L’eredità di Emmy
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Info su questo ebook
Un lampo d’oro, quello di un piccolo gioiello che Emilia in punto di morte le regala, spalanca la vita di Rose a travolgenti cambiamenti, conducendola nell’avventura di un arcobaleno di colori: il giallo sporco del mistero di un delitto efferato, il verde smeraldo degli occhi di un uomo affascinante, il rosso sgargiante del ricordo romantico di un paese lontano, l’azzurro lieve di una terrazza che nasconde un enigma, fino ai toni neri e cupi di un terribile segreto che riaffiora dal passato.
Poco a poco, Rose farà tornare alla luce la storia dimenticata di Emilia, dalla sua prima infanzia nella grande famiglia di origine, ai suoi lunghi viaggi alla scoperta del mondo e dell’amore, alle sue scelte più difficili e dolorose. Con passione, coraggio e curiosità, la ragazza mischierà la propria storia a quella della signora gentile, per cercare di svelare il mistero che l’ha accompagnata e darle finalmente quella pace che non ha trovato in vita.
Un intreccio avvincente, creato dai racconti di tante voci diverse, che accordandosi insieme in un coro variegato, tra dramma e ironia, violenza e realismo, romanticismo e quotidianità, compongono una storia toccante in uno spaccato di vita veristico.
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Anteprima del libro
L’eredità di Emmy - Daniela Conti Benassi
Daniela Conti Benassi
L’eredità di Emmy
944 - Battitore libero
Giovane Holden Edizioni
www.giovaneholden.it
Titolo originale: L'eredità di Emmy
© 2020 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea aprile 2020
ISBN edizione cartacea: 978-88-3292-670-5
I edizione e-book maggio 2020
ISBN edizione e-book: 978-88-3292-681-1
ISBN: 9788832926811
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http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
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1
Quando la conobbi, Emmy era già una vecchia signora, con i capelli bianchi e l’aria un po’ dimessa di chi si porta appresso il ricordo di qualcosa di altero e timido nello stesso tempo.
Guardandola, ebbi lì per lì l’impressione di essere davanti a un rudere, ma bastò che lei alzasse lo sguardo e mi fissasse perché quel presunto rudere si mutasse in un poderoso castello scintillante nel sole.
Due incredibili occhi verdi, come smeraldi, illuminavano quel viso sofferente, e sembravano sempre voler dire qualcosa, e qualcosa di molto importante.
Mai avrei pensato di diventare la sua confidente, ovvero che Emilia mi aprisse lo scrigno segreto dell’anima e, come un torrente in piena che tutto travolge, ne lasciasse uscire l’orrore.
Un mattino gelido e piovoso, uno di quelli in cui avrei proprio preferito stare al calduccio, sotto le coperte, mi alzai riluttante per andare al lavoro.
Una doccia calda mi restituì un po’ di energia, e il caffè bollente fece il resto.
Fuori la nebbia si tagliava col coltello: qualche raro passante, il giornalaio che apriva la sua edicola, la bidella della scuola elementare che si recava al lavoro, nessun altro.
Parcheggiai la mia vecchia carriola al solito posto ed entrai nel policlinico.
Il corridoio interno, ben illuminato e riscaldato, mi fece pensare che nonostante tutto era un lavoro migliore di molti altri.
Mentre timbravo il cartellino d’ingresso, vidi la collega del turno di notte. Come sempre, lei andava via qualche minuto prima che io cominciassi. Aveva un bimbo piccolo e faceva il turno contrario al marito, un fannullone vagabondo.
Buongiorno Joy, se così si può dire. Com’è stata la notte?
Notte del cazzo! Hanno portato una vecchia con un’emorragia. Non aggiungo altro, tanto entri.
Restai un po’ demoralizzata dalla sua risposta ma Joy era così: pane al pane e vino al vino. La salutai augurandole buon riposo, anche se sapevo bene che, data la situazione familiare, non sarebbe andata a letto neanche per cinque minuti.
