Crisi. Condizione e progetto: Officine Filosofiche
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Gli autori: Massimo Amato, Riccardo Bellofiore, Stefano Berni, Alessandro Colombo, Ubalfo Fadini, Francesco Garibaldo, Manlio Iofrida (a cura di), Diego Melegari, Stefano Righetti, Valerio Romitelli.
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Anteprima del libro
Crisi. Condizione e progetto - a cura di Manlio Iofrida
OFFICINE FILOSOFICHE
Qualche nota preliminare sul significato del progetto di Officine Filosofiche
: che senso ha tentare di lanciare un nuovo progetto di lavoro filosofico collettivo in un momento come questo? Credo che sia a tutti evidente, infatti, come ormai da vari anni, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale ci troviamo in un periodo di crisi della filosofia: le vecchie scuole e i loro vecchi leader sono quasi tutti scomparsi o stagnano nella ripetitività, mentre d’altra parte monta una forma di brutale pragmatismo che non travolge solo la filosofia, ma ogni tipo di cultura, anche scientifica, che non sia immediatamente fonte di profitto. Allarghiamo dunque un po’ il discorso alla situazione storico-politica, dato che il tipo di filosofia che esso cercherà di rilanciare non si colloca in una dimensione teoretica e astorica, ma, al contrario, intende rivendicare la sua appartenenza alla storia…
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OFFICINE FILOSOFICHE
Collana di filosofia
Coordinamento scientifico:
Manlio Iofrida, Stefano Berni, Ubaldo Fadini, Stéphane Haber, Stefano Righetti
Comitato di redazione:
Silvano Cacciari, Gianluca De Fazio, Marco Della Greca, Alessandro Dondi, Ivano Gorzanelli, Diego Melegari, Katia Rossi, Andrea Sartini, Caterina Zanfi
Direttore:
Manlio Iofrida
Università di Bologna, Dipartimento di Filosofia, via Zamboni, 38 – 40126 – Bologna
e-mail: manlio.iofrida@unibo.it
www.officinefilosofiche.it
© STEM Mucchi Editore s.r.l.
Via Emilia Est, 1741 - 41122 Modena
www.mucchieditore.it
info@mucchieditore.it
facebook.com/mucchieditore
twitter.com/mucchieditore
instagram.com/mucchi_editore
Edizione digitale:gugno 2017
Produzione digitale: Mucchi Editore
ISBN: 9788870007510
ISSN di collana: 2532-3822
Indice
Collana
Comitato
Frontespio
Colophon
Presentazione di Manlio Iofrida
L'officina (critica) del filosofo - Stefano Righetti
Saggi
La filosofia messa in mezzo Tra antropologia e sociologia - Ubaldo Fadini
Per una storia naturale del concetto di natura. Dal giusnaturalismo alla genealogia - Stefano Berni
Natura, soggetto, libertà - Manlio Iofrida
Un convegno sulla crisi attuale (sezione a cura di Diego Melegari)
Il ritorno della politica? Di che cosa si parla e di che cosa si tace quando si parla di crisi? - Diego Melegari
Cosa significa crisi
? - Massimo Amato
Crisi e critica - Manlio Iofrida
Per chi parla e per chi tace la crisi - Riccardo Bellofiore
La crisi, il sindacato, l'alternativa - Francesco Garibaldo
La crisi dell'ordine politico internazionale - Alessandro Colombo
Le radici ideologiche della crisi - Geminello Preterossi
Quale politica dovrebbe ritornare? - Valerio Romitelli
Libri recenti
Gilles Clément, Breve storia del giardino - Caterina Zanfi
Filosofie della metropoli. Spazio, potere, architettura nel pensiero del Novecento, a cura di Matteo Veggetti - Ivano Gorzanelli
Lambert Wiesing, Das Mich der Wahrnehmung. Eine Autopsie - Toni Hildebrandt
Massimo De Carolis, Il paradosso antropologico - Caterina Zanfi
MANLIO IOFRIDA
Presentazione
Qualche nota preliminare sul significato del progetto di Officine Filosofiche
: che senso ha tentare di lanciare un nuovo progetto di lavoro filosofico collettivo in un momento come questo? Credo che sia a tutti evidente, infatti, come ormai da vari anni, non solo in Italia, ma anche a livello internazionale ci troviamo in un periodo di crisi della filosofia: le vecchie scuole e i loro vecchi leader sono quasi tutti scomparsi o stagnano nella ripetitività, mentre d’altra parte monta una forma di brutale pragmatismo che non travolge solo la filosofia, ma ogni tipo di cultura, anche scientifica, che non sia immediatamente fonte di profitto. Allarghiamo dunque un po’ il discorso alla situazione storico-politica, dato che – e questa sarà una delle caratteristiche della linea di questa proposta di elaborazione collettiva – il tipo di filosofia che esso cercherà di rilanciare non si colloca in una dimensione teoretica e astorica, ma, al contrario, intende rivendicare la sua appartenenza alla storia.
