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Il passato ha un prezzo: Il commissario Botteghi e una brutta storia livornese
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Il passato ha un prezzo: Il commissario Botteghi e una brutta storia livornese
E-book286 pagine3 ore

Il passato ha un prezzo: Il commissario Botteghi e una brutta storia livornese

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Info su questo ebook

Il geometra Morelli, responsabile comunale dei siti storici cittadini, viene trovato in casa pugnalato; nella mano fredda stringe un biglietto scritto in punto di morte con solo una parola: Botteghi. L’essersi scontrato con la vittima nel caso che lo aveva quasi distrutto, suona come un’accusa nei confronti del commissario, tornato sotto gli occhi di vecchi detrattori decisi a fargliela pagare. Tormentato più che mai dai fantasmi del passato, Botteghi non si dà per vinto e indagando risale a dei resti mummificati del secolo scorso rinvenuti da Morelli nella ristrutturazione della Dogana D’Acqua. Questo lo porta a inciampare in un atroce massacro avvenuto nel febbraio del 1919, sapientemente insabbiato da figure nascoste che da sempre muovono le viscere del potere cittadino. Quando capirà essersi già scontrato con quell’antica e oscura forza, Botteghi si renderà conto che la chiave della verità è nascosta proprio nel suo doloroso passato; basterà questo a salvarlo?

Diego Collaveri, dal 1992 al 2000 lavora in campo musicale, collaborando con Emi Music come chitarrista, arrangiatore e paroliere. Nel 2000 comincia a scrivere narrativa e poesia, ottenendo premi e riconoscimenti. Nel 2001 vira verso la sceneggiatura, prima teatrale e poi per il cinema breve; l’anno successivo con la prima regia vince il concorso Minimusical indetto da “la Repubblica” e Fandango, con quest’ultima collaborerà come sceneggiatore per i successivi quattro anni. Intraprende un percorso didattico/formativo con vari registi italiani (tra cui Paolo Virzì, Davide Ferrario, Ruggero Deodato, Francesco Falaschi, Umberto Lenzi), studiando storia della cinematografia mentre lavora sui vari set.Nel 2003 fonda la Jolly Roger productions, etichetta indipendente per produzioni video (videoclip, backstage, live show, booktrailer). Nel 2006 viene invitato dall’Università di Pisa, dipartimento Cinema Musica Teatro, a intervenire nell’ambito del seminario “il cinema classico Hollywoodiano”. Nel 2009 viene inserito nell’ Enciclopedia degli Scrittori Contemporanei. Nel 2013 scrive alcuni racconti noir per il settimanale “Cronaca Vera”. Dal 2014 collabora con LaTelaNera.com come critico cinematografico. Dal 2015 al 2017 è docente di sceneggiatura e storia del cinema presso Scuola di Scrittura Carver di Livorno. Nel 2018 e 2019 dona un incipit per il progetto Staffetta di Scrittura Creativa di BIMED (Biennale delle Arti e delle Scienze del Mediterraneo) per le scuole superiori, in collaborazione con Ministero della Pubblica Istruzione. Nel 2018 è tra i docenti del corso Form.Ed – Tecnico della Gestione delle Fasi di Lavorazione Editoriale indetto da Provincia di Livorno e Regione Toscana. È tra gli ideatori di “Paura sotto la Pelle”, prima rassegna di incontri in Italia dedicata al genere mistery/crime e le sue trasposizioni tra narrativa, cinema e fumetto, tenutasi a Bologna a dicembre 2017, patron Pupi Avati. Nel 2019 riceve l’Oscar Livornese, onorificenza riservata alle eccellenze cittadine che con il loro lavoro hanno portato prestigio alla città di Livorno. Finalista Premio Alberto Tedeschi – Il Giallo Mondadori 2015. Finalista Garfagnana in Giallo 2016 e 2017. Menzione speciale della giuria Festival Giallo Garda 2017 e 2018. Premio Internazionale di Letteratura Montefiore 2018categoria Special Best. Premio della Giuria –Garfagnana in Giallo 2018. Vincitore Garfagnana in Giallo 2019 sezione ebook. Finalista Premio Internazionale Nabokov 2019. Oltre alla serie Anime Assassine e ad altre opere che spaziano dal fantasy al sci-fi, nel genere noir è autore per Fratelli Frilli Editori di L’Odore Salmastro dei Fossi, Il Segreto del Voltone, La Bambola del Cisternino (in concorso al Premio Scerbanenco 2017) e Il Commissario Botteghi e il Mago – l’ultima illusione di Wetryk.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2020
ISBN9788869434716
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    Il passato ha un prezzo - Diego Collaveri

