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Ferebea. Un dono nell'oscurità
Ferebea. Un dono nell'oscurità
Ferebea. Un dono nell'oscurità
E-book320 pagine4 ore

Ferebea. Un dono nell'oscurità

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Info su questo ebook

Ciò che per millenni è stato avvolto dalla nebbia del tempo e del mito, prende forma dalla penna dell'autrice, che in una visione immediata e innovativa descrive nel dettaglio la Grecia del XIII sec. a.C. con le difficoltà della vita e le bellezze di quei tempi. La protagonista, Ferebea, affronta la sorte avversa con una determinazione attribuita solo a uomini e eroi.

Dall'impresa col Minotauro, agli intrighi di corte, le guerriglie del tempo e la leggenda delle Amazzoni, essa, con la voglia di indipendenza tipica di un'eroina moderna, accompagna il lettore in un mondo antico con miti e credenze perdute, come se non fossero mai passati, accreditando anche alle figure peggiori un fondo di umanità.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mag 2023
ISBN9791221428506
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    Anteprima del libro

    Ferebea. Un dono nell'oscurità - Sabrina Nuti

    L’ORACOLO DI DELFI

    Nubi minacciose si levano all’orizzonte, oltre il massiccio Parnaso e un vento freddo soffia incessante da nord, rendendo ancora più gelidi i marmi consumati sulla via sacra di Delfi, dove Egeo, il prode re di Atene, incede impeccabile a piedi nudi verso il tanto atteso oracolo.

    Dopo un bagno purificatorio con acqua di mare e le offerte di una lira tutta d’oro e di un otre di vino del più prelibato, il sovrano si appresta a compiere il sacrificio, dovuto ad Apollo¹, immolando una capra tremante. Sfodera il suo affilato coltello dal manico di corno e lo affonda con forza nel collo del povero animale, vede il sangue fluire, mentre nei propri occhi scorrono ancora le cruente immagini di guerra e le gambe vacillano, al solo ricordo della grande carestia che affligge la sua terra. Più volte Egeo si era pentito amaramente di aver progettato, con l’aiuto dei megaresi², l’uccisione di Androgeo, figlio di Minosse³, durante i giochi in onore di Atena⁴, temendo che la sua presenza fosse un pericolo per il regno.

    Da allora, dopo un lungo conflitto con Creta dagli esiti incerti, erano conseguite una serie di carestie e calamità naturali che avevano messo in ginocchio Atene.

    Adesso, avvicinandosi all’altare sacro, il re è deciso a tutto pur di far cessare tanta sofferenza.

    A un tratto la Pizia⁵, sacerdotessa del tempio, dopo essersi purificata alla fonte Castalia e aver indossato una tunica pulita, appare da dietro una grossa colonna di marmo seguita da due sacerdoti, si posiziona al centro dell’atrio e fa cenno a Egeo di seguirla.

    Iniziano il cammino verso i sotterranei del tempio, dove la leggera foschia, causata dalle centinaia di torce appese alle pareti che riscaldano l’aria umida, dà la sensazione di avvicinarsi al caldo cuore pulsante di Apollo.

    Scendono e entrano in una sala scavata nella roccia, dove alcune ancelle e profeti li attendevano.

    Uno dei sacerdoti invita il re a fermarsi lì, mentre la Pizia procede fino a scomparire verso l’adyton⁶, la sala adiacente, con un altare interno ai piedi della grande statua d’oro di Apollo contornata da bracieri che sprigionavano i fumi di alloro e farina d’orzo bruciati.

    L’odore penetrante e fastidioso giunge fino a Egeo, che non vede cosa stia succedendo, ma si domanda come possa la sacerdotessa restare lì, a respirare per lungo tempo quei fumi.

    Ecco che improvvisamente la donna, accerchiata dai sacerdoti, si curva sull’altare, con il viso e le braccia avvolte nel vapore, resta immobile, senza dare segni di vita, mentre nello spazio visibile al re inizia una danza lenta, lunga e logorante delle ancelle.