Innanzitutto, pare chiaro che, nell’intervallo che va dal settembre 2001 alla grande crisi economica apertasi nel 2008 e tuttora in corso, una fase si sia chiusa: la fase del predominio di una potenza unica, sotto il segno di un capitalismo globalizzante capace di imporre il suo sistema altrettanto unico, la democrazia liberale. Non abbiamo più una potenza unica, ma una pluralità di potenze, di cui alcune (Cina, Brasile) fuori dall’area occidentale; riesplode dunque il conflitto, e anche la possibilità della guerra, non più relativamente controllata da ombrelli duplici o unici; non esiste più l’equazione capitalismo-liberaldemocrazia, ma, al contrario, in molti paesi (fra cui l’Italia e forse buona parte dell’Europa), lo sviluppo capitalistico sembra poter essere garantito solo da una democrazia autoritaria o populista, cioé da una forma mascherata di totalitarismo. Anche gli ultimi sviluppi della situazione italiana, con l’avvento di un governo del Presidente
, composto da cosiddetti tecnici, confermano queste tendenze, svuotando sempre più le strutture della democrazia rappresentativa e conferendo i poteri decisionali sui nodi politici fondamentali a organismi finanziari o bancari sovranazionali. In questo quadro, particolarmente acuta è la crisi dell’Europa, che corre il rischio di disgregarsi e avviarsi sulla strada di una più che possibile decadenza economica, sociale e civile. Va da sé che in questo modo emergono i limiti storici del capitalismo – per un trentennio di nuovo promosso a istituzione naturale
– e si riaffaccia una nuova attualità di alcuni aspetti del pensiero di Marx.
In questo abbozzo della situazione attuale abbiamo per ora tenuto conto solo delle categorie politiche tradizionali, moderne: ma da almeno un trentennio il quadro di queste ultime è stato messo radicalmente in discussione non certo dal postmoderno, ma dalla crisi ecologica e dai movimenti e dalle correnti di pensiero che ad essa si rifanno. Che la fase del capitalismo prometeico, apertasi più di due secoli or sono, sia alla fine e che le risorse del pianeta e le sue condizioni di vivibilità stiano per essere consumate è un dato di fatto che ormai è negato da pochi – tanto è vero che il termine, sempre più svuotato di significato, di ecologia è entrato nel vocabolario politico di tutte le parti politiche. Ma le risposte che la crisi economica sta per ora suscitando da parte dei vari governi sembrano ben lontane da poter invertire la rotta autodistruttiva su cui siamo incamminati. A questo proposito, poiché già ho parlato di storia, vorrei precisare che il concetto di storia che vorremmo rimettere al centro dell’attenzione non è quello umanista e storicista, che prospetta un’umanità che sempre più domina e divora la natura; e che tale concetto è intrinsecamente connesso, oltre che col tema della natura e dell’ecologia, anche con la possibilità della crisi radicale, della ricaduta nella barbarie; e non ci sentiamo affatto di escludere che ciò a cui stiamo assistendo non sia proprio l’inizio di questo.