    LIVORNO, 21 FEBBRAIO 1919

    Il forte bagliore della Luna piena illuminava quasi a giorno le strade polverose della città.

    Un vento di Tramontana tagliente, freddo e impietoso come la lama di una mannaia, sferzava il pelo dell’acqua del fosso placido. L’ampio bacino che si apriva ai lati della Dogana d’Acqua, dove il canale usciva dalle mura cittadine dopo aver attraversato il quartiere Pontino, sembrava brillare come uno sciame di lucciole. Da lì il fosso si allontanava per poi confluire lontano nel fiume Arno, seguendo l’antica via d’acqua voluta dai Medici per collegare il porto di Livorno con Pisa e Firenze.

    Il silenzio della notte era rotto solo dallo sbattere dei barconi di legno scuro legati alla banchina, l’uno accanto all’altro in attesa del controllo doganale, che mossi dalla flebile corrente sembravano emettere un lugubre lamento ogni volta che cozzavano tra loro. Stivati al massimo della portata con ogni tipo di merce, alla luce dei fiochi lampioni a olio, queste imbarcazioni mastodontiche chiamate Navicelli, opere delle sapienti mani dei maestri d’ascia labronici, apparivano nel buio come grossi animali marini resi schiavi dall’uomo e confinati in quello stretto specchio d’acqua, in attesa della fine.

    Un’ombra furtiva corse lungo il muro scrostato della vicina Caserma Lamarmora, alla ricerca di un riparo sicuro.

    Una volta girato l’angolo sul bacino della Dogana, dove poco più avanti si apriva l’entrata dell’edificio, la figura si lasciò andare a un gesto di stizza notando il grande portone di legno ben serrato.

    Scrutò velocemente ogni angolo, col viso dipinto dal terrore di un pericolo pronto a saltar fuori dall’oscurità.

    La paura affannava il respiro veloce della figura, che soffiava nella notte ampie nuvole di vapore, mentre il cuore le pompava in petto così forte da rimbombare nel silenzio delle austere mura intorno.

    I grandi occhi marroni, congelati dal panico, spiccavano sul suo volto scuro grondante sudore.

    L’uomo continuava a guardarsi intorno in preda allo smarrimento più completo.

    Le mani tremavano, sia per il freddo sia per la paura.

    Un rumore lo fece trasalire, facendogli mancare l’aria nei polmoni.

    Percepì la presenza di qualcuno dietro delle botti di pece accanto alla banchina, nascosto nell’ombra.

    Uno sguardo ugualmente impaurito uscì dal buio.

    «Azizi, es tu?» biascicò in un francese impaurito un uomo con indosso la stessa divisa color deserto dell’altro, affacciandosi dal suo nascondiglio.

    «Malik!» lo riconobbe incredulo avvicinandosi quel tanto che bastava per evitare brutte sorprese.

    I due si abbracciarono cercando conforto alla disperazione.

    «Ma che sta succedendo?» chiese al commilitone.

    Malik scosse il capo, mostrando una profonda ferita aperta sopra la tempia destra.

    «Non lo so. Non lo so» rispose convulsamente. «Dobbiamo riuscire a tornare in caserma, solo lì potremo essere al sicuro».

    «E tutti gli altri?» si preoccupò Azizi.

