Fiore
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Anteprima del libro
Fiore - Giuseppe Fanciulli
Fiore
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1938, 2023 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728477250
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
È arrivato
Il calesse girò sul piazzale, e venne a fermarsi nel fascio di luce che prorompeva dalla porta, sullo scintillìo dei sassi bagnati. Quattro, cinque ragazzi si slanciarono vociando addosso al calesse e alla cavalla, invano richiamati da una stridente voce di donna. Intanto Bista era sceso, enorme, e battendo in terra i piedi urlava:
— Indietro, canaglia! —
La donna si era avvicinata, e chiedeva:
— L’hai portato?
— Eccolo qui — disse Bista. Si curvò sul calesse, ne alzò un ragazzo che fino allora era rimasto silenzioso nel buio, e lo posò in terra. — Eccolo qui — ripetè; e poi, volgendosi al ragazzo: — Questa è la zia Lucia, e questi i tuoi cugini, canaglie. —
La faccia del ragazzo, un po’ pallida, con due grandi occhi scuri, ora era illuminata in pieno. A un tratto tutte le voci si chetarono; e nel silenzio si udiva il rumore delle grosse gocce che dai rami nudi cadevano in terra.
La zia Lucia disse dopo un momento:
— Bene arrivato, Fiore... —
Ma lo zio Bista gridò subito:
— I saluti, dentro! Menatelo su, che sarà intirizzito, e affamato, e stanco…. mondo reo, con queste strade! —
Era sopraggiunto un garzone, a scaricare il calesse, e staccare la cavalla. Perciò tutti si inoltrarono nel portico illuminato, dietro alla zia Lucia. I ragazzi avevano ripreso fiato; si spingevano, ridacchiavano, e lasciavano andare anche qualche pugno - un gran tonfo sulle spalle ove cadeva - tenuti un po’ in freno, tuttavia, dalle occhiate e dal brontolìo del loro babbo.
— Restate qui, voi! — disse il babbo quando furono nello stanzone di entratura. Perciò, solamente Lucia e Fiore salirono per la scala di mattoni consunti alle camere che erano nel piano di sopra.
Bista, prima ancora di andare a cambiarsi, entrò in cucina, girò dietro alla tavola apparecchiata, e si fermò accosto al focolare, dove la sua figliuola Stellina lo aspettava.
— Come stai, nini? — chiese, curvandosi sulla poltrona; e il suo vocione si era fatto dolce.
Ma Stellina rispose con una domanda:
— È arrivato?
— È arrivato, è arrivato!... Nemmeno fosse il principe delle Asturie! — Bista si pentì subito di quello scatto di voce, che aveva fatto sbattere gli occhi a Stellina, e aggiunse: — Vedrai, è un bel ragazzo; e pare anche buono. —
Passò con leggerezza uno dei suoi manoni sui capelli lisci di Stellina, contento di veder affiorare un sorriso in quel visino bianco.
Rimasero soli Stellina e il gatto, che sedeva su un angolo del camino basso e con gli occhi socchiusi si godeva il tepore dei tizzi ardenti. Si sentiva camminare al piano di sopra; un passo pesante e uno leggero.
Poi Teresa entrò a precipizio, portandosi dietro un odore di freddo, e si dètte a far gli ultimi preparativi per la cena. Entrarono Gosto, il sotto-fattore, e Tebaldino, che era il terz’uomo; si sedettero sulla panca, tra la madia e il camino, e continuarono i loro discorsi lenti, che chissà quando erano incominciati, e chissà quando sarebbero finiti. Entrarono i ragazzi, e si misero ad aspettare, appoggiati al muro, impazienti; ma nessuno prima di Bista, che era il fattore e perciò come il capitano di quel bastimento, poteva prender posto a tavola.
Le voci dei due uomini si alzavano a poco a poco; pareva che non potessero mettersi d’accordo, e si cozzavano ostinate. Tanto che Bista, tornando, prima ancora di dare la buona sera, gridò: — Che c’è, gente?
— Giusto voi…. — ribattè pronto Tebaldino; e il vociferìo si rialzò, ora che vi si era aggiunta anche quella profonda canna d’organo. I ragazzi ne approfittarono per tirar calci al muro, e mandare di tanto in tanto degli stridi da falchi imprigionati. Quei clamori improvvisi - a volte, anche venti voci insieme - erano comuni nella vecchia casa; e lanciati nel silenzio di quella solitudine, parevano fiammate accese nel buio di una notte senza stelle.
Di nuovo, il frastuono si inabissò, quando Fiore comparve sulla soglia accosto a sua zia.
— A tavola a tavola! — disse Bista.
La poltrona di Stellina, che aveva le rotelle, fu mossa dal suo angolo, e venne spinta fino a un capo della tavola, là dove era rimasto Fiore che aspettava di sapere quale fosse il suo posto. Stellina era emersa dall’ombra all’improvviso, e Fiore ora la guardava.
— È la mia figliuola; — disse Lucia — tanto tribolata….
— Ma no, non lo dite, mamma! — aggiunse subito Stellina, con un rapido rossore; e tendeva una manina bianca.
Fiore strinse leggermente quella mano, e si curvò in un saluto pieno di garbo. Non lo misero accosto a Stellina; stava, invece, fra la zia Lucia e Lorenzo, il più grande dei cugini. Lo zio aveva preso posto con gli uomini ( altri due ne erano arrivati all’ultimo momento); anche Teresa, la serva, quando non stava al focolare, sedeva a tavola, laggiù in fondo, e mangiava con la testa piegata sul piatto. Erano quattordici, o quindici; Fiore non era riuscito a contar bene, perchè sempre qualcuno si muoveva.
