Il segreto del Voltone: Il commissario Botteghi e una vecchia storia livornese
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Anteprima del libro
Il segreto del Voltone - Diego Collaveri
Livorno, 1947
La decisa luce del faro tagliava di netto il buio pesante della notte. L’umido, mischiato al salmastro, saturava l’aria.
Il lento sbattere della risacca, sui massi squadrati del molo, suonava una rilassante nenia d’oblio che invitava a chiudere gli occhi sotto quel manto di stelle luccicanti.
La sirena di un vapore brontolò nella rada, sovrastando lo stridere dei gabbiani affamati che, come avvoltoi sulle carogne, sorvolavano i pescherecci fino alla vicina imboccatura del porto.
La punta ardente di una sigaretta svelò per un attimo il volto di una figura nascosta dall’oscurità.
Un rumore leggero di passi destò la sua attenzione.
Due fischi brevi e uno lungo arrivarono flebili, come segnale di riconoscimento.
«Alla grazia; dove cazzo eravate?», li bacchettò severo l’uomo.
«Vedi di darti una calmata. Con quel che è successo, abbiamo preferito far un giro più lungo per assicurarci di non esser seguiti», si giustificò uno dei due.
«Poveri ragazzi», sospirò l’altro, togliendosi il cappello logoro in segno di rispetto. «Hai saputo cosa gli hanno fatto?».
«Sono stati torturati per ore; hanno patito roccia¹ prima di esser uccisi», aggiunse il compagno, passandosi una mano sulla bocca dall’orrore. «Boia, che fine; dopo tutto quello che hanno fatto per il paese. Qualche idea su chi possa esser stato?».
«No, ed è proprio quello che mi spaventa di più», rispose il primo preoccupato, soffiando via il fumo che aveva in bocca. «A ’sto punto non possiamo più fidarci di nessuno. Non conosciamo chi ci sta dando la caccia e per quel che ne sappiamo i Nocerini possono aver sputtanato tutto».
«Non t’azzardare a dirlo nemmeno per scherzo», s’infuriò quello col cappello in mano. «Roberto e Silvano si sarebbero fatti strappar le budella senza dire una parola, pur di rispettare il nostro patto e lo sai!».
«Eran come fratelli, Peppe», si unì anche l’altro. «Sai bene che hanno preferito morire prima di rivelar qualcosa».
L’uomo sospirò. «Sì, scusatemi. È la paura che me l’ha fatto dire. Speravo che una volta finita la guerra ci saremmo buttati tutto questo alle spalle».
«Per salvar la pelle dobbiamo restare uniti, come s’è sempre fatto» dette coraggio quello col cappello, rimettendoselo in testa.
«Hai voglia se n’abbiam già passate insieme», gli poggiò la mano sul braccio l’altro. «Combattiamo ancora».
«Son d’accordo con te, Dino, ma quello che mi fa paura è non saper contro chi o cosa si deve lottare» replicò Peppe. «Siamo soli e in un momento in cui tutto è allo sbando più completo. Nemmeno del Partito ci si può fidare».
«Cosa ci combina il Partito?», si sorprese l’amico.
«Con l’esclusione dal governo siamo stati completamente segati fuori, dopo tutto quello che abbiamo fatto. In questo momento non c’è nessuno a cui frega del bene del paese. Si sta delineando un gioco di forze superiori, tra gli americani e il blocco dei paesi Comunisti. Quel che abbiamo scoperto è un boccone che potrebbe far gola a entrambi, perché potrebbe esser risolutivo in questo braccio di ferro. Ora come ora, non ci si può fidare di nessuno e bisogna star con la bocca ben chiusa».
«Ma... Gli americani ci hanno aiutato», si sorprese quello col cappello.
«Pensi che la liberazione dell’Europa non avesse un prezzo, Bruno?», domandò sibillino. «Gli interessi in gioco son troppo alti».
«E cosa si può fare noi, tre poveracci, di fronte a potenze simili?», chiese Dino incredulo.
«Difendere il nostro segreto e tener fede al patto che abbiamo fatto», affermò sicuro Peppe, prima di aspirare l’ultima boccata e gettar via il mozzicone.
Gli altri due annuirono silenziosi.
«Per ora a nessuna delle due parti interessa una nuova guerra. Si creerà una situazione di equilibrio forzato, almeno apparente; per questo ciò che proteggiamo non deve andà a nessuno, sennò chi rimane a bocca asciutta potrebbe cercar qualche soluzione alternativa», spiegò. «Dobbiamo guardarci il culo da chiunque e tener la bocca dimorto² chiusa, specie dopo quanto è successo ai compagni. C’è qualcuno che deve saper qualcosa e non è disposto a star a tanti ninnoli, sennò non li avrebbero spellati come maiali».