    «Pensiamo a salvare la nostra di pelle» puntualizzò Malik guardandosi intorno sospettoso. «Sono vicini, sono passati da qui prima ma non mi hanno visto».

    «Ma perché ci danno la caccia? Che cosa gli abbiamo fatto?» s’interrogò Azizi.

    Il commilitone lo afferrò per il colletto della divisa. «Senti, io non voglio fare la fine degli altri. Dobbiamo rientrare alle Micheli il prima possibile, altrimenti uccideranno anche noi. Hai visto che bestie sono? Vuoi che ti dica cosa hanno fatto a Qwara e Rahsaan?»

    Azizi scosse il capo. «Anche Baba non ce l’ha fatta» sussurrò triste. «Ci hanno assaliti vicino al mercato, non so nemmeno per quale motivo. Sono riuscito a scappare solo perché non erano tanti e lui era talmente forte che hanno faticato per...» le parole gli si strozzarono in bocca, mentre lacrime isteriche gli riempivano gli occhi.

    «Dobbiamo restare vivi, non siamo lontani dalla guarnigione» lo scrollò Malik. «Merde; sono qui in giro, sanno che stiamo cercando di tornare lì».

    Azizi guardò con ritrovata attenzione il compagno, sapeva che ne andava della loro vita.

    «Mon dieu, sei ferito» restò impietrito notando un grosso squarcio sulla coscia destra. «Ce la fai a camminare?»

    Un brusio confuso e animato salì dal fondo della strada accanto.

    Il riflesso ondeggiante delle fiaccole sui muri scrostati poco distante gelò in un secondo il sangue nelle vene dei due uomini.

    «Vengono qui» si disperò Azizi.

    «Presto, andiamo via» suggerì Malik alzatosi dolorante, gettando il braccio sulle spalle del commilitone come appoggio.

    Un urlo squarciò il silenzio della notte.

    «Eccone due!» strillò qualcuno sull’angolo.

    D’improvviso sbucò dalla via una folla assetata di una spietata brama di sangue, che come un’onda inesorabile prese a correre in direzione dei due militari.

    Il luccicare delle lame brandite dagli aggressori brillò tra la massa cenciosa che si agitava irrazionalmente.

    Azizi sentì il corpo immobile come fosse pietra.

    «Scappiamo!» urlò Malik facendolo tornare alla tragica realtà, ma la sua gamba ferita rallentava entrambi.

    Azizi sentiva il berciare della folla farsi inesorabilmente più vicino.

    Malik continuava a incitare il compagno, guardandosi indietro consapevole del poco tempo rimasto. Alla fine si staccò da Azizi e lo spinse in avanti.

    «Va via! Scappa almeno tu!» si sacrificò.

    L’uomo cominciò a correre conscio che fosse l’unica possibilità di salvarsi.

    S’infilò tra un mucchio di casse e funi vicino alla banchina esterna, mentre le urla di Malik alle sue spalle, raggiunto dalla folla assassina, squarciavano l’aria.

    Sentiva ancora passi minacciosi seguire le sue impronte. Cercò un varco tra le pile di merce d’avanzo lasciate abbandonate accanto alla banchina, quasi a formare un labirinto irregolare.

    All’improvviso sbucò proprio a ridosso delle mura.

    Tirò un sospiro di sollievo sentendosi al riparo, lontano dalla strada principale; con un po’ di pazienza e stando bene accorto, sarebbe riuscito a sgattaiolare lungo gli angoli più bui e fatiscenti, fino a raggiungere le scuole Micheli dove era di stanza la sua guarnigione.

    Un pensiero gli attraversò veloce la mente: avrebbe trovato qualcuno dei suoi compagni ancora vivo?

    Un vociare sommesso lo riportò veloce alla cruda realtà.

    Si voltò di scatto per riprendere a correre, ma i suoi piedi inciamparono in qualcosa e franò rovinosamente su di un mucchio di assi di legno marce lì vicino.

    «Eccolo! Di qua!» si levò il grido implacabile di uno degli inseguitori.