Si sarà già capito che, se non crediamo alla fine della storia, meno che mai crediamo alla fine della filosofia: comunque vadano le cose, è ovvio che oggi il suo ruolo è per noi più che mai centrale, anche se altrettanto ovvio è che anche le più recenti correnti – che sono state e restano significative – della filosofia contemporanea debbano essere profondamente rinnovate. L’esistenzialismo di Sartre e Merleau-Ponty, la dialettica negativa di Adorno, il poststrutturalismo di Foucault, Deleuze, Derrida, tutte queste dottrine sono nate in una situazione storica del tutto diversa dalla nostra: in quel periodo 1945-1980 che ha visto la crescita del welfare-state, la coesistenza pacifica, l’ultimo grande decollo economico dell’Occidente… D’altra parte, ci pare anche ovvio che l’unica (e piuttosto grama) filosofia che sia succeduta a quelle citate e si sia affermata a partire dagli anni ’80, il postmoderno¹ e la sua versione italiana, il pensiero debole, con la loro ottimistica esaltazione del dominio tecnologico e la loro delineazione heideggeriana di un mondo poststorico, siano stati, e con particolare rapidità, superati dagli eventi: non la (post)storia come ironia e gioco di rimandi, ma la storia come conflitto, crisi e possibile tragedia è quella che abbiamo oggi davanti.
I due gruppi che confluiscono in questo progetto, uno fiorentino, l’altro bolognese (con queste due etichette generalizzo un po’, in realtà ci sono molte differenze individuali), condividono alcuni aspetti fondamentali di questa lettura del nostro presente, ed anche l’attenzione al risorgere di istanze radicali che l’epoca precedente aveva messo in soffitta: per dirla alla grossa, siamo d’accordo che bisogna rileggere Marx e che bisogna dare una nuova centralità alla questione ambientale. C’è però, in questa concordia, un accento diverso: il gruppo di Firenze è più attento a un Marx che si combina con l’anticapitalismo di Deleuze, con l’antropologia tedesca del Novecento e pensa al problema ambientale attraverso una forte valorizzazione della nuova tecnica; complessivamente, è un po’ più artificialista
e punta di più alla creazione di un soggetto collettivo
di tipo nuovo, che incarni quella comunità minore
, protagonista di una letteratura e di una politica minore, di cui Deleuze parla nel suo libro su Kafka; ma guarda anche alla nuova soggettività collettiva che si sta configurando nel web e alle possibilità che hanno le nuove tecniche di arricchire di nuove facoltà
(come diceva Nicola Badaloni) la specie umana. Il gruppo bolognese, invece, pensa a un Marx un po’ differente: a quello che, in contradddizione col prometeismo così borghese
della pagine del Manifesto
, si è entusiasmato quando è uscita l’Origine della specie di Darwin e ha cercato di inscrivere il Capitale nel solco della storia naturale che Darwin aveva aperto. Questo Marx (certo in un modo solo parzialmente tematizzato e consapevole) riallaccia il filo con la tradizione romantica, mette di nuovo al centro la natura e propone non una sua storicizzazione integrale, ma al contrario una storia che è interna alla natura e che è in relazione dialettica con essa. Questa maggior propensione ecologica
dei bolognesi si sostanzia nell’attenzione verso autori come Merleau-Ponty, Simondon, Descola, Ingold, Sennett, certi aspetti del pensiero post-strutturalista (Foucault, Deleuze, Derrida), un certo Wittgenstein e il neopragmatismo… Ma con questo elenco si vede che i nostri due gruppi già cominciano a ricoprirsi e a confondersi un po’. In comune abbiamo, sul piano filosofico, ma anche, più in generale, culturale, l’interesse a un tempo verso il versante culturale francese e verso quello tedesco: non sempre si è consapevoli del fatto – noto e inoppugnabile – che il dialogo fra le due sponde del Reno, a partire dalla Rivoluzione francese e dall’età di Goethe, è stato costante e ha dato i migliori frutti della cultura europea: e ciò è vero anche per la filosofia più recente, e in particolare quella poststrutturalistica. Uno dei nostri obiettivi è di sviluppare e approfondire, con maggiore consapevolezza, questo intreccio e questo dialogo. In comune abbiamo poi l’esigenza di ripensare, probabilmente con sfumature diverse, il collettivo, e quindi la politica: certo tale ripensamento deve essere fatto in modo totalmente nuovo rispetto al passato, ma rimane il fatto che la politica continua a essere centrale per noi e per la nostra attività intellettuale – un punto per cui apparteniamo certo a una ben determinata tradizione, che parte dall’epoca della Rivoluzione francese, fatto di cui non ci vergogniamo, che anzi rivendichiamo con orgoglio: anche per questo aspetto Marx rimane un riferimento per tutti noi e credo che siamo tutti d’accordo che sia l’ora di rileggerlo, di discuterlo, di fare una nuova partizione fra ciò che è morto e ciò che è vivo in lui (come coraggiosamente, anche se insufficientemente, si propose di fare Derrida con Spettri di Marx); da questa idea di un’attività intellettuale che si sente legata alla politica, anche se né cerca né vuole legami organici con nessuna organizzazione politica, discende anche l’attenzione alla letteratura, al cinema, alle tematiche artistiche in generale, perché il Novecento ci ha insegnato che l’arte non è il campo della vecchia estetica, ma un modo autonomo e irrinunciabile per pensare e trasformare il mondo e per istituire relazioni nuove col mondo e con gli uomini.
