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Garibaldi
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E-book284 pagine4 ore

Garibaldi

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Info su questo ebook

Una biografia di Garibaldi, composta nei primi del Novecento, destinata ai giovani e con uno stile incredibilmente moderno. I lettori ripercorreranno insieme tutta la vita dell'"eroe dei due mondi", partendo dall'infanzia, passando per i viaggi in Sudamerica, fino ad arrivare all'impresa che getterà le basi per l'Unità d'Italia. Giuseppe Garibaldi verrà così inquadrato a tutto tondo, e le sue gesta narrate in una prosa scorrevole e leggera. -
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2022
ISBN9788728157664
Garibaldi

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    Anteprima del libro

    Garibaldi - Eugenio Checchi

    Garibaldi

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1907, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728157664

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Al mio piccolo Leopoldo Eujenìo perchè impari un giorno la Storia del Risorgimento Italiano.

    La Vita di Giuseppe Garibaldi

    I

    L’Eroe.

    Per chi si accinge a scrivere di Giuseppe. Garibaldi, il pericolo più grande è di lasciarsi vincere e padroneggiare dall’entusiasmo. Dalla sua morte sono trascorsi ventotto anni appena: vivono ancora a centinaia di migliaia persone che lo conobbero, o lo videro, o avrebbero potuto conoscerlo o vederlo: se la fortissima fibra onde era temprato gli avesse consentito di raggiunger i cento anni di vita, egli assisterebbe oggi, consapevole, alla grande apoteosi del nazionale riscatto. Ma non ostante questo, la figura di Giuseppe Garibaldi pare già così lontana da noi, così circonfusa nel vortice dei secoli, da far supporre che tutto in lui sia leggendario: i giovanili viaggi, le lotte contro gli elementi, le imprese di guerra, le vittorie miracolose, le conquiste inaudite.

    Altri uomini del secolo che fu suo, e che vollero associati alle ardite imprese del riscatto nazionale il braccio e il nome di Giuseppe Garibaldi, appartengono alla storia della patria: i loro nomi sono Vittorio Emanuele II, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini. Ma Giuseppe Garibaldi, che ha segnato col sigillo della sua spada le più roventi pagine della storia d’Italia, non può essere giudicato con i criteri comuni. Egli sfugge al sottile ragionamento del filosofo della storia, come seppe, durante l’avventurosa sua vita, sfuggir sempre di fra le maglie delle reti diplomatiche, che i Governi impensieriti gli ordivano intorno.

    Le gesta da lui compiute sono d’ieri: sono ancora superstiti migliaia di compagni che combatterono insieme con lui: eppure la leggenda garibaldina pare così remota nel tempo e nello spazio, così favolosa nelle origini e negli svolgimenti, che il pensiero nostro non la raffigura e non la immagina, se non come la geniale guerresca invenzione di antichi poeti.

    Verrà giorno in cui lo storico di Giuseppe Garibaldi sarà ritenuto colpevole di alterazioni profonde della verità, perchè le verità da lui raccontate parranno inverosimili e incredibili. Come noi, ammirando Omero, non potremmo mai credere veramente esistiti tutti i personaggi dell’Iliade, così i posteri più lontani supporranno che Giuseppe Garibaldi, anche se visse, non potè aver compiute lui solo, con poche migliaia di uomini, imprese straordinarie, di cui pochi, esempî registra la storia dell’umanità.

    Ma o leggenda fantastica, o mito eroico, o simbolo della irresistibile forza popolare, il nome e la ricordanza di lui sopravviveranno nei secoli, con maggior durata del marmo e del bronzo che ne perpetuano le virili sembianze.

    Prima di raccogliere le sparse memorie di una fra le più grandi vite di uomini di guerra, ascendiamo il colle Gianicolo, custode geloso e guardingo della statua equestre di Giuseppe Garibaldi, che sorge sotto il bel cielo di Roma, tra il verde intenso delle piante, in un gemmato cerchio di digradanti colline. Là sotto, come adagiata mollemente sulle due rive del Tevere, la città snoda le sue mille arterie, e pare si prolunghi fino ai piedi delle montagne che azzurreggiano in lontananza; par che domandi un più dilatato spazio per camminare ancora, per spingersi ancora in avanti, desiderosa di proseguire, nella fatale andata, incontro ai secoli che verranno.

