Contributi per una pedagogia della resilienza: Atti del Convegno del 3 marzo 2018
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Anteprima del libro
Contributi per una pedagogia della resilienza - AA.VV.
Silvia Vegetti Finzi, Psicologa e scrittrice – Una bambina senza stella
Un paese che ignora il proprio ieri
non può avere un domani.
Indro Montanelli
Innanzitutto vorrei ringraziare tutti i presenti per essere qui in una giornata così difficile dal punto di vista climatico e soprattutto vorrei ringraziare L’Associazione Montessori di Brescia per un invito che mi onora.
La mia gratitudine va poi a Rosa Giudetti che, programmando la giornata di lavoro, ha tenuto conto della difficile situazione in cui mi trovo.
Per la stessa ragione mi giustifico con voi e vi chiedo scusa se non mi fermerò al pomeriggio. Un familiare molto malato mi costringe a tornare a casa il più presto possibile. Vi prego di tener conto di questo. Grazie infine per aver posto, come illustrazione di questo importantissimo convegno, la copertina del mio libro Una bambina senza stella, Rizzoli Milano, di cui questa mattina vorrei leggere alcuni stralci, poche pagine, non temete.
Quanto ai contenuti affrontati, considero molto opportuna la presentazione dell’argomento resilienza
e particolarmente interessante l’accostamento fra resistenza e resilienza.
Secondo me le due modalità di reagire alla frustrazione possono essere compatibili, possono coesistere. Non necessariamente dobbiamo pensarle come due poli opposti e oppositivi. Si può essere al tempo stesso resistenti e resilienti. La resistenza è un’attività di cui sono particolarmente capaci le donne in quanto per secoli, racchiuse nella casa e nella famiglia, più che la resilienza hanno esercitato la virtù della resistenza. E sarà appunto con la storia di una bambina resistente ai traumi della vita che cercherò di dimostrare questa tesi, ricordando che il dolore dei bambini non cade mai in prescrizione.
Tornando ora alla resilienza, vorrei osservare che non si tratta, come spesso si crede, di un ripristino della situazione precedente. Non si torna mai psicologicamente alla condizione che si era abbandonata perché ogni dinamica ci trasforma. Ogni passo avanti, il fatto stesso di compiere una evoluzione psicofisica, comporta sempre una modificazione radicale: dopo ogni evento non saremo mai più quelli di prima. Forse i metalli possono tornare a essere quello che erano, le persone no. Per noi è sempre possibile un cambiamento, e si spera sia un cambiamento positivo. Questa disponibilità fa sì che l’educazione possa condurre a quella che Fulvio Scaparro chiama nel suo ultimo libro La bella stagione.
Ciò che vogliamo raggiungere con il metodo montessoriano è una bella stagione della vita. Ma anche qualche cosa di più. Montessori non è soltanto una pedagogista, è anche una grande utopista, è una filosofa che propone un mondo nuovo, un uomo nuovo. Siamo nei primi anni del novecento, epoca delle grandi utopie sociali e di grandi sogni di cambiamento. L’uomo nuovo
era propugnato da tutti i totalitarismi: dal fascismo, dal nazismo, e dal comunismo. Ma l’uomo nuovo auspicato da Maria Montessori ha qualcosa di diverso dagli altri. Il fatto che, per lei, non vi sia un potere politico che decide come deve essere l’uomo nuovo è determinante. La promessa di cambiamento sta nei bambini, nelle nuove generazioni, non nelle precedenti.
Maria Montessori, da vera pedagogista, si piega pertanto sul bambino, lo osserva, lo ascolta, convinta che in ogni bambino esista in germe un uomo nuovo, portatore di un mondo nuovo. Nel bambino in atto, nel non-adulto che ha di fronte, scorge l’uomo in potenza, l’adulto responsabile e competente che, se ben accompagnato, potrà diventare. Porre al primo posto il bambino, come propone Maria Montessori, non vuol dire soltanto collocarlo al centro dell’attività didattica ma significa molto di più: vuol dire porlo al centro del mondo, al centro della società, al centro dei suoi ideali. Progettare una politica a misura di bambino vuol dire pensare una politica aperta al futuro e valida per tutti. Ma, per ottenere uno sguardo così vasto e profondo occorre essere capaci di ricordare il passato, di tornare indietro per prendere la rincorsa e saltare più avanti e più in là. Il senso storico è indispensabile per progettare un futuro possibile e desiderabile. Chi non sa da dove viene non sa come procedere.
Conoscere da dove veniamo ci aiuta per sapere dove vogliamo andare.
Dedico pertanto il mio discorso, che spero stia nei tempi, a Maria Montessori, alla sua vita di cittadina del mondo, al suo amore mai sdolcinato, un amore vero, un amore al tempo stesso razionale e passionale per i bambini. In particolare vorrei concentrarmi sulla frase che il bambino rivolge all’adulto aiutami a fare da solo
. Una frase sempre citata ma, di questi tempi, sempre più elusa.
In realtà le famiglie, che amano più che mai i loro figli (ma anche l’amore può essere troppo) si mostrano molto insistenti nel provvedere, nel seguire, nell’evitare ai bambini di fare da sé.
Fare da sé
comporta inevitabilmente di affrontare qualche rischio e, nell’epoca delle Assicurazioni, le giovani famiglie sono incapaci di ammettere che i bambini, per divenire autonomi e indipendenti, devono poter correre qualche rischio.
Come sono solita affermare, questa è la prima generazione che non conosce le ginocchia sbucciate. Per evitare che si facciano male si proibisce ai bambini e ai ragazzi di saltare un ostacolo, di guadare un fosso, di salire su un albero, di allontanarsi da casa anche di poco per mangiare un gelato o andare a trovare un amico. Non vanno più a scuola da soli neppure quando sarebbe possibile, come nei piccoli centri.
In realtà, basterebbe qualche avvertenza: la presenza di nonni come volontari, un percorso facilitato, il controllo di qualche vigile urbano. In realtà, meno bambini circolano sulle strade più le strade diventano pericolose. Un fiume di scolaretti che camminano sui marciapiedi costituisce già una garanzia di sicurezza.
Ma abbiamo paura, non riusciamo a superare l’ansia che i bambini siano messi in pericolo. Ma senza rischi non si cresce, affrontare qualche impervietà della vita è necessario altrimenti non si producono gli anticorpi contro i traumi che, grandi o piccoli non mancano mai. Il compito di valutare il limite sta ai genitori, che spesso chiedono ma qual è il giusto rischio?
. Il giusto rischio va commisurato su ogni bambino: dev’essere un rischio ragionevole tenuto conto delle sue possibilità. Deve essere un rischio che minimizza le eventualità negative e, per quanto possibile, incrementa gli aspetti positivi: la fiducia, l’iniziativa, la resistenza, la resilienza e la creatività.
Il bambino che non ha mai messo alla prova il suo corpo per superare un ostacolo, che non si è mai risollevato dopo essere inciampato, non si conosce. Non osa tentare perché non è consapevole delle sue possibilità e tanto meno delle sue potenzialità.
Saper calcolare le probabilità d’insuccesso ogni volta che si affronta un compito nuovo, ammettere di poter errare per ritentare è la condizione necessaria per l’emergere del pensiero creativo.
Uno dei maggiori contributi della pedagogia e della didattica montessoriana è proprio essere attente, non alla ripetizione, non al saper ripetere una lezione, ma a comprendere il meccanismo del ragionamento e trovare qual è il senso di quello che si sta facendo.
Vorrei osservare che il mondo sta cambiando, e rapidamente. Ma nessuna innovazione è per sempre, ferme restando le basi. Tornando alle radici storiche