    Azizi fece per alzarsi, ma sentì un dolore lancinante alla caviglia.

    Si sentì perduto.

    Cercò con occhi disperati un riparo.

    Poco più avanti, all’altezza di dove cominciava la banchina, notò una spaccatura che si incuneava sotto il selciato.

    Zoppicò veloce in quella direzione e si infilò nella apertura che dava in un canale fognario in disuso.

    Pensò potesse essere la sua salvezza, ma dopo pochi metri notò essere un vicolo cieco.

    Sentì da sopra venire il rumore dei passi che si avvicinavano sempre più, come la consapevolezza della fine.

    Il terrore si trasformò in lacrime disperate.

    Si rannicchiò stringendosi forte le ginocchia tremanti al petto.

    Un fascio di luce ondeggiante penetrò dall’apertura da cui si era infilato.

    Azizi chiuse gli occhi, pensando alla sua terra lontana; pregando che quella non fosse la sua ultima ora.

    LIVORNO, OGGI

    I miei passi salirono decisi le scale che portavano al piano dove avevano gli uffici i dirigenti.

    Sentivo le tempie pulsarmi forte, un po’ per lo sforzo della salita, un po’ per il nervoso di esser stato chiamato dal questore Mancusi non appena messo piede in ufficio, dove tra l’altro avevo trovato un vuoto disarmante; che strano, in genere il ritardatario ero io, chissà che fine avevano fatto Busdraghi e Mantovan?

    Guardai di sfuggita attraverso i finestroni della Questura il grigio novembre che avvolgeva la città; sembrava che da lì a poco si dovesse scatenare un nubifragio, ma se c’era una cosa che avevo imparato su Livorno era che la sua capacità di burlarsi delle previsioni meteo era forte quanto il vento che si alzava improvviso per liberare il cielo e far splendere un sole improbabile fino a pochi istanti prima.

    Finalmente arrivai all’ultimo piano, non senza fiatone.

    La calma che aleggiava per quei corridoi era così lontana dal frastuono brulicante di agenti affaccendati che si respirava poco più in basso.

    Mi ci volle un po’ prima di placare l’affanno, dovevo davvero decidermi a smettere di fumare se volevo sopravvivere.

    Inchiodai i passi davanti alla porta marrone scuro di Mancusi.

    Cercai veloce in testa quale delle mille probabili ragioni, dovute al mio comportamento poco incline a regolamenti e procedure, mi avesse fatto guadagnare questa volta l’ennesima visitina dal Preside, ma mi arresi di fronte al voler scovare una goccia nel mare; così sospirando bussai.

    La voce che giunse dall’altra parte risuonò scura e profonda.

    Rassegnato all’ennesima ramanzina, che per ragioni al momento ignote mi sarei sorbito di lì a poco, entrai mesto.

    Mancusi se ne stava seduto dietro la scrivania, intento a leggere delle carte. Gli occhiali fini calati sul faccione sempre accigliato, celavano uno sguardo penetrante, pronto a coglierti in fallo ad ogni minimo passo falso.

    Era un uomo burbero e molto tagliente, come tutti quelli nati e cresciuti sull’Isola d’Elba, ma sapevo quanto mi stimava e il modo, nel tempo, in cui si era esposto in mia difesa durante i momenti più scuri.

    «Eccomi; cos’ho combinato oggi?» la buttai sul ridere, sedendomi di fronte a lui.

    Il Questore alzò lentamente gli occhi sospirando, per poi squadrarmi bene qualche secondo in silenzio.

    «Dove ti trovavi ieri sera tra le dieci e le undici?» mi chiese lapidario come fossi il più insignificante dei sospetti.

    Sgranai gli occhi dalla sorpresa.

    «Perché?» chiesi diffidente.

    «È una richiesta ufficiale del tuo superiore, ti pregherei di rispondere invece di fare domande» mi seccò con una calma innaturale, proprio come consigliato sulle procedure degli interrogatori.