    Egeo nell’attesa freme, ode la musica lamentosa e sente il cuore battere forte nel petto, finché la Pizia alza le braccia al cielo, indietreggia sorretta dai profeti ed esce dalla sala per andare a sedersi sul tripode, di fronte alla sacra pietra conica detta omphalos⁷, l’ombelico del mondo.

    Rossa in volto e mostrando il bianco degli occhi, segno inconfondibile del delirio, pronuncia parole sconnesse. In quel preciso momento, le ancelle lanciano una polvere sui bracieri ai lati dell’altare e mentre il fuoco divampa alto, una voce maschile calda e tonante fuoriesce dalla sacerdotessa invasata:

    «Lunghe sofferenze potrà sconfiggere l’uomo,

    solo accettando l’alto prezzo di giovani vite!»

    Chiaro, senza dubbio di interpretazione si rivela l’oracolo.

    Egeo, pallido, cade in ginocchio portandosi le mani al volto, in segno di disperazione.

    Minosse infatti aveva chiesto un tributo, che consisteva nell’inviare, ogni nove anni, sette giovani e sette fanciulle di nobili famiglie ateniesi da dare in pasto al Minotauro⁸, l’orribile mostro.

    A tutto aveva pensato il sovrano, ma non di sottostare a questo.

    L’aveva sempre ritenuta solo la folle richiesta di un nemico crudele, accecato dall’ira e dal dolore, e non una soluzione da prendere in considerazione.

    Ma il dio aveva parlato chiaro!

    ___________________

    ¹ Dio greco della profezia, delle arti mediche e della musica. Colui che, secondo la credenza greca, traina il carro che trasporta il sole nel cielo.

    ² Abitanti di Megara, cittadina della Grecia orientale nell’Attica. Fu centro politico della regione compresa tra l’istmo di Corinto, l’Attica e la Beozia (Megaride).

    ³ Re dell’isola di Creta.

    ⁴ Figlia di Zeus, è la dea greca della sapienza, delle arti e della guerra.

    ⁵ Sacerdotessa del tempio di Apollo in Delfi, scelta tra giovani virtuose, che aveva un ruolo di tramite con il divino e dava responsi ai supplici.

    ⁶ Spazio riservato ai sacerdoti in cui non era possibile entrare, tipico dei templi a culto misterico, nascosto o sotterraneo.

    ⁷ Sacra pietra scolpita con cordoni intrecciati in rilievo, dal valore religioso.

    ⁸ Figura mitologica nata da Pasifae, moglie di Minosse, e dal toro di Creta che Poseidone dio del mare aveva inviato a Minosse affinché glielo sacrificasse; dato che il re non aveva ubbidito, perché l’animale era troppo bello, e lo aveva tenuto per sé, Poseidone aveva inviato la punizione divina facendo innamorare Pasifae del toro.

    CIRCA VENT’ANNI DOPO…

    Tra tutti gli edifici adiacenti il palazzo reale di Atene, spicca modesto ma luminoso quello di Panopeo, situato proprio su un’altura; da un lato le forti mura sembrano confondersi con le rocce che calano a picco in una gola ombrosa, dall’altro si apre verso valle, con una breve scalinata che scende tra corbezzoli e fiori di campo.

    In quella posizione particolare, l’edificio si illumina di una luce rosata, quando l’alba arriva offuscata dalle nebbie mattutine di quella gola; il porticato si accende di un giallo accecante, quando il sole vi penetra dritto a mezzogiorno e la scalinata si colora di rosso fuoco, quando giunge ormai il tramonto.

    Ed è proprio su quei gradini e in quel porticato che Ferebea, con la gioia e la spontaneità ingenua dei suoi sette anni, correva e rideva felice ogni giorno, continuamente inseguita da Teope, la sua ancella affezionata, ormai nominata Epe da quella tenera vocina.