    Il sacro fiume, quasi gli dolga di allontanarsi, cerca nelle sinuosità delle rive un pretesto per serpeggiare lento, e indugiarsi in cammino. Guardandolo, la nostra mente rievoca i tempi dell’antica grandezza: ma di contro alle immagini degli eroi di Roma, superstiti idealmente, a traverso le vicende memorabili, nella storia, si leva gigante quest’altra immagine dell’Eroe unico al mondo, attorno al quale i secoli futuri intrecceranno una sfavillante ghirlanda di miti, quali forse non ebbero i personaggi favoleggiati da Omero e da Virgilio.

    E così pensando, gli occhi nostri si fermarono a guardare la statua, che ha la posa tranquilla e marziale, di chi, giunto al compimento dell’opera, ritorna sopra sè stesso, e aspetta serenamente il giudizio dei posteri.

    È prossima l’ora del tramonto: Roma, fiammeggiante sotto il sole, dà la immagine di svegliarsi dal letargo in cui l’aveva immersa la caldura della giornata estiva.

    Cupole, campanili, torri, tetti, terrazzi emergono dalla sottile caligine vespertina: e obbedendo ai capricci fantastici della luce, che si oscura a un tratto per il trapassar di una nuvola e torna subito dopo a risplendere, essi ora si attenuano, si abbassano, si allontanano; ora risorgono ingranditi, luminosi, vicinissimi, come se mani iperboliche e invisibili li spingano e li trasportino. Scintillano sulle colline i lucidi cristalli di Frascati, di Rocca di Papa, di Monte Porzio.

    Una vita arcana palpita nella grande immensità dell’Urbe; e i venticinque secoli di memorie che vi si accumulano direste che, risalendo anch’ essi il sacro colle, vengano ad adagiarsi ai piedi del monumento: perchè nel nome e nella vita di Giuseppe Garibaldi sta scritto l’ultimo capitolo della grande epopea di Roma.

    Pochi uomini nella storia dell’umanità, pochi personaggi sbocciati dalla favola, pochi guerrieri cantati dai poeti dell’antichità e dell’evo medio, sono paragonabili a Lui per quel che v’ha di meraviglioso nelle opere da loro compiute: ma quelle imprese tramandate fino a noi dagli storici, dai rapsodi, dai poeti, la fantasia popolare se le è foggiate a modo suo, ingrandendole. Invece Giuseppe Garibaldi è la splendida personificazione della storia, è l’uomo sfidatore dei tempi futuri, è il rappresentante di un’idea, di un principio, di una civiltà. Di lui s’impadroniranno i poeti dell’avvenire, e ne celebreranno le gesta: ma la parola alata della poesia e i più audaci voli dell’immaginazione rimarranno sempre inferiori alla realtà.

    Il sole declina a ponente, sparisce dietro l’ultima riga della vasta pianura, di là dalla quale s’indovina, si presente il mare. Scendono a poco a poco le ombre sulla città immensa: gl’indistinti mormorii, che rivelano l’affaccendarsi di un popolo, li diresti un’eco sopravvissuta di memorie vetuste, quasi un palpito cosciente dei secoli che furono. Brilla solitaria una stella, nel cielo di colore di fiamma viva: a poco a poco le tenebre guadagnano l’erta, mentre laggiù, in basso, migliaia di lumi si accendono, come smisurati lucenti monili che inanellino la città.

    Attorno al monumento dell’Eroe è silenzio: ma, di quando in quando, lo interrompe il susurrare degli alberi, che fanno corteo alla quercia dell’immortale cantor di Goffredo. A una a una tutte le altre stelle risplendono: e sotto il tremulo chiarore sembra che le slanciate figure di bronzo, emergenti dalla base granitica, si distacchino con le armi in pugno, per combattere ancora, per vincere, per morire: sembra che dal Viale, intitolato agli eroici difensori di Roma, i busti marmorei di Angelo Masina, di Lodovico Calandrelli, di Nino Bixio, di Nicola Fabrizi, di Luciano Manara, di Goffredo Mameli si risveglino, per la virtù di un incantesimo arcano, col potente anelito d’una seconda vita, e accorrano obbedienti al noto richiamo, alla parola d’ordine del loro duce.