Quella collega non mi piaceva sul lavoro, non amavo i suoi modi spicci e spesso scortesi con cui trattava gli anziani. Ma ognuno ha il suo carattere e i suoi problemi, e lei ne aveva veramente tanti, perciò non detti troppo peso alle sue parole. Nella vita di ogni giorno era diversa, allegra e ridanciana, ma qualche volta mi pareva che i problemi di casa li portasse tutti in ospedale.
Appena giunta in reparto, feci un giretto di ricognizione, salutando i vari degenti, poi mi recai dalla nuova arrivata.
Emilia Simon, settanta anni.
Nella penombra della cameretta, il respiro affannoso mi rivelò la sofferenza di chi combatte una lotta disperata.
La donna, se così si poteva ancora chiamare un mucchietto di ossa ricoperto di pelle, giaceva immobile. Solo il suo respiro rumoroso mi diceva che era ancora viva. Accanto a lei nessuno, solo un sacchetto di plastica sul comodino, con qualche misero effetto personale.
Mi avvicinai per osservarla da vicino, in silenzio per non disturbarla, le presi il polso per controllare il battito, e fu allora che lei aprì gli occhi.
Il viso cereo, le labbra livide, le narici affilate, e due straordinari occhi verde smeraldo. Occhi incredibili che si spalancarono in un grido infinito che saliva dall’anima, un grido muto di disperazione, un’invocazione d’aiuto.
Poi, spossata, richiuse quelle assurde verdi ferite e giacque di nuovo immobile, come l’avevo trovata. Le carezzai la fronte per un attimo e poi uscii dalla stanza.
Fuori, il reparto era vivo e pulsante come il cuore di un atleta: le colleghe entravano e uscivano dalle camere per assistere i numerosi degenti. Entrai in medicheria per consultare il libro delle consegne, e appresi così che Emilia era entrata alle tre di notte, l’aveva portata un’ambulanza che, di ritorno da un altro servizio, l’aveva trovata a terra, in una strada nelle vicinanze. Prendendola per un’ubriaca, l’equipaggio l’aveva caricata e portata al pronto soccorso.
Il medico di turno, con una sommaria visita, l’aveva trovata sporca di sangue e aveva addotto il suo stato a una probabile ulcera gastrica. Viste le sue condizioni, aveva deciso il ricovero. Emilia ora era tranquilla, ma le sue condizioni non erano affatto migliorate, e sarebbe stata sottoposta a una gastroscopia.
Nella mattinata mi recai più volte al suo capezzale, e anche prima di smontare dal turno tornai da lei. Lei era lì, sempre uguale nella penombra.
Il mattino dopo fu la prima che visitai. Al mio tocco leggero aprì di scatto gli occhi, verdi laghi di paura.
Buongiorno signora, sono Rose, la sua infermiera, non abbia timore, non le farò male.
Emilia non mi ascoltava, forse non mi sentiva nemmeno. Fissava la fessura luminosa della finestra socchiusa, pareva bere quel filo di luce. Seguii il suo sguardo diretto come lama di un coltello, e istintivamente mi avvicinai alla finestra e aprii le imposte.
Lei emise un suono rauco, dette un lieve, lievissimo accenno di sorriso, gli occhi si riempirono della luce che dilagò nella stanza scaldandomi il cuore.
2
Sono Emmy, nonno.
Il vecchio signore, in giacca da camera, alzò gli occhi dal librone, posò la penna in un grosso calamaio, poi con calma si girò verso la piccola e le carezzò il capo. Con piacere arruffò i riccioli, tanto biondi da sembrare bianchi, e li stropicciò a lungo.
La bambina rise piano, con un verso curioso da gattino.
Piccola principessa, dai un bacetto al tuo nonnone e poi torna in giardino, c’è un bel sole, e io devo lavorare ancora.
La bimba si allungò sulle punte dei piedi e schiacciò un bacetto rumoroso sulla guancia dell’anziano, poi corse via, ridendo forte.
All’aperto la vita pulsava. Il giardino era grande, molto grande, pieno di aiuole fiorite, di alberi da frutto e di grandi pergolati di uva. Una parte del terreno, inoltre, era coltivata a orto per le necessità della casa.
