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Ultimo mondo cannibale: Dal cannibalismo rituale al cannibalismo criminale
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E-book447 pagine2 ore

Ultimo mondo cannibale: Dal cannibalismo rituale al cannibalismo criminale

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Info su questo ebook

Il cannibalismo è riuscito ad attraversare periodi e culture diverse, continuando a destare l’attenzione degli studiosi di ogni epoca e raggiungendo la propria sublimazione tramite la trasposizione in miti e leggende, fino a raggiungere i giorni nostri, quando tale pratica sembra essere ormai completamente estinta. Il dissolversi delle condizioni che ne favorivano l'esistenza e l’emergere della cosiddetta società civile hanno contribuito, almeno apparentemente, alla scomparsa dell'antropofagia, trasformando una pratica ricca di simbologia e significati intrinsechi in un tabù inviolabile. Il presente volume si prefigge di dimostrare, attraverso un percorso che partendo dall’Antropologia culturale finirà per confluire nella Criminologia, come il cannibalismo, ritenuto da molti come una pratica aberrante figlia di culture lontane dal nostro tempo, sia in realtà ancora presente, seppur in forme diverse, all’interno della nostra società, come un male primigenio nascosto nei più oscuri meandri dell’animo umano.
LinguaItaliano
Data di uscita6 apr 2023
ISBN9788855491976
Ultimo mondo cannibale: Dal cannibalismo rituale al cannibalismo criminale

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    Anteprima del libro

    Ultimo mondo cannibale - Umberto Di Patti

    INTRODUZIONE

    Il primo documento che attesta un caso di cannibalismo viene generalmente attribuito a Erodoto di Alicarnasso, storico greco vissuto nel V secolo a. C., il quale raccontava di aver assistito a tale pratica presso alcune popolazione barbare di lingua scita che si erano stabilite lungo le coste nord del Mar Nero. Nei secoli successivi, esploratori e conquistatori continuarono il lavoro dello storiografo, riportando notizie di popolazioni dedite all'antropofagia sparse in ogni parte del mondo conosciuto.

    Il cannibalismo, dal punto di vista storico, è riuscito ad attraversare periodi e culture diverse - continuando a destare l'attenzione degli studiosi di ogni epoca e raggiungendo la propria sublimazione tramite la trasposizione in miti e leggende - fino a raggiungere i giorni nostri, quando tale pratica, a parte l'eccezione di qualche tribù del Pacifico, sembra essere ormai completamente estinta. Il dissolversi delle condizioni che ne favorivano l'esistenza e l'emergere della cosiddetta società civile hanno contribuito, almeno apparentemente, alla scomparsa dell'antropofagia, trasformando una pratica ricca di simbologia e significati intrinsechi in un tabù inviolabile. Nonostante questo però, non sono poche le cronache, più o meno recenti, che riportano notizie di individui che, in un singolo evento o in azioni reiterate nel tempo, dando libero sfogo alla propria aggressività, si sono lasciati andare a episodi di antropofagia.

    Il seguente studio si prefigge di dimostrare come il cannibalismo, ritenuto ormai solo una pratica aberrante figlia di culture primitive lontane dal nostro tempo, sia in realtà ancora presente, seppur in forma diversa, all'interno della nostra società. Il lavoro si struttura lungo l'arco di quattro capitoli, suddivisi a loro volta in paragrafi e sottoparagrafi, ed è completato da una piccola appendice.

    Nel primo capitolo, dopo aver attenzionato il cannibalismo nel mondo dei primati, particolarmente importante se visto in un'ottica comparativa, percorreremo la storia dell'antropofagia attraverso un rapido ma esauriente excursus storico, dalle origini di questa antica pratica, le cui prime tracce risalgono a un periodo protostorico, fino agli effetti collaterali causati da tale costume, non molto tempo addietro, in alcune regioni della Nuova Guinea.

    Nel secondo capitolo verranno esaminati gli studi condotti sull'argomento a partire dall'evento cruciale rappresentato dalla scoperta dell'America, in seguito al quale si accese, nell'Europa del periodo, un interessante dibattito sul cannibalismo e sulle popolazioni accusate di praticarlo. Fondamentale, da questo punto di vista, l'entrata in scena dell'antropologia culturale, il cui merito principale è stato quello di aver introdotto un approccio metodico allo studio dell'antropofagia e di aver provato, al contempo, a carpirne i significati più profondi.