«Pensi che l’americano abbia spifferato qualcosa?», si preoccupò Bruno.
«Ma no, quello si caa addosso persino per la su’ ombra; e poi gli fa troppo gola far vaini³ con quanto gli abbiamo promesso», replicò Dino.
«Sì, hai ragione. Comunque non lo pigliamo troppo sottogamba», aggiunse Peppe. «Anche lui alla fine costituisce un pericolo».
«Ricordiamoci anche di quei fascisti di merda dell’OVRA. Chissà quanti ce n’è nascosti, malidetti loro», imprecò Bruno. «Tanti nomi non si sanno ancora e ci vorrà un branco di tempo per stanarli tutti».
«Eh, m’hai letto nel pensiero; era proprio a loro che pensavo, vista la fine che han fatto Silvano e Roberto», rispose Peppe. «Per quel che se ne sa possono essersi infiltrati ovunque. Sicuramente esistono dei gruppi ancora attivi che agiscono nell’ombra».
«Non sarebbe buttata di fòri⁴ che loro possan saper qualcosa di quello che s’è trovato», suggerì Dino.
«Boh», scosse il capo con scetticismo. «I crucchi di sicuro han tenuto la bocca cucita. È probabile che qualche capoccione fascista lo sapesse, quindi magari anche altri impelagati con loro; ma lo sai te? Più facile che qualcuno sia inciampato per caso in un ordine o un dispaccio segreto mentre i tedeschi scappavano, come c’è capitato a noi».
«Boia, che situazione di merda», sospirò Bruno.
«Ovvia; mettessi a frigna’ non risolve nulla», lo scosse Peppe. «Alla fine siamo allo stesso punto di prima».
«Eh, mi’a tanto; ora si sa che son sulle nostre tracce», aggiunse Dino.
«Ci s’ha ancora qualche cartuccia bòna dalla nostra; solo noi tre ora si conosce la via sotterranea attraverso i magazzini, inoltre senza Silvano e Roberto sarà più difficile risalire alle ragioni del cambio di proprietà del loro fondo», spiegò Peppe all’amico. «Dobbiamo protegge l’accesso a costo del sangue».
«Sempre sicuro di non volerci entra’ nulla col negozio?», domandò Dino a Bruno, quasi con la speranza che avesse cambiato idea.
L’uomo sorrise, aggiustandosi il cappellaccio.
«E sì che ci si conosce fin da bimbi; lo sai che troiaio⁵ sono. C’ho troppa paura di mandar a puttane anche voi, finendo in un casino con qualcuno che m’ha preso a strozzo. No. Tutto ci vuole meno che attirare troppe attenzioni, quindi meglio non fa’ rimesta’ il bottino che poi fa troppo puzzo».
«Però dovrai sempre starci dietro e coprirci le spalle, come quando s’andava in missione, te lo ricordi?», aggiunse Peppe. «Due allo scoperto davanti e uno dietro, nascosto nel nulla. Se non ci si protegge tra noi s’andrà po’o lontano».
Dino annuì, rassicurato di non far alcun torto all’amico.
«Ovvia; allora non perdiamo altro tempo in chiacchiere», aggiunse Bruno. «M’è parso di capi’ che sarebbe il caso di levarsi una zecca di dosso e questo è proprio il genere di lavoraccio in cui non vi potete permettere di esser impelagati».
Ci fu un attimo di silenzio. Gli altri due sembravano titubanti nell’affidare un’azione simile all’amico.
«Andiamo, non ci stiamo a girar troppo intorno», proruppe Bruno con decisione. «Se non cominciamo a levarci qualche problema
di torno alla fine ce li ritroveremo tutti al culo».
Peppe e Dino si guardarono tra loro.
«L’americano», affermò lapidario il primo.
L’uomo annuì, prima di sistemare con cura il cappello sulla testa. Rivolse lo sguardo al lontano orizzonte invisibile, al limite del mare, restando qualche secondo senza dire una parola come a voler raccogliere dentro di sé gli ultimi brandelli di coraggio, quello che ci vuole per togliere la vita a un altro uomo.
«Ci penso io», li rassicurò prima d’incamminarsi, svanendo nel buio della notte che sembrò inghiottirlo, senza lasciarne la minima traccia.
I compagni restarono a fissare la figura di Bruno sparire in silenzio, per poi dileguarsi nell’oscurità, seguendo direzioni diverse.
