendenti da problemi cardiaci, ma quanto meno non c’era in lui una predisposizione da tenere sotto controllo, anche se questo non gli avrebbe consentito comunque di poter abusare di sostanze nocive all’apparato cardiovascolare. Ma, come detto, grazie a quella situazione compromessa del cuore fu più facile avvalorare la tesi di morte naturale.
Per avvelenarsi avrebbe potuto ricorrere al vecchio e sperimentato arsenico. Ci aveva pensato ma l’aveva escluso subito. È noto che ad un esame tossicologico l’arsenico sarebbe stata la prima sostanza ad essere ricercata in caso di autopsia. Era un eccesso di cautela? Affatto. Alfio era un magnate dell’alta finanza e la smisurata quantità di denaro e le immense proprietà che possedeva al momento della morte sarebbero state un ottimo movente, soprattutto per una moglie ignorata da troppo tempo. Anche il solo bisogno di rifarsi una vita lo sarebbe stato, indipendentemente dal denaro che ne sarebbe derivato.
Vero è che prima di ventiquattro ore non si può fare un esame autoptico, ma un eventuale esame tossicologico, sempre possibile in caso di morte improvvisa di una persona particolarmente ricca, avrebbe potuto rintracciare il veleno anche più tardi, semplicemente facendo il test sui capelli. Per questo, anche se l’idea non gli sorrideva affatto, stabilì come onere testamentario per suo figlio di cremarlo e poi disperdere le ceneri da grande altezza in modo che si spandessero il più possibile senza possibilità di raggrupparle. Se non fosse stato per questo motivo, non avrebbe certo chiesto la cremazione. Tutto sommato, anche se uomo moderno e non credente, Alfio era molto legato a quell’idea romantica di una resurrezione con il proprio corpo. E, almeno per i progressi della scienza fino a quel momento, sembrava non realizzabile un riassemblaggio di polvere. In alcuni film fantasy del ventesimo secolo si raccontava di teletrasporti o marchingegni similari, che consentivano la smaterializzazione cellulare temporanea prima di una nuova rimaterializzazione a migliaia di anni luce di distanza. Ma, almeno al momento della morte di Alfio, non sembrava che la scienza fosse riuscita a realizzare questa possibilità per l’uomo. Ad ogni buon conto, per quanto Alfio - come dice una nota canzone - si vestiva di nuova cultura e cambiava ogni momento¹, quando era nudo
, era un uomo del suo tempo, con tutte le sue credenze e i suoi luoghi comuni.
La decisione di porre fine alla sua vita era stata a lungo meditata. Aveva pensato a lungo e ad ogni minimo dettaglio. Sapeva bene che, una volta deceduto, non avrebbe più avuto importanza per lui una soluzione o l’altra, ma era inevitabile ragionare da vivo
anche per ciò che riguardava vicende relative alla sua morte. Aveva anche pensato che, in caso di morte apparente, se si fosse risvegliato in una bara, avrebbe potuto farsi sentire mentre da dentro un forno ad alta temperatura era esclusa la possibilità di richiamare l’attenzione di qualcuno. Certo se questa ipotesi si fosse verificata le sofferenze sarebbero state orribili, ma doveva correre il rischio. In fondo, doveva salvarsi anche da sé stesso e dal suo naturale attaccamento alla vita.
Diversamente dal suo solito, per paura del dolore, aveva in parte ragionato di pancia
. Era terrorizzato dal fatto di poter ulteriormente soffrire ma doveva pur sempre salvare i suoi. In fondo era per