    Nel terzo capitolo verranno illustrate le diverse classificazioni introdotte dagli antropologi, i quali, basandosi sullo studio della vittima oppure sull'analisi della situazione in cui si svolgeva il pasto cannibalico, hanno cercato di racchiudere in delle specifiche categorie tutte le possibili forme dell'antropofagia. In particolare, concentrandoci sul secondo tipo di classificazione, basata sul contesto e sulle motivazioni alla base dell'atto, avremo modo di analizzare gli oscuri cerimoniali del cannibalismo rituale, le implicazioni sovrannaturali del cannibalismo magico, le convinzioni alla base del cannibalismo terapeutico, le condizioni che hanno portato al cannibalismo per sopravvivenza e, infine, il percorso che ha condotto al cannibalismo simbolico.

    Nel quarto capitolo passeremo alla nostra contemporaneità ed esamineremo le nuove forme assunte dall'antropofagia in una società, come quella attuale, dove il nutrirsi di carne umana è considerato un atto esecrabile e tale pratica è divenuta, a tutti gli effetti, un crimine. Approfondiremo la trasformazione messa in atto dal cannibalismo e, dopo aver considerato le implicazioni alla base del cannibalismo curativo e la follia che alimenta il cannibalismo psicotico, ci concentreremo sul cannibalismo criminale, analizzandolo nella sue diverse forme: semplice, introiettiva ed esoterica. Infine, cercheremo di introdurre quelle che potrebbero essere le prospettive future dell'antropofagia.

    Il lavoro si conclude con una piccola appendice dedicata alla licantropia. In queste pagine avremo modo di vedere come, nel corso del tempo, la pratica cannibalica, combinandosi con elementi desunti dal folklore, abbia dato vita a una figura, quella del lupo mannaro, ambiguamente sospesa tra finzione e verità, tra mito e cronaca, tra leggenda e realtà.

    CAPITOLO I

    UNA MACCHIA NELLA STORIA DELL'UMANITÀ

    Di tutti i fenomeni, la cui stranezza è sempre tornata a più riprese a interessare la cultura europea, il fatto che gli uomini mangino i propri simili, ha in ogni tempo destato la più alta curiosità. Poiché per la concezione occidentale della vita, come per quella di quasi tutte le altre culture, l'antropofagia ha il significato di un orrore e di una incomprensibile degenerazione umana, che costituisce una macchia nella storia dello sviluppo dell'umanità.

    Ewald Volhard, Il cannibalismo

    1. Cannibalismo e antropofagia

    I

    l termine cannibale deriva da canìbal, una variante di caribal, vocabolo spagnolo che proviene, a sua volta, dalla parola caribe. Gli amerindi delle Piccole Antille utilizzavano questo termine, che nella loro lingua significava ardito, per indicare delle tribù rivali che praticavano l'antropofagia. Dallo stesso termine derivò anche la parola Caraibi e per questo, in Europa, a partire da Cristoforo Colombo, i caraibici ebbero fama di essere mangiatori di uomini. Il navigatore italiano fu il primo a convincersi del fatto che le popolazioni che aveva avuto modo di conoscere durante i suoi viaggi nelle Antille, compiuti tra il 1492 e il 1504, praticassero il cannibalismo. Non sappiamo però, e non sapremo mai, se anche i membri di queste tribù autoctone avessero l'abitudine di definire se stessi come mangiatori di uomini, dal momento che, prima ancora che si potessero effettuare degli studi approfonditi sulla loro cultura, sui loro costumi e sul loro linguaggio, queste popolazioni erano già state cancellate dalla storia¹.

    Prima ancora del termine introdotto da Colombo, che ha dato origine alla parola inglese cannibalism, oggi divenuta popolare per indicare uomini che si cibano dei propri simili, era stato utilizzato un altro vocabolo per definire tale pratica. I greci, infatti, i quali erano a conoscenza di tale costume come lo erano anche altri popoli che li avevano preceduti, utilizzavano il termine anthropophagia, composto da anthropos, uomo, e dal verbo phagia, mangiare. Letteralmente tradotto, il vocabolo coniato dai greci, da cui deriva la parola antropofagia, significava cibarsi di carne umana. Naturalmente entrambe le parti, vittima e carnefice, dovevano appartenere alla stessa specie².