    La fantasia del riguardante anch’essa si anima, nell’irrompente tumulto delle memorie, e vede, intravede, immagina, sogna. Ecco l’animoso Lodovico Calandrelli puntare ancora una volta, dal bastione della città datogli in custodia, i cannoni che fulminarono le schiere dcll’Oudinot: ecco il Masina, che nel silenzio della notte cerca ancora la fatale scalinata della Villa Corsini per correre all’assalto: e Nino Bixio, fulmineo come Achille, terribile come il Telamonio; e Luciano Manara, che disperando della vittoria cerca affannosamente la morte e la trova; e Goffredo Mameli, poeta soldato, Tirteo dell’Italia risorgente, che domanda ai chirurghi, dopo che gli hanno amputata una gamba, se gli sarà ancora possibile salire a cavallo e combattere.

    Tutti si schierano ai piedi del monumento, tutti si prostrano. Non sono più busti marmorei, sono persone vive che palpitano, che chiedono, che implorano: palpitano d’amore per quella madre Italia che vollero libera, e fecero gloriosa; chiedono che nell’ora del pericolo, il grande capitano scenda dal piedistallo e li guidi all’estreme battaglie; implorano che per il sangue sparso da loro, la patria sia grande nell’avvenire, quale essi la vaticinarono nei trepidi sogni dell’età giovanile…………………………..

    Ma la notte è alta, nessun rumore turba la solennità di quell’ora: Roma scintilla, per mille e mille lumi, sulle due sponde del Tevere. Una voce, a un tratto, si leva nell’aria immota, e ripete i primi versi dell’Inno fatidico:

    Si scopron le tombe, si levano i morti,

    I martiri nostri son tutti risorti.

    II.

    I primi anni: le prime scappate: i primi viaggi.

    L’infanzia di Garibaldi è poco dissimile da quella di tutti i figliuoli della Riviera. Nacque a Nizza, appartenente allora alla Francia, il 4 luglio 1807. Il padre Domenico e la madre Rosa Raimondi avrebbero voluto fare di lui un pacifico professionista: e naturalmente non sfuggirono più tardi al rimprovero di aver contrariata la indole irresistibile del fanciullo: ma il loro affetto, ombroso ed inquieto, sognava e indovinava pericoli anche dove non c’erano: vollero perciò che il ragazzo incominciasse di buon’ora il tirocinio della scuola.

    Non importa conoscere a fondo le leggi scolastiche che governavano al principio del secolo decimonono gli Stati del Re di Sardegna (leggi non mutate dal nuovo Governo Francese), per immaginare qual miserabile cosa dovesse essere allora l’insegnamento pubblico e privato; e che cosa avesse potuto apprendere, in que’ primi anni di svogliate applicazioni e di più svogliate letture, il piccolo Giuseppe.

    Di quelli anni, di quelli studi, di quei maestri non troviamo nelle memorie autobiografiche dell’Eroe che poche traccie fuggevoli. Egli cita il nome di due insegnanti: il padre Giaccone e il signor Avena: ma che cosa questi valentuomini gl’insegnassero, e se quell’abborracciata infarinatura delle prime regole grammaticali gli fosse somministrata in una scuola o nella casa paterna, non possiamo argomentare. Si sa (lo lasciò scritto Garibaldi) che il signor Avena lo avviò allo studio della lingua italiana «con la lettura della storia romana»: bizzarro modo veramente d’insegnare una lingua. Ma la gratitudine di Garibaldi per quel suo maestro ebbe piuttosto origine dal vedersi dischiuso, per opera di lui, con i capitoli di quella mirabile storia, uno spiraglio nei campi della fantasia.

    La parola «libertà» avrà forse balenato la prima volta nella mente del giovinetto con la gagliarda immagine di Bruto: e se niente niente quel bravo signor Avena, soldato di professione, sortì dalla natura indole generosa e guerriera, avrà anche saputo spiegare e illustrare all’alunno, con infiammate parole, quei fatti, quelli uomini, quelli ardimenti.