— Non mangi? — gridò lo zio a Fiore. — Che cosa guardi? Scommetto che cucine come questa non ne avevi mai vedute!... ci sarebbe entrata dentro tutta la tua casa di Milano! —
Lo zio aveva avviato a ridere; ma la casa di Milano dovette ricordargli qualche cosa di poco lieto, perchè la risata si sviò subito, ed egli riprese i suoi fragorosi discorsi con gli uomini.
Anche Fiore aveva riveduto con una stretta al cuore la casa di Milano. Ma voltandosi, come a nascondere il turbamento, aveva incontrato gli occhi di Stellina posati su di lui, e si era rassegnato in un sorriso. Si salutarono, Fiore e Stellina, con un piccolo cenno di testa.
Dopo cena, la tavola fu sbarazzata, e gli uomini continuarono i loro discorsi nel canto del fuoco, riempiendo spesso i bicchieri col vino biondo, e guardandoli di contro al chiarore della fiamma, in mezzo a nuvole di fumo sempre più fitte.
I ragazzi e Fiore, invece, si erano seduti intorno a Stellina; i due più piccini, tutti appoggiati alla panca, presso al muro. La mamma, in faccende per aiutare la Teresa, andava e veniva, e ogni tanto metteva la sua parola. Anche Lorenzo, che ormai aveva preso confidenza col nuovo arrivato, parlava liberamente; della sua scuola, lasciata già da tre anni perchè classi non ce n’erano più, di quello che faceva - tutte le giornate spese dietro alle bestie - e di quello che gli sarebbe piaciuto fare, o il viaggiatore di commercio, o l’ingegnere, ancora non aveva deciso. Tonino, un altro ragazzetto, minore di poco a Lorenzo, si vantava delle sue cacce, sicuro di far colpo. E Cecco, che sedeva su una seggiola bassa, guardava il cugino di sotto in su, con una curiosità insistente. Poi chiese d’impeto, con l’aria di chi tira una sassata:
— E tu che cosa sei venuto a fare, qui?
È venuto a riposarsi — disse la mamma che passava lì accosto in quel momento — e non lo disturbate. —
I ragazzi risero tutti insieme, sinceramente, all’idea che si potesse fare un viaggio tanto lungo proprio per riposarsi.
— Ci sono io che mi riposo da tanto tempo…. — disse Stellina, come per rimediare l’effetto di quella risata.
Ma Cecco aggiunse subito:
— Allora, anche lui è paralitico. —
La mamma non era più lì, e un certo imbarazzo si diffuse nel gruppo dopo l’osservazione di Cecco.
Fiore guardava dinanzi a sè gli uomini seduti di fianco al focolare, seguiva i loro gesti e le loro parole; gesti larghi che mandavano rapide ombre sulle pareti, a perdersi fra le travi annerite; parole in cui ricorrevano accenni a lavori difficili e pericolosi con quella orrenda stagione: argini, piogge, inondazioni…. Tutto un mondo ignoto, nel quale non osava muoversi.
I ragazzi erano già insonnoliti. Cecco si era stancato a fissare il cugino con quei suoi occhiolini pungenti, e ciondolava; a poco a poco tanto si piegò, da appoggiare la testa, senza accorgersene, sulle ginocchia di Fiore. Era un peso grave.
— Bùttalo giù! — disse Lorenzo, tendendo una mano.
Ma Fiore trattenne quella mano.
— Perchè? — disse con la sua voce grave. — Vedi che ha tanto sonno. —
Cecco aveva socchiuso per un momento le palpebre dalle ciglia rossicce; ma poi gli occhi erano rimasti ben sigillati. Le guance lentigginose parevano un po’ gonfie, e dalle labbra il respiro usciva lento e tranquillo.
La mamma si avvicinò nuovamente.
— Via, via, ragazzi! a letto! — disse; e si prese Cecco fra le braccia, con la testa che le ciondolava su una spalla.
Invece, Fiore, nel suo letto nuovo, non riusciva a prendere sonno. Le lenzuola ruvide erano fredde; ma più freddo sentiva al cuore, con inquietudine. Non lontano da lui, in quel camerone, dormiva Lorenzo più là, insieme in un letto, dormivano Tonino e Cecco; si erano spogliati i ragazzi, nell’aria diaccia, con gran frastuono, si erano cacciati sotto («buonanotte, buonanotte»), e non avevano più detto parola. Per un pezzo, invece, erano salite di giù le voci degli uomini, con frequenti scoppi e silenzi radi. Poi c’era stato uno sbatter di porte, uno scalpicciare. Due passi salivano per le scale, due voci venivano da una camera vicina. Certo, erano lo zio e la zia; forse parlavano di lui. C’era anche una striscia di luce, che veniva di sotto a una porta e brillava sui mattoni. A poco a poco quelle due voci si erano spente, e la striscia di luce era scomparsa, ritirata in fretta di sotto alla porta. Allora, nel silenzio, si erano uditi solamente scricchiolii di mobili vecchi e di travi antiche, e, fuori, lo strusciare delle frasche agitate dal vento.
Col pensiero Fiore tornava indietro, rifaceva anelando la lunghissima strada. Sul calesse trottava per la strada fangosa, usciva a poco a poco dalla foschìa della sera bagnata, ed entrava, ancora col sole, tra le vie di una cittadina: che chiasso, le ruote e gli zòccoli! Saliva in un treno, affollato, fumoso; correva un giorno intero; tante stazioni, tante voci, e campi e campi, il buio delle gallerie a traverso i monti, ancora campi, stazioni; e in fondo, la città immensa, affondata nella nebbia delle ore mattutine, tutta