    In realtà cannibalismo e antropofagia, pur essendo utilizzati ormai come sinonimi e facendo parte entrambi dell'immaginario comune, presentano due significati simili ma non uguali, dal momento che, in linea generale, il primo termine indica la pratica di mangiare i propri simili, indipendentemente dalla specie di appartenenza, mentre il secondo designa l'atto di mangiare un essere umano³.

    2. Comportamenti primordiali

    Dobbiamo innanzitutto premettere che, essendo un fenomeno biologico, il cannibalismo può essere studiato in tutte le specie animali e, nel corso del tempo, gli studi di tipo comparativo sono serviti per capire aspetti di questa pratica che prima rimanevano oscuri. In questo caso, si tratta di un comportamento che affonda le proprie radici in un passato molto lontano, probabilmente prima ancora che rettili e mammiferi si diffondessero sulla terra, ed è diventato, con il passare del tempo, un fenomeno fondamentale per cercare di mantenere un certo equilibrio nella relazione tra le problematiche demografiche e lo sfruttamento delle risorse alimentari. Il rapporto tra una specie animale e il proprio habitat naturale è risultato decisivo nella diffusione del cannibalismo come di altri comportamenti che possono essere collegati a tale fenomeno, primo fra tutti l'infanticidio. In questo senso è molto probabile che il pasto cannibalico, tra gli animali, rappresenti l'estrema conseguenza di una particolare forma di aggressività, detta aggressione intraspecifica, che si verifica tra i membri di uno stesso branco⁴. L'aggressione intraspecifica, quindi, rivolta contro un proprio simile, è un comportamento estremamente violento che, molto spesso, vuole spingersi oltre la semplice uccisione del rivale.

    L'esistenza del cannibalismo in diverse specie di scimmie, che condividono con l'essere umano gran parte del materiale genetico e anche molte caratteristiche psichiche e cognitive, è stata per molti la dimostrazione che tale pratica è esistita anche nell'uomo, nonostante poi in quest'ultimo si sia mischiata con implicazioni culturali e rituali. Premesso che i primati non appartenenti al genere umano, in linea generale, non hanno una dieta a base di carne ma si nutrono di foglie, frutta e insetti, l'alimentazione carnivora si è comunque osservata in diverse specie di scimmie, tra le quali il gorilla e lo scimpanzé, e, in alcuni casi, la carne che veniva mangiata apparteneva a un membro della propria specie. È importante sottolineare che in tutte le situazioni documentate di cannibalismo nelle scimmie, tale pratica ha sempre coinciso con l'infanticidio, mentre non si hanno riscontri di casi nei quali un membro adulto sia stato divorato da un altro adulto. Inoltre, per quanto la distribuzione del cibo tra le scimmie rivesta una grande importanza, e questo già a partire dai primati che sarebbero diventati i progenitori dei primi ominidi, durante la consumazione carnivora, sia essa di derivazione interspecifica che intraspecifica, non è stata documentata alcuna ripartizione di carne. In questo senso, l'unica eccezione, a quella che sembra comunque un'abitudine consolidata nel regno delle scimmie, sembra essere rappresentata dagli scimpanzé.

    Per quanto riguarda le proscimmie, un sottordine di primati che vivono quasi esclusivamente nelle regioni del Madagascar, dai tanti casi presi in esame risulta che il cannibalismo sia molto diffuso, più di quanto non lo sia nelle scimmie antropomorfe. Nonostante questo però, è giusto sottolineare come gli studiosi considerino quello praticato dagli scimpanzé più importante dal punto di vista scientifico, convinti del fatto che quest'ultimo possa fornirci maggiori informazioni se visto in un'ottica comparativa. Il cannibalismo nelle proscimmie, in linea generale, non è mai praticato per una necessità alimentare e non è direttamente collegato all'infanticidio, le cui cause primarie sono da ricercare altrove. A conferma di questa teoria vi è la constatazione che, dopo la morte dell'infante, solo una parte del corpo ormai privo di vita diventa oggetto di cannibalismo. A tal proposito, Angelo Tartabini, professore di psicologia dell'Università di Parma e autore del libro Cannibalismo e antropofagia, ha scritto che «i motivi sono da ricercare nel comportamento riproduttivo, nell'organizzazione sociale dei gruppi, o in altri fattori ancora, mai però nella necessità alimentare»⁵. Bisogna aggiungere, inoltre, che l'infanticidio non avviene mai in maniera diretta ma a causa dei ripetuti maltrattamenti subiti. Tali comportamenti, che possono essere messi in atto da genitori, fratelli o anche da membri dello stesso o di un altro gruppo, a lungo andare, possono causare la morte del cucciolo. Tra le varie forme di maltrattamento infantile tra le scimmie è importante ricordare il rapimento, a cui, spesso, segue l'uccisione della prole e, alcune volte, anche la cannibalizzazione di alcuni parti della vittima. In ogni caso, «nel maltrattamento, come nell'infanticidio o nel cannibalismo sono coinvolte molte variabili sociali […] e le ragioni della sua diffusione diventano tanto più complesse quanto più complessa diventa la struttura sociale in cui vivono»⁶. Secondo Junichiro Itani, antropologo di fama internazionale famoso per i suoi studi sui primati e considerato il fondatore della primatologia giapponese, una delle cause fondamentali alla base dell'infanticidio nelle scimmie, in genere, è la modificazione del comportamento delle madri, le quali, in seguito all'uccisione dei propri cuccioli, vengono indotte dai maschi ad abbandonare la cura della prole per dedicarsi nuovamente al comportamento sessuale⁷.