    In una mattina di sole la donna aveva preparato una sacca di pelle con delle noci, frutta e pane azimo cosparso di miele, che serviva per sfamare e soddisfare la bambina durante il cammino fuori città, poi si reca a svegliare la piccola per far visita a una casetta di pastori, come ogni tanto accadeva.

    Ferebea, che ogni volta non si spaventava certo all’idea di una buona camminata, era entusiasta e impaziente, poiché questo significava uscire dal gineceo, godersi una bella passeggiata nel bosco, per il quale era solita prolungare il cammino Teope, e girare tra i banchi e la folla del mercato al loro ritorno.

    Giunte a buon punto:

    «Fermati un attimo, per una buona volta! E fatti lavare queste piccole mani sporche di miele!» grida Teope, sorridendo e afferrando la bimba in prossimità di un fresco ruscello che scorreva all’ombra dei platani.

    «No! Le ho già leccate per bene. Sono pulite!»

    «Che le hai leccate lo so, l’ho visto, ma sono tutte appiccicose… e queste belle guancine?» risponde lei ridendo, strofinandole la faccia con un panno zuppo di acqua.

    «Epe, guarda: un’aquila!»

    «Oh! È bellissima! Speriamo che ci porti buone nuove!»

    Ferebea avrebbe voluto essere alata come Mercurio, per poter volteggiare nell’aria leggera e libera come quell’aquila, e pensava che sarebbe stato fantastico osservare i boschi e le vallate da lassù.

    La salita si faceva pesante, ma tra le cime degli alberi già si scorgeva molto vicino il chiarore dei velli bianchi delle pecore al pascolo.

    Giunte in cima all’altura si ode, sempre più inconfondibile, la dolce musica del ciondolare dei campanacci, accompagnata via via dall’odore più forte di pecora e delle erbe montane calpestate dai branchi al pascolo. Il gregge al suo passaggio lasciava sempre un tappeto di escrementi, Ferebea lo sapeva, ma non disdegnava quel fetore, almeno finché non diveniva troppo pungente.

    Da lontano, due donne le salutano, poi le accolgono amorevolmente e le accompagnano all’interno di una specie di capanna, con il tetto di paglia di segale, dove Teope lascia loro in dono delle stoffe, che sarebbero servite per dei vestiti o delle coperte e un sacco con dei legumi.

    «Grazie, cara cugina!» risponde Polissena, una delle donne; era la figlia di uno zio di Teope, alla quale lei era sempre stata molto affezionata e con la quale aveva numerosi ricordi di bambina.

    «Non sai quanto ci fanno comodo i doni che ci portate!»

    «Lo so e, se potessi, verrei ogni giorno a farvi visita!»

    «Certo, tu sei cresciuta qui con noi, sei la nostra cara cugina e noi ti amiamo molto per l’affetto che ci dimostri ancora. Sarai sempre la benvenuta e non certo per i doni, ma perché vederti ci riempie di gioia!» Poi, voltandosi verso la piccola, spiega: «Questo è il latte delle nostre pecore, che ti piace tanto e che ti dà forza» dandole un piccolo otre ben chiuso, che la bimba tenta subito di aprire.

    Teope interviene prontamente: «Dammi qua! Attenta a non versarlo e ringrazia!»

    «Grazie, Polissena!» risponde lei, baciandola.

    A Ferebea piace molto l’ospitalità che regna in quella casa di pastori e, incuriosita dalla conversazione delle donne, si siede buona su una panca ad ascoltare. O meglio, l’intento era quello, ma subito si distrae a guardare il cane del gregge, che, nell’ora del riposo, si era accucciato accanto al focolare infilando il muso sotto la coda e formando quasi un cerchio perfetto con il corpo.

    Lo avrebbe accarezzato volentieri, se non lo avesse visto così stanco da pensar bene di lasciarlo in pace.