    Una strana inquietudine si impadronì di me.

    «Ero in piazza Magenta per un appostamento» risposi sicuro. «Mantovan era in auto con me e Busdraghi poco lontano in contatto radio. Siamo rimasti fino a mezzanotte circa».

    Notai nello sguardo severo di Mancusi un certo sollievo.

    «Sì, lo sapevo. I tuoi agenti mi hanno detto la stessa cosa» mi spiazzò di nuovo.

    «Allora perché chiedermelo?» cercai di scucirgli qualcosa.

    «Perché avrebbero potuto inventarsi una storia per pararti il culo con me, ma non avendo avuto il tempo di avvertirti, te ne saresti potuto uscire con un qualcosa di diverso» spiegò.

    «Se è per quello, avremmo potuto metterci d’accordo ieri» stetti al suo gioco per vedere dove voleva arrivare.

    Mancusi scosse il capo. «Tuoi complici? No, non ce li vedo. Sono ragazzi troppo bravi, loro» sottolineò.

    «Grazie per la precisazione» sorrisi ironico. «Adesso mi dici il perché di tutto questo?»

    «Il nome Giangiacomo Morelli ti dice niente?» la buttò lì.

    Una carrellata di immagini mi scorse veloce davanti agli occhi come fotogrammi di un film già vissuto.

    «Certo che mi dice: è quel geometra borioso dell’indagine... » le parole mi si smorzarono in bocca sotto il peso dei ricordi. «Sì, insomma, sai quale. Ho creduto fino all’ultimo fosse implicato in quel maledetto affare, invece non trovai proprio niente. Quel bello di papà; me lo rivedo ancora con quell’aria da so tutto io credersi al di sopra di ogni legge, brutto figlio di puttan... »

    «Stamani la donna delle pulizie l’ha trovato con un coltello tra le scapole» interruppe il mio turpiloquio.

    Restai un attimo spiazzato. «E che pensi sia stato io?» replicai alzando la voce, con gli occhi increduli sgranati ed entrambi gli indici puntati verso di me.

    «Stai calmo, ufficialmente non sei accusato di niente» si affrettò a spiegare. «C’è solo un piccolo dettaglio che ti lega a questa faccenda» riprese, porgendomi una delle foto che aveva sulla scrivania.

    Squadrai bene lo scatto; era un ingrandimento di un biglietto sporco di sangue, dove con una grafia ondeggiante e incerta era scritta una parola: Botteghi.

    Ammutolii, prima di esplodere. «Ma che cazzo c’entro io? Ma chi l’ha più visto ’sto tizio?»

    «Stai buono e calmati. Se avessi creduto tu fossi il colpevole ti avrei già sbattuto alle Sughere» mi bacchettò. «Bertini è già sul posto; mi ha fornito qualche probabile ricostruzione, basandosi sulle sue ipotesi».

    «Quel topo si è messo a far congetture?» mi sorpresi.

    «La pianti?» s’incazzò. «Vedi di trattare un po’ meglio quelli che lavorano con te, specie se servono a salvarti il culo» mi riprese sottolineando quanto dovevo al mio vecchio amico della scientifica.

    Il sesto senso cominciò a farsi vivo.

    Dalla base del collo uno strano formicolio s’insinuò come un serpente attraverso le spalle e giù lungo la schiena, fino a svanire man mano che arrivava alle estremità.

    «Da quanto si può evincere dalla scena del crimine, Morelli è stato pugnalato a morte intorno alle ventidue di ieri sera, ma il colpo non gli è stato fatale» continuò Mancusi. «L’assassino deve averlo creduto morto e se ne deve esser andato, invece lui si è trascinato sul pavimento in cerca di un appiglio per tirarsi su e raggiungere il telefono, probabilmente per chiamare aiuto, ma quando si è reso conto di non avere abbastanza forze ha preso un biglietto e lasciato un indizio».

    «Indizio un cazzo» sbuffai.