Il giardiniere Salut lì era il padrone. Era giovane, sui trent’anni o forse meno. Accudiva l’orto e il giardino con dovizia ma senza amore. Non era un giardiniere vero, bensì l’attendente militare del nonno.
Gli attendenti del nonno, un colonnello vicino alla pensione, cambiavano spesso: qualcuno era bravo, volenteroso, altri invece erano dei vagabondi che prendevano quel servizio con l’idea di esimersi dalle marce.
Salut non era il suo vero nome, ma lo chiamavano tutti così per il suo modo di presentarsi. Spesso arraffava qualcosa nelle case dove lavorava, e aveva fatto anche qualche giorno di prigione; ma ora, essendo vicino al congedo, rigava dritto.
Le donne di casa lo comandavano spesso, e lui, viscido e servile, ubbidiva subito, pur non senza bofonchiare nel suo incomprensibile dialetto, con lo sguardo sempre pronto verso una caviglia nuda o un seno prosperoso.
Salut era cattivo dentro: non vedeva l’ora di andare a spendere i pochi soldi che aveva, da una certa signora del paese, molto conosciuta come dispensatrice di grazie, la quale, in cambio di certi lavoretti, talvolta gli faceva credito.
Salut non sarebbe mai diventato un buon elemento, e lui lo sapeva bene.
Nella grande casa vivevano tre generazioni della famiglia Simon Palomar, e ognuno era ligio ai propri doveri ma soprattutto ai propri diritti, cercando di apparire migliore degli altri, sebbene con garbo.
Il colonnello parlava poco, la voce rauca dal gran fumare, fra le labbra l’eterno sigaro, il cui odore avvisava della sua presenza ben prima che ci si accorgesse di lui, una gran testa leonina di capelli bianchi e due baffoni un po’ giallini da tricheco, che incorniciavano stranamente gli occhi, neri e pungenti, ai quali non sfuggiva niente di quello che accadeva intorno. Non alzava mai la voce, d’altronde non sarebbe servito, poiché gli bastava un’occhiata per mettere a posto tutta la famiglia.
Emmy lo amava molto, anche se dentro di sé pensava che quel sigaro che il nonno teneva sempre in bocca puzzasse molto, però si guardava bene dal dirglielo. Lei era l’unica a essere presa sulle ginocchia dal nonno e spazzolata nel collo dai suoi baffoni: ai maschi cose simili non si addicevano. Lei rideva forte, anche se l’odore del sigaro le dava noia.
I bambini di casa avevano regole fisse. Parlavano poco con i grandi, salvo il tempo in cui facevano i compiti, e questo era molto, dato che a quattro anni i maschi sapevano già leggere, scrivere e far di conto, mentre Emmy, poco portata per la matematica, aveva iniziato a studiare il mandolino con la nonna.
Le donne curavano la casa, non cose di fatica si intende, ma i ricami e gli argenti. Per il resto c’era un gran giro di persone che faticavano per loro.
Mentre loro chiacchieravano allegramente delle cose di ogni giorno, i piccoli seduti diligentemente al grande tavolo leggevano o studiavano o giocavano, senza far rumore, sempre sotto gli occhi vigili di mamme e nonna.
L’unico giorno in cui la sorveglianza si attenuava era il venerdì, quando arrivavano le lavandaie. Costoro, madre e figlia, vecchie anzitempo e disfatte dal lavoro e dalle privazioni, puntualmente si presentavano alla porta alle sette del mattino. La nonna gli faceva preparare latte e caffè bollente, col pane caldo del forno, loro si rimpinzavano per bene e poi si avviavano al lavatoio, andando avanti fino a sera, tra canti, risate e pettegolezzi.
Salut attingeva l’acqua dal pozzo con una grossa pompa, e dato che era muscoloso e abbronzato, le lavandaie lo stuzzicavano spesso. Lui rispondeva per le rime, tra grandi risate, ma quando si faceva troppo ardito, la nonna interveniva subito: Giovanotto, ricordati che il tetto è basso
.