    «Tieni, piccola, gustati questi fichi secchi, sentirai come sono dolci!» sussurra Argene, la madre di Polissena.

    Ferebea sorridendole tenta di avvicinare la panca al tavolo e viene prontamente aiutata, così, in tutta comodità, affonda i denti in quella squisitezza.

    La bambina si deliziava e intanto pensava che Polissena somigliava molto a Teope, persino nel modo delicato e disinvolto di parlare, aveva i capelli dello stesso colore rosso ramato, gli occhi chiari e brillanti, anche se Teope aveva la bocca molto più carnosa e colorita e portava i capelli corti, come si conviene a un’ancella. E, come un’ancella, aveva sempre una tunica corta, che lasciava una spalla scoperta ed era trattenuta alla vita solo da un nodo, ma la portava con tale grazia da essere talmente bella nella sua semplicità, che Ferebea pensava sempre che non avesse niente da invidiare a nessuna, neppure quando la vedeva vicino a sua madre.

    A un tratto, l’ancella interrompe i suoi pensieri.

    «Piccola mia, non mangerai tutti quei fichi? Conserviamone un po’ per domani e vai fuori a vedere i nuovi agnellini nati. Io ti raggiungo tra poco.»

    Leccandosi le dita, Ferebea esce e, trovandosi all’aperto su un bel prato verde, si allontana danzando e volteggiando, finché improvvisamente si scontra con qualcuno, sbattendo la schiena e cadendo seduta per terra.

    «Ehi, stai attenta, stupida!» Si sente dire, mentre stralunata per lo spavento si volta.

    Un ragazzino poco più grande di lei, sventolando una spada di legno, annaspava per non cadere all’indietro, poi si ferma e, chinandosi in avanti sospirando e sorridendo soddisfatto per lo scampato pericolo, la guarda.

    Ferebea, ancora seduta sull’erba, rimane colpita da quegli occhi scuri che la fissano tra ciocche di capelli neri.

    Il bambino si avvicina. «Vuoi restare lì per sempre?» chiede, porgendole la mano in segno di aiuto.

    «Grazie!» risponde lei, afferrandola e alzandosi svelta.

    «La prossima volta guarda davanti!»

    «Sì, scusa.»

    «Perché mi segui?» aggiunge lui un po’ furioso.

    «No, no! Io non ti seguo, io vado a vedere i nuovi agnellini!»

    «Anch’io! Ne sacrificherò uno, perché voglio che Atena⁹ faccia di me un grande guerriero!»

    «Un guerriero?»

    «Certo! E cosa, sennò? Lo sai? Mio padre è bravissimo, il più bravo del mondo, e mi insegnerà a combattere! Io sarò il migliore e sarò talmente forte da sollevare un toro con una sola mano! Sì! Così, così!» grida, agitando la spada e muovendosi da ogni parte. «Proprio così, lo infilzerò! Lo ucciderò quel mostro!»

    Ferebea si ferma e resta a guardarlo, incredula di fronte a tanta foga e temperamento, quando sente prendersi per mano. «Andiamo, piccola, sei ancora qui?» le domanda Teope, trascinandola verso il bosco.

    «Epe, chi era quello?» chiede, indicando il bambino che ancora combatte con il vuoto, senza accorgersi di essere rimasto solo.

    «Non lo so. Muoviamoci o faremo tardi per andare al mercato!»

    Allontanandosi, Ferebea si torceva il collo per continuare a osservare quel piccolo guerriero, poi vede che una donna lo avvicina dicendo: «Tereo! Vuoi smetterla di sognare?!»

    La piccola non era sicura di aver sentito bene come si chiamava, ma di una cosa era certa: non avrebbe mai dimenticato quello sguardo!