    È facile dunque pensare che cosa dovette seguire allora nell’animo del fanciullo. Il germe della vita avventurosa, che si annida un po’ nel sangue di tutti noi, si svolse in lui rapidamente, e crebbe rigoglioso: lo spettacolo poi di quel mare azzurro, la vista delle navi che approdavano o salpavano dal porto, il rimescolìo e il brusìo della vita marinaresca, e quel trovarsi ad ogni momento a tu per tu con gente che discorreva di navigazioni in paesi lontani, di lunghe traversate, di pericoli corsi, di burrasche superate; tutto questo, unito e mescolato alle poche e vaghe cognizioni affastellate nella memoria, ebbe una decisiva influenza a martellare il carattere di Beppino, a fargli nascere in cuore il desiderio irrefrenabile dei viaggi e della vita libera, la smania e la voluttà del pericolo.

    Passar lunghe ore, immobile sulla spiaggia, a contemplare la bella distesa delle acque; saltare in una barca, e afferrati i remi uscir fuori all’aperto con qualche suo compagno della medesima risma; gettarsi a capofitto in mare e ricomparire alla superficie parecchi metri distante; ecco le sue più gradite occupazioni. Che a tredici anni egli maneggiasse il remo con maggior disinvoltura della penna, nessuno potrà metterlo in dubbio: che le sue membra di svelto scoiàttolo si trovassero a miglior agio sdraiate al sole, o cullate mollemente dall’onda piuttosto che inchiodate sopra una panca di scuola, si comprende facilmente da tutti.

    Già a otto anni, nuotatore audace, salva dall’acqua una donna in procinto di affogare: pochi anni dopo vede una barca che sta per capovolgersi, e nonostante che il mare sia terribilmente infuriato, si butta a nuoto e salva tre o quattro vite. Questa del nuoto è una delle poche, forse l’unica vantazione di cui Garibaldi si compiacesse. Era solito dire che non sapeva dove avesse imparato a nuotare: eppure diceva di sè: «Io sono uno dei più gagliardi nuotatori che esistano».

    Alessandro Dumas, che ebbe dal Garibaldi le Memorie autobiografiche, fa dire al suo eroe di avere imparata la ginnastica arrampicandosi alle sartie dei bastimenti, e scivolando ingiù lungo i cordami; in quanto alla scherma, la imparò tentando difendere la propria testa, e spaccando la testa degli avversari. Il Dumas fa qualche volta un po’ a fidanza col suo protagonista, e lo scambia volentieri con un d’Artagnan. Voler trovare in lui adolescente i rudimenti dell’uomo grande, dell’eroe omerico, è la stessa cosa che rimpiccolirlo. Garibaldi, in tutti i periodi della avventurosa sua vita, ebbe doti principalissime la semplicità e la bontà: come si commoveva alle immeritate sventure dei propri simili, così l’anima gli si accendeva di nobile sdegno tutte le volte che vedesse commettere una ingiustizia. Ma da questo al voler fare di lui ragazzo un vendicatore degli oppressi, e un cavaliere dell’umanità, ci corre.

    Che egli fosse pronto di mano per rintuzzare le offese, e dèsse retta agli impeti di una natura impulsiva piuttosto che al pacato ragionamento, è possibile. Usciva da una famiglia di marinai: la sua educazione si era fatta non precisamente sui banchi della scuola, ma nella rumorosa baraonda di una città di mare, nel continuo andirivieni di barche e di bastimenti, e in conspetto di quell’orizzonte sconfinato che lo attraeva potentemente. Le sue ambizioni non potevano dunque essere che una sola: diventar marinaio.

    E fu marinaio a dispetto di tutti. Taluni monelli del porto con i quali Beppino si divertiva a fare la lotta, o a chi nuotasse più veloce, o rimanesse più tempo sott’acqua, erano anche compagni suoi di sventura nelle lezioni che impartiva il maestro. Ora accadde che un giorno, mentre la voce monotona del Giaccone spiegava un noiosissimo teorema, le tende della finestra si agitarono e si gonfiarono, mosse dalla brezza marina. I ragazzi alzano la testa, fiutano l’aria, comprendono che la giornata è bella, che il cielo è puro, che il mare è increspato. Una maledetta voglia s’impossessa di loro: interrompono con un pretesto la lezione, escono all’aperto, corrono alla spiaggia, respirano a pieni polmoni. Sono in quattro: ce n’è più che abbastanza per mettere assieme un equipaggio.