1 Molto
2 Parecchio.
3 Soldi.
4 Sbagliato.
5 Schifo.
Livorno, oggi
La vigorosa luce del sole mattutino, apparsa da dietro le colline, scintillò sull’orizzonte del mare placido al di là del porto.
L’aria salmastra, già calda, viaggiava leggera sulla debole brezza che spirava da Ovest, portando con sé i profumi del pesce fresco dai pescherecci ormeggiati nella Darsena.
L’estate, quell’anno, se l’era presa comoda; nonostante fossimo già a fine settembre il clima e le temperature non avevano niente da invidiare a quelle di pochi mesi prima. Meglio così, il turismo non può far altro che bene all’economia distorta di questa città. Per quanto riguardava me invece, non essendo un frequentatore di scogli e stabilimenti balneari, ero solo infastidito dal traffico delle auto in arrivo e partenza dai terminal d’imbarco per le isole. Nemmeno nella zona Sud, dove la costa è più selvaggia, era possibile passare in santa pace. C’era sempre un’orda di auto lasciate in doppia fila, in prossimità degli accessi al mare, che generava snervanti e ripetuti strombazzamenti di clacson, capaci di rovinare persino il piacere del tepore solare.
Ma in fondo poi cosa me ne fregava? Alla fine quella era solo l’ennesima giornata che avrei speso cercando di dimenticare i miei tormenti, buttandomi nel lavoro, quindi tanto valeva prendersela comoda.
I rumori della città, che si stava svegliando, salirono fino alla finestra aperta del mio piccolo appartamento.
Ero già sveglio da un po’, cullato come sempre dalla solita insonnia, ma quella mattina facevo davvero fatica ad alzarmi. Allungai una mano fino al comodino e sfilai dal pacchetto una sigaretta.
Il fumo della prima boccata salì leggero fino alle travi logore del soffitto, per poi ristagnare non trovando una via di fuga.
I miei pensieri galleggiavano nell’aria come quella nuvola grigia, che si contorceva su se stessa.
Lo stridere dei gabbiani affamati, appollaiati sul tetto, mi giunse feroce alle orecchie. Quelle bestiacce non erano certo una gran compagnia, specie appena sveglio, ma erano l’unica che avevo.
Il trillo del cellulare sul comodino risuonò violento nella stanza.
«Botteghi», risposi sbadigliando.
«Commissario, sono Mantovan», si annunciò uno dei miei due agenti. «L’ho svegliata?».
«Direi che ormai è irrilevante, non trovi?», lo gelai subito con il mio solito sarcasmo, aspirando dalla sigaretta.
Il ragazzo si zittì, preso in contropiede.
«Ovvia, Mantovan; che c’è?», ripresi seccato.
«Hanno trovato un cadavere nel fosso, vicino al tunnel. Busdraghi mi ha detto di dirle sotto al Voltone
. Ci stiamo recando sul posto, la passiamo a prendere?», domandò.
Bel modo di svegliarsi
, pensai sbuffando.
«No, vai; vengo a piedi. Così almeno mi fermo per strada per be’ un caffè e vedo di riprendermi un po’. Sarò lì tra una ventina di minuti», dissi, prima di chiudere la comunicazione senza nemmeno salutare.
Mi tirai su dal letto per mettermi seduto.
Aspirai forte la sigaretta, gonfiando al limite il torace; poi chinai la testa indietro trattenendo l’aria.
Sentii il collo scricchiolare.
Restai immobile così per qualche secondo, mentre il fumo denso usciva lentamente dagli angoli della bocca e la realtà intorno si faceva meno confusa, fino a raggiungere un più lucido equilibrio.
Socchiusi gli occhi, assaporando quella sospensione mentale nei pochi attimi che mi restavano ancora di fiato, dopodiché svuotai i polmoni con un lungo e profondo sospiro, prima di alzarmi imprecando.
La luce del giorno mi ferì gli occhi, non appena uscii dal portone del palazzo sugli Scali D’Azeglio, dove abitavo.
L’odore di salmastro e fumo, che saliva dal vicino porto, misto a quello più pungente del canale su cui si affacciava la strada, fu come un violento schiaffo in faccia.
L’appellativo Fossi, per le vie d’acqua che attraversano Livorno, rende bene il concetto del tanfo ristagnante che sale nei giorni in cui le correnti sono più deboli.
Camminai spedito sul marciapiede stretto che costeggiava la spalletta del fosso, restando silenziosamente nel mio mondo, ignorando ciò che avevo intorno, completamente narcotizzato dal bisogno di caffeina.