Lui si azzittiva subito. I piccoli non capivano bene cosa c’entrasse il tetto basso, dal momento che erano all’aperto.
Le donne di casa erano tre, la vecchia signora e le sue due nuore, giovani e carine. Il colonnello diceva sempre: Le galline valgono meno del due di briscola
. Significava che le giovani contavano ben poco: era la nonna quella che faceva e disfaceva a suo piacimento, e a dire il vero neppure il colonnello la spuntava con quella donnina tutta pepe.
Elisa era la moglie del figlio mezzano, anch’esso ufficiale dell’esercito, si dava un sacco di arie e pretendeva più rispetto perché lei aveva studiato e suo marito contava molto, anche se in quel momento era in Africa, per la guerra. Talvolta aiutava il colonnello nella stesura dei suoi libroni, e per questo si sentiva importante e considerata.
L’altra, era la moglie del figlio maggiore, Paolo, un anarchico che a causa delle sue idee balzane, aveva avuto molti guai, tanto che aveva pensato bene di emigrare in Francia lasciando la famiglia nella casa paterna. Si chiamava Giannina e veniva da una famiglia povera di soldi ma ricca di figli e di ideali. Il suo matrimonio con Paolo era stato a lungo osteggiato in famiglia, per via di una lontana parentela finita a fucilate.
Giannina era povera e aveva studiato quanto bastava per scrivere una lettera e far di conto, ma le sue mani, allenate da anni di servizio dalle monache, volavano tra lini e merletti con tanta bravura da mettere in secondo piano tutto il resto. Spesso ricamava cifre per le suore del vicino ospedale, il guadagno era poco, ma lei diceva sempre che non voleva essere di peso, anche per le piccole cose, dato che al suo mantenimento pensavano i suoceri.
Era taciturna quanto l’altra era chiacchierona, e spesso si rinchiudeva nella sua camera per scrivere lunghe lettere, un po’ sgrammaticate, al marito lontano. Era spesso triste e con gli occhi bassi, quasi si rendesse conto di essere considerata poco.
Elisa, invece, frizzava di piacere per un abito nuovo o un cappellino alla moda, spesso usciva con le mogli di altri ufficiali per andare al circolo, e quando tornava aveva le guance rosse e un mucchio di cose da raccontare a Giannina e alla nonna. La vecchia signora le sorrideva con simpatia, perché si ricordava di quando era giovane e insieme al colonnello aveva girato il mondo.
Giannina invece ascoltava a bocca aperta: per lei quello era un mondo a parte, negato per sempre, e le ciance della cognata glielo facevano solo intravedere da lontano, come un miraggio. Quelli erano gli unici momenti nei quali si lasciava andare alle risate per poi precipitare di nuovo nel suo mondo triste e grigio.
Eppure non era sola nella grande casa. Il marito se ne era sì andato, ma le aveva lasciato un piccolo fiore da curare: Giannina era la madre di Emmy.
I nonni avevano anche un altro figlio, Mauro, chiamato il signorino a causa del suo carattere. Era uno studente imberbe e scavezzacollo, occhio destro della nonna. Mauro era nato quando la nonna pensava di essere già vecchia e non avere più niente da offrire al suo bel colonnello. Il bambino le aveva ridato la gioia della gioventù, e lei cantava spesso accompagnandosi col suo mandolino.
Il colonnello, all’arrivo del piccolo, si era congedato dall’attività militare sul campo per fare il signore di campagna. Era già in su con l’età, e pensava bene di avere già corso abbastanza rischi.
Per quel giovane figlio, la signora voleva una vita di lusso, uno studio da avvocato e una bella moglie di buona famiglia. Per lui non lesinava né soldi, né complimenti. E faceva male, perché il giovane Mauro aveva le mani bucate e pensava che la cassa di famiglia fosse il pozzo di san Patrizio. E comunque, dove non arrivava la madre, arrivava Elisa e talvolta anche Giannina, dato che lui non si vergognava affatto di rimediare qualche spicciolo dalle cognate.
Se per Elisa questo non era un grosso problema, Giannina era più restia a