    ___________________

    ⁹ Atena o Pallade Atena è la dea della sapienza, delle arti e della strategia in battaglia

    LA CASA DI PANOPEO

    Dopo alcuni minuti durante i quali si affrettavano a scendere in mezzo al bosco, la piccola rompe il silenzio.

    «Non ho neanche visto gli agnellini e tu mi porti già via!»

    «Come non li hai visti? Ma se erano proprio lì, davanti a te. O eri troppo impegnata a parlare con quel bel moretto?»

    «Hai visto come urlava?» risponde Ferebea pronta, sorridendo e con gli occhi sgranati. «Ha detto che lui da grande riuscirà a sollevare un toro con una mano e che ucciderà il mostro.»

    Teope si fa seria, aggrottando per un attimo le sopracciglia.

    «Ma quale mostro, Epe?» continua lei, intenta a parlare e a guardare dove mettere i piedi giù per la discesa.

    «È un bambino, stava solo giocando con la fantasia, lo sai bene che i mostri non esistono!» la zittisce subito con un tono deciso, per mettere fine al discorso.

    Giunte di nuovo nei pressi della città, trovano le prime casupole di legno e fango, dove vivono i più poveri; qualche artigiano svolgeva il proprio lavoro seduto fuori per strada, alcune donne cucinavano su un braciere all’aperto, mentre i bambini giocavano insieme, sporchi di polvere e tormentati da mosche e pidocchi.

    Ferebea ogni volta li guarda con stupore e un po’ di compassione, anche se sarebbe attratta dall’idea di correre con loro libera di andare dovunque, per soddisfare la propria curiosità.

    Mentre Teope si ferma davanti a una di queste abitazioni per comprare delle uova, dando in cambio del pane secco, Ferebea si avvicina a un artigiano e lo osserva attentamente.

    «Come fai a costruire quel vaso?»

    «Con questo strumento» risponde lui, indicando uno strano attrezzo che lei non conosceva.

    «E come fai a farci dei disegni così belli?»

    «Basta fare un po’ di esercizio» afferma l’uomo, strusciando il dorso della mano a quel suo naso informe, pulendosi di nuovo sulla propria veste logora e sudicia.

    «Ferebea! Che spavento! Non ti trovavo più. Andiamo, o faremo troppo tardi» grida Teope.

    Entrate dalla porta principale della città e superate le guardie, le due si avviano verso la piazza.

    Al mercato, Teope acquista della frutta e delle spezie.

    «Lascia le foglie attaccate a quell’uva, ti prego!» chiede al mercante «Mi servono per imbandire la tavola.»

    «Comprami un pezzo di focaccia, ho fame!» implora intanto la bambina.

    «No, neanche per sogno! Lo sai che dobbiamo comprare solo il necessario. La facciamo noi a casa e ce n’è ancora molta, che abbiamo cotto appena ieri. Se sarai brava, te ne darò un po’ quando rientriamo.»

    Il sole volgeva ormai al tramonto e non era opportuno attardarsi per le strade, per niente illuminate e frequentate da briganti.

    Appena entrate in casa, Ferebea si rende conto di quanto fosse fortunata. Aveva ancora negli occhi quei bambini sporchi che la fissavano, mentre lei abitava in una casa che non era certo il tempio di Atena o di Apollo, solo agli dei erano riservate dimore così, ma era confortevole: al piano terra si trovavano la sala da pranzo, la cucina con un focolare in terra e pietre riscaldabili dalla brace sottostante, e adiacente la sala da bagno, in maniera che ricevesse calore dal fuoco domestico; vi erano poi una piccola stanza con un’apertura sul tetto che raccoglieva acqua piovana in una vasca, una dispensa e una sala per i banchetti provvista di piccoli tavoli tondi e lettini, nei quali mangiavano gli ospiti appoggiandosi a dei cuscini. Non erano stanze grandissime, ma ben dislocate e si affacciavano tutte su un portico interno, formando un quadrilatero.