Seguii la strada fino a che il canale non sparisce nel buio del tunnel proprio sotto piazza Cavour, dove finalmente, al bar sull’angolo, potei prendermi quel tanto agognato caffè.
Non me lo gustai nemmeno, tanto lo buttai giù tutto d’un fiato, dopodiché, dopo essermi acceso la giusta sigaretta di rito, ripresi a camminare.
Attraversata la piazza, ritrovai il corso del canale e continuai a seguirlo.
Due schiere di barche, di diverse dimensioni e valore, se ne stavano placide e ordinate all’ormeggio sui lati del fosso, sbattendo tra loro al minimo passaggio di imbarcazione. Non potei non notare i numerosi posti vuoti, segnale di quanti avevano preso il mare in quella bella giornata calda. Quel pensiero smosse il mio ipercritico sarcasmo. Ma a Livorno non lavora nessuno?
, mi chiesi, ma poi la mente cominciò a sparare ipotesi sul prezzo di un singolo posto barca da quelle parti e allora la risposta saltò fuori da sola. Se potessi permettermi una di queste, col cazzo che starei andando a lavoro
, pensai, soffiando via il fumo della sigaretta; menomale che la triste consapevolezza di non aver altri interessi, oltre al mestiere che facevo, smontò rapidamente la sensazione di insoddisfazione che stavo provando.
Le urla dei venditori, che dai banchi invitavano le persone ad avvicinarsi, mi scrollarono dai pensieri, riportandomi alla realtà.
Stavo costeggiando l’imponente struttura del Mercato Centrale, chiassoso fulcro commerciale della città.
Voci sguaiate, inneggianti prezzi e sconti strepitosi, sormontavano il brusio acceso della massa brulicante che animava la piazzetta antistante e le viuzze ai lati.
Se c’è una cosa che da sempre mi infastidsce, è proprio la confusione; così girai lo sguardo verso la parte opposta rispetto alle vie del mercato, al di là del fosso, come se, volgendo la vista a luoghi meno affollati, anche l’udito potesse trarne giovamento.
Non appena ebbi lasciato quella caciara alle spalle, cominciai a intravedere dove, più avanti, il corso del fosso curva tra le case.
Notai subito il leggero riflesso dei lampeggianti blu, lungo le facciate dei palazzi sull’angolo che si estendevano fin quasi al camminamento al livello dell’acqua dove si trovavano le cantine, circa un paio di piani al di sotto del manto stradale che stavo percorrendo.
Non appena arrivai alla curva che conduce in piazza della Repubblica, riconobbi subito delle divise muoversi al livello più basso sull’altro lato del canale, proprio in prossimità di alcune barche ormeggiate.
Ecco la scena del delitto: la zona conosciuta da tutti come il Voltone, cioè il tunnel sotto piazza della Repubblica, attraverso il quale il fosso raggiunge lo specchio d’acqua antistante la Fortezza Nuova, per diventare quel Fosso Reale che circonda l’antica costruzione difensiva all’interno del centro storico.
Ho sempre pensato che per chiunque non sia nato e cresciuto qui, sia impossibile cogliere le sfumature di questi nomignoli e quanto essi interpretino al meglio tutta l’essenza schietta e semplice che da sempre caratterizza gli abitanti di Livorno. Ogni volta che questo pensiero mi sfiora la mente, ripenso a quando da piccolo chiesi a mio nonno Bruno, marinaio sui mercantili di lungo corso, perché tutti chiamassero il Voltone così. Lui, senza batter ciglio, mi rispose: Come la volevi chiamare una volta grande a quel modo?
. Esaustivo, diretto ed estremamente sarcastico; nelle sue parole c’era tutto lo spirito semplice e guascone che da sempre contraddistingueva i livornesi e la nostra regione. Oltretutto poi, come dargli torto? Si trattava di un tunnel a volta lungo duecentoventi metri, su cui sopra si distendeva una vasta piazza, progettato dall’architetto Luigi Bettarini, come tutti i palazzi adiacenti ad esso, nella prima metà del XIX secolo. L’intento era quello di collegare, tramite il canale, la parte centrale fortificata con i nuovi sobborghi che crescevano estendendosi verso Sud.
Mi feci largo tra la folla di curiosi, tutta assiepata alla spalletta per sbirciare cosa accadeva più in basso, fino a raggiungere la ripida discesa che porta al livello dell’acqua, dove trovai i miei uomini ad attendermi.