    «Lo sai meglio di me che quel biglietto può significare solo due cose» tuonò il questore. «O è il nome dell’assassino, ma hai un alibi di ferro per l’ora del delitto, oppure è l’ultimo appello di un disperato nei confronti dell’unico poliziotto che gli è venuto in mente nell’istante prima di morire».

    «Ma se gli stavo sulle palle?» mi spazientii. «Cosa contraccambiata, tra l’altro, e lui lo sapeva benissimo».

    «Appunto; chi meglio di uno che non vede l’ora di infilarsi tra i tuoi scheletri nell’armadio, può scoprire chi ti ha fatto secco?» fece notare.

    «Tanto alla fine son sempre o corna o quattrini» mi misi a ridere. «Adesso mi dice anche che fine hanno fatto i miei agenti? Perché è strano che a quest’ora l’ufficio sia deserto».

    Mancusi sorrise. «Li ho spediti subito questa mattina, assieme alla squadra scientifica di Bertini, sul luogo del delitto, per avvantaggiarci. Questo è l’indirizzo» disse alzando con fatica tutta la sua mole dalla poltrona per porgermi un biglietto.

    «Bene, allora direi che è il caso di muovere il culo» mi tirai su.

    «Il caso è tuo, ma stai attento» mi mise in guardia. «L’ultima volta che c’era di mezzo Morelli non è finita tanto bene, ma questo lo sappiamo in pochi. Non ti fidare di niente e nessuno, e soprattutto tienimi informato di ogni minimo dettaglio».

    «Stia tranquillo, ci andrò coi piedi di piombo» lo rassicurai, sapendo già che non l’avrei fatto.

    Chiusi la porta dietro di me e restai qualche secondo immobile a fissare l’indirizzo appuntato sul biglietto.

    Avevo la mente e il corpo pervasi da mille domande, che come cani affamati sembravano sbranarmi le carni, divorando qualsiasi cosa fino al midollo nelle ossa.

    Perché proprio io? Uno come Morelli avrebbe potuto chiamare persone ben più importanti.

    Forse aveva ragione Mancusi, ma quel formicolio alla base del collo continuava a mettermi in guardia per qualcosa di più grosso.

    Proprio ora che quel periodo della mia vita sembrava allontanarsi, che quel caso maledetto sembrava gettato dietro le spalle, ecco spuntare qualcosa che me lo ricordava.

    Non ho mai creduto alle coincidenze, ma cazzo se la sfortuna sapeva inanellare uno dietro l’altro colpi che facevano davvero male.

    Mossi i piedi sapendo che quel primo passo mi avrebbe portato su di una brutta strada, conscio di non avere altra scelta.

    Fuori dalla Questura quel novembre appariva meno austero e rigido, persino il cielo sembrava più chiaro.

    Come da programma, si era levato quel tanto di vento necessario a spazzar via un bel po’ di nuvole, lasciando spazio a tiepidi raggi di sole che sembravano carezzare il volto con il tocco di una calda mano materna.

    Avevo chiamato i miei agenti per avvertirli che Mancusi non mi aveva ancora sbattuto in cella, ma dal loro atteggiamento avevo percepito bene quanto la cosa li avesse scossi. Busdraghi, in particolare, sembrava più agitato del solito, come se quella strana situazione lo mettesse a disagio più di tante altre occasioni inusuali che avevamo affrontato.

    Avevo la testa come inzuppata in un calderone di pensieri.

    In tutta la mia carriera mai avevo sentito di un caso analogo: la vittima che in punto di morte investiva l’odiato poliziotto del compito di smascherare il proprio assassino. Sembrava quasi la trama di un libro giallo.

    Se non fossero state mie le chiappe sulla graticola, l’avrei trovato persino divertente.

    Morelli era uno stronzo, uno di quelli cresciuti coi bei soldi di famiglia e che aveva trovato il suo giusto collocamento all’interno del panorama benestante cittadino, in una piccola nicchia di potere riservata ai soliti ricchi. Però avevo sempre pensato che tutti i quattrini del mondo non avrebbero mai compensato la ridicolaggine del nome che gli avevano appioppato: Giangiacomo.