    Dalla scala esterna si accedeva al primo piano, dove si trovavano la camera coniugale, gli alloggi maschili, due ampie stanze riservate solo alle donne, chiamate appunto gineceo e le cellette dove dormivano gli schiavi.

    Il tetto, fatto di lastre di pietra, si apriva in corrispondenza del gineceo, dove vi era un’ampia terrazza dalla quale si potevano osservare il panorama montuoso, la vallata e l’acropoli.

    Dopo una cena sostanziosa, consumata con un contorno speciale (la fame), Ferebea sonnecchia appoggiata al tavolo, tanto che Teope è costretta a toglierle pian piano il mantello e a portarla in braccio a letto, avvolgendola in una coperta di lino grezzo, adagiandola sul canniccio di giunco e preoccupandosi di sistemarle per bene sotto la testa un cuscino di piume.

    «È già a letto la mia piccolina?» sussurra piano la madre, affacciandosi alla porta.

    «Sì, signora, mi sono permessa di darle da mangiare prima del solito, perché aveva fame e si addormentava in piedi.»

    «Hai fatto benissimo! Mi dispiace un po’ non averle dato il bacio della buona notte, ma sono contenta. Le piace tanto venire con te da quei pastori e, anche se si stanca, una bella passeggiata all’aria aperta non può farle che bene.»

    «Sì, signora, e comunque dirò subito di servire a voi la cena!»

    «No, ho già dato disposizione di servirla agli uomini nella sala dei banchetti, noi ceneremo da sole. Mio marito ha ospitato dei soldati stranieri e non è conveniente, per noi donne, esporci inutilmente alla loro vista.»

    «Benissimo!» risponde lei, inchinando leggermente la testa.

    «Se non hai ancora mangiato, vieni anche tu a farci compagnia.»

    «Molto volentieri, signora.»

    Teope provava sempre un certo imbarazzo di fronte a Eglide, la padrona di casa, una donna intelligente, maestosa, bellissima, composta in ogni momento. Nonostante il tempo passato insieme e le sue maniere gentili, con le quali dimostrava di considerarla un’amica più che una serva, lei si sentiva sempre come se dovesse stare attenta a non deluderla.

    Eglide portava i suoi lunghi capelli castani raccolti e legati morbidamente fino sulla cima della nuca, dalla quale ricadevano con varie trecce sul petto e sulla schiena. Vantava i suoi natali nell’isola di Amorgo¹⁰, dalla quale si faceva arrivare le preziose tuniche di lino pregiato, molto apprezzate in Atene, che teneva fermate su una spalla da una fibbia d’oro raffigurante un sole, dono di sua madre e che lei diceva essere il sole della sua terra.

    ___________________

    ¹⁰ La più orientale delle isole Cicladi, abitata già nel 3300 a.C., influente centro con tre città, tra cui Minoa.

    IL BANCHETTO DI FERECLO

    A uno a uno, erano arrivati tutti gli invitati, lasciando i propri sandali nel porticato, così gli schiavi, dopo aver lavato i loro piedi e aver messo corone di foglie sulle loro teste, li fanno entrare nella sala del simposio.¹¹

    «Benvenuti, miei cari ospiti!» richiama l’attenzione la voce chiara e decisa di Panopeo, alto e atletico, con la sua immancabile barba rossiccia leggermente incolta, chiamato dagli amici anche Occhi di Falco per la mira infallibile in battaglia e perché amava effigi di animali rapaci, che sfoggiava sulla corazza e che spesso portava come fibula per il mantello o riprodotti nell’arredamento di casa.

    Dopo aver assegnato i posti onorifici nei letti a lui più vicini e quando tutti si erano seduti, anche in due o tre per letto, vengono portati dei recipienti per lavarsi le mani e una grossa coppa di vino aromatizzato con timo, che gli invitati sorseggiano facendola girare e dando inizio al banchetto.