Notai subito i ragazzi della squadra scientifica, capitanata dall’amico Giorgio Bertini, lavorare intorno al cadavere, adagiato sul sacco scuro con cui poi l’avrebbero portato via.
«Buongiorno, commissario», mi salutò Matteo Busdraghi, altro agente della mia squadra, che avevo ribattezzato ironicamente Panzer
per via della sua fissazione per il fitness e gli addominali scolpiti.
Sbadigliai, ancora un po’ assonnato.
«Cosa abbiamo?», chiesi.
«Stamani dei pescatori hanno trovato un cadavere che galleggiava nel fosso, impigliato alle funi degli ormeggi. Laggiù, proprio all’ingresso del Voltone», mi ragguagliò, indicandomi col dito il punto preciso.
«Sai che in tanti anni di carriera a Livorno è la prima volta che mi capita il morto nel fosso?», dissi, come a voler cercare per forza un lato comico in una situazione drammatica.
Mantovan, l’altro mio collaboratore, si avvicinò a noi.
«Ho raccolto alcune testimonianze interessanti», riportò. «Pare che un paio di barche, rientrate nella notte, abbiano urtato qualcosa passando dentro al Voltone, ma non sono riusciti a vedere bene cosa fosse per via del buio dovuto dalla mancanza di illuminazione. Sicuramente devono avergli sbattuto addosso».
«È la causa della morte?», domandai.
«No, a quello ci avevano già pensato prima due o tre coltellate date bene», specificò Panzer.
«Sentiamo cosa ha da dirci la scientifica. Ci sarà utile per capire da dove iniziare, prima di partire con le supposizioni» lo frenai subito, accendendomi una sigaretta, come se la nicotina mi aiutasse a pensare meglio. «Sappiamo chi è?».
«Non aveva portafogli, né documenti, ma in tasca ho trovato un pass turista, per l’accesso a una nave da crociera, a nome Joseph Brennan», rispose.
«Nooo, che palle! Un turista, no...», sbuffai, con la sigaretta che mi penzolava tra le labbra.
«Sempre un morto è», sorrise Busdraghi, cercando di farmi vedere la cosa nell’ottica tutti i casi sono uguali
.
«Complimenti», mi congratulai sarcastico. «Hai appena vinto la vagonata di pratiche burocratiche da sbrigare con l’ambasciata di riferimento, più l’organizzazione del trasporto funebre per far rientrare la salma nel suo paese» gli detti una pacca sulla spalla.
«E vai!», gioì Mantovan, conscio di aver schivato una gran rottura.
«Intanto prendi il pass, vai al terminal crociere e scopri a che nave appartiene e dove è ormeggiata. Gli sbarchi sono tutti registrati, quindi fatti dare gli estremi della vittima, così ci facciamo un’idea. Io e Mantovan ti raggiungeremo dopo con un paio di scatoloni per portar via gli effetti personali che troveremo nella sua cabina, così poi potremo consegnarli all’ambasciata assieme al corpo», ordinai a Busdraghi, ancora senza parole per la fregatura di prima. «Alla fine hai ragione: è comunque un nostro caso, quindi trattiamolo come sempre».
Mentre Panzer si allontanava mesto, io impartii i miei ordini all’altro agente, il ragazzo, come ero solito chiamare Mantovan. Era con me da quasi due anni, ma ancora non ero riuscito ad abituarmi del tutto ai suoi modi diligenti e timidi, oltre a quella parlata del Nord, sua zona natia, così estranea alla mia campanilistica mentalità livornese. Era uno di quegli inspiegabili casi cittadini per cui, anche se avesse trascorso il resto della sua vita qui, sarebbe sempre stato uno che viene da fuori
. Comunque era innegabile che, nonostante la giovane età, avesse delle capacità investigative davvero uniche, sintomo di un talento che un giorno l’avrebbe portato lontano.
«Tu, invece, con un agente e uno degli uomini della scientifica, controlla le due spallette che si affacciano sul fosso dai lati opposti della piazza. Vedi se trovi delle tracce di sangue o, se abbiamo un colpo di culo, il portafoglio», dissi.
«Con tutta quella folla di curiosi sarà difficile trovare qualcosa», replicò subito Mantovan.
«Non dovrebbe essere un problema. Il sangue mica si cancella facilmente», lo zittii.
«Cosa le fa credere che non sia stato buttato in acqua lontano e che poi sia stata la corrente a portarlo qui?», chiese.
«Lo vedi quant’è torbida l’acqua? Significa che non c’è stato gran movimento di corrente, lo si capisce anche dal fatto che non si è spostato di molto rispetto a dove dice di averlo colpito l’imbarcazione