    — E se noi c’imbarcassimo per correre sul mare? — così dice Beppino.

    Gli altri acconsentono. Il futuro rapitore dei due piroscafi che dovevano condurre i Mille a Marsala, adocchia un battello da pesca attaccato alla riva: vi salta dentro, i tre amici Io seguono, afferrano i remi, escono all’aperto.

    Dove vanno? Nessuno di loro lo sa. Idee confuse di libertà che li sottragga alla tirannia insopportabile della scuola, istintivo bisogno di emanciparsi da tutto quello che la vita ha d’impacciato e di convenzionale, ma sopratutto un certo spirito di avventura, alimentato forse dalle letture di novelle fantastiche, e dai racconti degli uomini di mare che tornavano dai paesi lontani, tutto questo aveva servito di sprone a quella scappata fuori del nido.

    I genitori dei quattro fuggitivi, non vedendoli tornare s’impensieriscono, corrono al porto, domandano: la notizia della fuga è confermata da più parti. Si spedisce una barca a raggiungere i quattro monelli: più fortunati della squadra borbonica, che non riuscì quarant’anni dopo a fermare Garibaldi navigante verso la Sicilia, gl’inseguitori scoprono ben presto il nemico, gli si avvicinano, gl’impongono la resa, lo sequestrano: e i quattro prigionieri, consegnati dopo poche ore alle famiglie, scontano con rabbuffi e con minaccie di più severi castighi la inaspettata ribellione.

    Ma Garibaldi non cede. Ha gustato il prezioso frutto della libertà, sedendo al timone di quell’umile battello da pesca, ha creduto di poter essere anche lui uno dei signori del mare, ha sentito il vento del largo battergli in pieno sul viso e agitargli i biondi capelli. Invano la buona madre, adorata come una sacra immagine da Beppino, tenta persuaderlo di desistere dal proposito di diventar marinaio. Il ragazzo le si getta piangendo fra le braccia, ma non può rinunziare a quel suo splendido sogno. Egli vuol essere e sarà uomo di mare, come il padre suo, come il nonno, come il bisnonno, come tutti i suoi antichi.

    E i genitori, benché a malincuore, acconsentirono. Il giovanetto prese imbarco sopra un brigantino che faceva vela per Odessa, e di lì a pochi giorni, equipaggiato di tutto punto per cura della madre amorosa, Giuseppe Garibaldi salpava da Nizza per il suo primo viaggio.

    Fu preso a bordo in qualità di mozzo, ma non ci vollero molte lezioni perchè egli imparasse il mestiere. Buono, servizievole, disciplinato, seppe accaparrarsi la benevolenza del capitano, la simpatia dei compagni; e in pochi giorni non ebbe più bisogno d’insegnamento. Negli ultimi anni della sua vita egli riandava spesso con la memoria a que’ primi passi della carriera marinaresca, alle belle notti stellate che egli passava sdraiato sul ponte; e confessava che lo spettacolo di quegli sconfinati orizzonti e di quella pace solenne, la vista di nuove spiagge, di città, di paesi che si profilavano nelle lontananze della terra e del mare, quello spettacolo cosi vario e così luminoso, gli fece comprendere quanto fosse bella la sua cara patria, l’Italia.

    I biografi romanzeschi di Garibaldi vorrebbero dare ad intendere che quel primo viaggio ispirò al giovine marinaio l’idea della futura liberazione d’Italia. Sono questi gli innocenti anacronismi della leggenda che incomincia a far capolino: e se più tardi, al ritorno dal viaggio in Oriente, il signor Domenico Garibaldi preso con sè il figliuolo, lo condusse, costeggiando le sponde del Lazio, alla foce del Tevere e di là a Roma, neppur questo avvenimento poteva avere una decisiva influenza nella vita del figliuol suo.