    Per quanto riguarda le scimmie invece, gli studiosi hanno riscontrato una maggiore predisposizione al cannibalismo da parte di quelle che vivono nel continente africano rispetto a quelle che vivono nelle regioni dell'America centrale e dell'America del Sud. In entrambe le situazioni comunque, quando un nuovo leader si impone all'interno di un branco, all'allontanamento del vecchio capobranco segue, molto spesso, l'uccisione e la seguente cannibalizzazione della sua prole. Dopo aver messo in atto questi comportamenti, il nuovo leader comincia a corteggiare le femmine a cui ha precedentemente ucciso i neonati. Il trattamento che verrà adottato dal maschio dominante nei confronti dei nuovi cuccioli sarà completamente diverso da quello aggressivo messo in atto, in precedenza, a discapito dei figli del vecchio capobranco. Lo stesso Tartabini, sempre nel suo testo sul cannibalismo, in uno dei capitoli che ha dedicato a tale fenomeno nel mondo degli animali, ha cercato di spiegare le motivazioni alla base dell'infanticidio e del successivo cannibalismo concentrandosi sulle strutture sociali delle scimmie prese in esame:

    L'infanticidio è una condizione indispensabile per il raggiungimento del successo riproduttivo del maschio dominante, e dipende dall'abilità di interferire con il ciclo riproduttivo delle femmine. Ecco perché i maschi tentano di far diminuire l'intervallo riproduttivo femminile, uccidendone la prole in tenera età. Quando i neonati sono ormai esanimi al suolo e abbandonati perfino dalle loro madri, possono ancora suscitare qualche interesse nei maschi dominanti e negli altri membri del gruppo. In questo caso i corpi vengono innanzitutto ispezionati come fossero oggetti estranei, ed è così che cominciano a essere morsicati. Poi le membra vengono strappate loro e assaggiate⁸.

    Come detto in precedenza, il cannibalismo tra gli scimpanzé è stato oggetto di maggiore attenzione da parte degli studiosi. Tra le motivazioni alla base di questo interesse, oltre alla constatazione che negli scimpanzé la pratica cannibalica è altrettanto diffusa quanto in tutte le altre specie di scimmie messe assieme, vi è anche il fatto che, pur essendo sempre accostato all'infanticidio, sono poche le occasioni in cui le due pratiche sono state documentate una dopo l'altra. A questo proposito, uno dei casi più importanti è stato raccontato da David Bygott il quale, come componente di un gruppo di ricercatori del Medical Research Council Unit on the Development and Integration of Behaviour dell'Università di Cambridge, ha condotto degli studi sugli scimpanzé del Gombe, un'area naturale protetta della Tanzania. Bygott raccontò di aver visto due femmine adulte, appartenenti a un gruppo che non conosceva, mentre venivano attaccate da un branco di cinque maschi adulti del gruppo da lui seguito. Dopo diversi attacchi e feroci inseguimenti, le due femmine erano riuscite a sfuggire agli aggressori trovando rifugio nella fitta vegetazione. Poco dopo però, secondo il racconto, uno dei maschi adulti tra quelli che avevano teso l'imboscata, era stato visto dallo studioso mentre portava con sé un cucciolo, sicuramente figlio di una delle due. Secondo il resoconto di David Bygott, il piccolo scimpanzé, pur ferito, era ancora in vita e cercava disperatamente di liberarsi mentre

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