    Mi mossi veloce lungo via Montegrappa per poi sbucare in via Grande, la strada principale di Livorno.

    Per fortuna sotto le alte logge trovai riparo da quel vento freddo che ora soffiava impietoso e che sembrava volermi spazzare via, come se già non avessi avuto problemi.

    La nuova pavimentazione, posta a copertura della ormai usurata graniglia, dava ai portici un aspetto così inusuale da non farmi sentire nemmeno a Livorno, eppure mi sarebbe bastato affacciarmi sulla strada e guardare verso il porto per ritrovare tutto il sapore della mia città.

    Una fila infinita di strani negozi di tendenza giovanile mi sfilavano di fianco.

    Ogni volta che passavo da quelle parti era un continuo chiedermi ma questo ieri c’era? restando poi nel dubbio.

    Mi accesi una sigaretta che aveva lo stesso sapore della prima della mattina; l’effetto doccia fredda sortito dalla chiacchierata con Mancusi mi aveva come cancellato dalla mente qualsiasi cosa fatta prima, azzerando la giornata.

    Arrivato in piazza Grande, il vento tornò a sbattermi sul viso, quasi volesse strapparmi il mozzicone dalle labbra.

    Infilai le mani in tasca stringendomi nel soprabito, alla ricerca di un po’ di calore, mentre silente e freddo come il marmo delle sue colonne, costeggiai il largo Duomo.

    I portici a semicerchio mi offrirono un momentaneo riparo.

    Quella zona della città non aveva subito grandi modifiche; era esattamente come quando ero piccolo, a parte diversi negozi storici che erano ormai spariti.

    Continuai a soffiare via fumo e pensieri, lambiccandomi il cervello su quel maledetto biglietto: non gli trovavo proprio un senso.

    Arrivato all’imbocco di via Cairoli, svoltai in via di Franco: l’ingresso del palazzo era poco più avanti.

    Mi fermai un attimo proprio nel mezzo alla via, dove dall’altra parte si intravedevano le mura della grande Sinagoga.

    Adoravo quella zona della città, forse più del quartiere della Venezia, nonostante apparisse molto più caratteristico. Qui molti dei palazzi erano in parte sopravvissuti ai numerosi bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, conservando inalterato tutto il fascino di un tempo passato.

    In fondo alla strada, in lontananza, notai il vitale brulicare del mercato all’aperto di piazza Cavallotti, dove tra i banchi di legno messi in piedi di prima mattina, pittoreschi commercianti strillavano in vernacolo slogan improvvisati per attirare clientela.

    Era tutto un urlio di Venite bimbe, guardate ‘e bella roba!.

    Un leggero aroma di fritto mi arrivò lieve alle narici; non avevo dubbi: veniva dalla storica friggitoria in piazza del mercato, dove sfornavano di continuo frati e bomboloni roventi.

    Quando ero piccolo la tappa dal frataio era obbligatoria ogni volta che venivamo in città, perché per noi che vivevamo in sperduta periferia, allora considerata addirittura campagna, non era venire in centro bensì venire in città ed era una vera e propria uscita in pompa magna. Al tempo l’autobus, o corriera che dir si voglia, faceva solo tre corse: una la mattina, una all’ora di pranzo e una la sera, e ricordo bene le mille volte che quella di pranzo la saltava.

    Venire a far spesa in centro era quindi l’occasione della settimana in cui si spendeva ben più di una mezza giornata, per cui ci si vestiva come di domenica e con mia madre si partiva per la gita.

    Impiegavamo quasi un’ora a fare un tragitto per cui oggi basterebbero dieci minuti.

    Il caldo bollente o il freddo glaciale, a seconda della stagione, racchiuso in quella fusoliera di lamiera me lo ricorderò fino a che avrò fiato. Essendoci poche corse era sempre affollatissima e, per dovere, io in quanto piccolo dovevo restarmene

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