    Ripensando a quel suo primo ingresso in Roma, potè Garibaldi scrivere nelle Memorie autobiografiche: «Roma è per me l’Italia, poiché io non vedo l’Italia altrimenti che nell’unione delle sparte membra, e Roma è il simbolo dell’unione d’Italia, comunque sia». Ma che, giovane di diciassette o diciotto anni, visitando Roma egli si sentisse affascinato talmente dalle bellezze e dalle memorie dell’eterna città, da giurare in cuor suo di farla libera un giorno (anche questo di lui è stato detto) è un voler fare alla palla con la cronologia e con la storia.

    Certo, di quel suo primo viaggio gli rimase tenacemente viva nel pensiero la rimembranza. I suoi studi giovanili, l’abbiamo visto, si ristrinsero a un po’ di storia romana: è naturale quindi che egli, visitando i luoghi in cui si svolsero gli avvenimenti letti e commentati dal maestro, provasse, insieme con la curiosità impaziente, una fiera commozione dell’animo: ed è anche probabile che nel Foro, nel Colosseo, al Campidoglio, egli facesse rivivere nella fantasia gli eroi della storia, e s’intrattenesse con loro interrogandoli, e quelli (come direbbe il Segretario fiorentino) per loro umanità gli rispondessero. Ma da questo alle sognate rivendicazioni ci corre: e se negli scritti, nelle lettere, nelle conversazioni familiari degli anni venuti dopo, Giuseppe Garibaldi accenna a quel primo viaggio di Roma con una commozione sincera e profonda, ciò non lo fa diverso da tante centinaia di migliaia d’uomini, che risentirono e provarono le medesime commozioni, le identiche impressioni,… e non ebbero nome Giuseppe Garibaldi. Avesse egli parlato’o scritto diversamente, sì da dare appiglio alle fantasie dei biografi poeti, non sarebbe neanche questa una buona ragione.

    Sapete come siam fatti tutti, che ci lasciamo ingannare o fuorviare dalla memoria. La memoria, che rivive nel passato, ingrandisce fatti, oggetti, persone: dà alle cose, e anche ai sentimenti provati in epoche remote, proporzioni tanto più iperboliche, quanto più son lontani i tempi che la memoria rievoca. La distanza nello spazio attenua e rimpiccolisce; ma la distanza nel tempo ha il dono fallace di ampliare le forme, come se guardassimo il passato applicando all’occhio della memoria una lente d’ingrandimento.

    Nelle numerose peregrinazioni a traverso gli oceani e i continenti, nelle titaniche e davvero omeriche lotte contro gli elementi e contro gli uomini, Giuseppe Garibaldi avrà ricordato di quando in quando quel suo giovanile e breve soggiorno in Roma. Ripensandoci poi negli anni, in cui il suo nome veniva fatalmente associato alle imprese future che dovevano dare Roma all’Italia, egli si sarà immaginato che il concetto dell’unità italiana dovette avergli balenato alla mente fino da quando, sceso dalla tartana paterna, nel porto di Ripa Grande, vide per la prima volta le vie, le piazze, i monumenti, le basiliche della città.

    E se, vecchio settantenne, quando fulgido di gloria comparve nella Assemblea Nazionale per tentare l’attuazione di un sue splendido sogno umanitario, credette di ricongiungere, stavo per dire di riallacciare un presente luminoso alle ricordanze della prima giovinezza, vuol dire che nella sua mente le distanze del tempo e dello spazio sparivano, e a lui pareva, per un inganno inconsapevole della memoria, di aver sempre proseguito e accarezzato un ideale immutabile.

    Per sette o otto anni, egli viaggiò, pigliando imbarco sulle navi veliere di lungo corso: impaziente di conoscere paesi nuovi, di scandagliare nuove acque, di far suo quell’elemento instabile, capriccioso, ma al quale si sentiva avvinto da affetto come di figlio, sfidò impavido le procelle, vide in faccia più d’una volta la morte senza impallidire; e ringagliardita la fibra, di per sè robustissima, alle più dure fatiche, fu salutato (anticipazione di una più diffusa popolarità) come il più valente uomo di mare della Riviera ligure. E nel 1832 (aveva allora venticinque anni) potò essere iscritto alla Matricola dei

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