    «Benissimo! Spero che il cibo vi soddisfi! Altrimenti, vi soddisferete con il vino!» grida Panopeo, alzando la coppa e suscitando una risata generale.

    Prontamente l’amico Asimaco risponde: «Certo! Se non è troppo annacquato, caro il mio spilorcio!»

    «Aspetta, spaccone! Non abbiamo ancora stabilito né l’argomento da trattare, né quante coppe di vino dovrà bere ognuno di noi! E so già che non sarai capace di sostenere né l’uno, né l’altro!» ribatte, suscitando risa ancor più grandi.

    Intanto arrivano delle cipolle bollite servite su gallette di farina d’orzo impastata e si inizia a mangiare avidamente. Le portate di purea di lenticchie, di carne di maiale aromatizzata con alloro e di selvaggina sono servite numerose e abbondanti, accompagnate da verdure e soprattutto olive, tanto che, prima ancora di passare alla seconda parte del banchetto, dedita perlopiù al bere, gli schiavi non fanno altro che andare avanti e indietro per riempire le coppe attingendo, con lunghi mestoli, dagli enormi recipienti di terracotta. In questi, situati agli angoli della sala e chiamati crateri, sui quali sono scolpite in rilievo scene di feste dionisiache e orge, prima della cena era stata messa una miscela di forte vino e miele che, nonostante vi fosse stata aggiunta acqua per abbassare i gradi, dopo poche coppe già faceva ubriacare anche il più resistente dei bevitori.

    Terminato il pranzo, inizia il momento solenne della libagione: ognuno beve un sorso e ne versa una goccia invocando il nome di Dioniso, il dio del vino e della sfrenatezza.

    «Forza, bellezza! Suonaci qualcosa di più allegro!» si rivolge poi alla suonatrice di oboe¹² Fereclo, il giovane figlio di Panopeo, a lui molto somigliante e più euforico del solito, grazie al fatto che era stato estratto a sorte per essere il Re del banchetto, colui che decide quanta acqua mettere nel vino, quante coppe deve bere ogni invitato e al quale tutti devono obbedire durante l’evento.

    «E tu?» aggiunge guardando appunto Asimaco, che già aveva la vista annebbiata tenendo in mano la coppa. «Sei già indietro di una bevuta!»

    «Cosa ti avevo detto?» esplode in una risata Panopeo, mentre getta contro l’amico ubriaco un pezzetto di pane con il quale si era appena pulito le mani.

    «Lo sai cosa ti aspetta! Alzati immediatamente! Danzerai nudo!» gli ordina Fereclo.

    Mentre i musici suonano ritmi sempre più sfrenati e le etere, donne erudite e di facili costumi, intrattengono gli ospiti danzando, cantando e passando seminude da uno all’altro, Eglide nella stanza coniugale non riesce a prendere sonno.

    Si gira e rigira nel letto e, ogni volta che prova a pensare a qualcosa che la calmi e la aiuti a cadere tra le braccia di Morfeo¹³, viene distratta dalle grida, dalle risate, dalle voci e dai pesanti apprezzamenti di quegli uomini verso le etere e i giovinetti che si aggirano tra i convitati.

    Era una situazione che si ripeteva sempre più di frequente, da un po’ di tempo a questa parte, e mentre riconosce la voce di Panopeo che blatera e ride a squarciagola, dentro di sé il suo animo si agita come un mare in tempesta.

    Forse suo marito non la considerava più essenziale come una volta? Visto che si divertiva così tanto senza di lei… Forse non la trovava più tanto bella e interessante? Dato che trovava volentieri altrove piacere e godimenti…

    A un tratto, infastidita dal canniccio del letto che, nonostante fosse coperto con pelli di agnello, aveva indolenzito il suo corpo irrequieto, si alza, indossa il mantello di lana e sale in terrazza.

    La luna, leggermente calante, risplende magnifica nel cielo stellato e il suo chiarore si diffonde tenue sulle colline e sui templi

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