Sulla base di queste linee programmatiche abbiamo iniziato un lavoro e un confronto collettivo, in cui cercheremo di coinvolgere tutti coloro che, non solo nelle istituzioni universitarie, si muovono nella stessa direzione o comunque possono essere interessati al nostro progetto; e fin da adesso ci dichiariamo aperti all’apporto di tutti coloro che vorranno inviarci un loro contributo o proporci un lavoro comune.
1 Poiché il termine ha un fascio di significati assai largo e eterogeneo, preciso che mi riferisco al suo significato filosofico e, in particolare, alla versione che ne ha dato Lyotard nel suo La condition postmoderne, Minuit, Paris, 1979.
STEFANO RIGHETTI
L’officina (critica) del filosofo
Una collana che si proponga oggi con questo nome deve necessariamente declinare il concetto di officina (concetto ormai fuori moda, inattuale e a suo modo déjà vu) in termini non equivocabili e sgombrare perciò il campo da qualsiasi ambiguità o riferimento al passato, a polemiche e a questioni letterarie del tutto dimenticate e diverse dalle attuali.
Eppure il termine officina mantiene il senso di qualcosa che il post della modernità e il dopo
dell’organizzazione fordista del lavoro e, da ultimo, (ahinoi) perfino del suo rimpianto, sembra continuare a rincorrere. Si tratta di qualcosa che la stessa decostruzione aveva a suo modo interpretato a rovescio, e che sembrava conservare, anche se in termini negativi, mentre la cultura del reality show stava ormai per prendere il sopravvento, il nichilismo rinnovava le sue lusinghe luccicanti, e la filosofia stessa (nel disperato tentativo di sfuggire alla sua morte accademica) si faceva, da ultimo, pop
e rock
e perfino (in tutti i sensi) porn
.
Ora, questo qualcosa che l’«officina» richiama, prima ancora che il luogo di un lavoro è, più direttamente, un offĭcĭum: vale a dire un compito, una funzione. E la scommessa dell’offĭcĭo, di qualunque attività assuma questo significato, sta in quella che potremmo definire, in qualche modo, la consapevolezza del fine
. Solo attraverso questa consapevolezza, per parafrasare Derrida, la fine (anche quella della filosofia) può tornare a farsi inizio e, cioè, finalità. Un’officina filosofica implica perciò, innanzitutto, la ricerca di questo fine, dopo che la filosofia si è andata ritirando nella «fine» della sua post-identità.
Non dovrebbe trattarsi di un ritorno a una qualche idea metafisica, o a un pensiero nuovamente muscolare e muscoloso, e neppure a una qualche teologia o ideologia dal passato imbarazzante, come piace tanto ad alcuni filosofi oggi alla moda (così estremi e così inoffensivi). Si tratta invece di provare a interpretare
il compito con cui l’offı˘cı˘o filosofico può essere nuovamente aggiornato nella condizione attuale.
Sappiamo che l’offĭcĭum, per gli Antichi, è un termine complesso. Per un lato, infatti, esso rimanda al compito, al munus, e sottintende la capacità che ognuno di noi deve possedere (anche in Italia?) per esercitare una determinata funzione – anche nel senso di quella che chiameremmo oggi (nei termini un po’ burocratici dell’attuale accademia) una «specializzazione». E per la filosofia qui sta, forse, il primo problema da risolvere, ma che una certa moda filosofica sembra invece eludere con una sorta di ermeneutica
a buon mercato, applicata con cura pubblicitaria a ogni fenomenologia di massa: il problema di assumere il compito di interrogarsi sulla specializzazione che l’offĭcĭum filosofico rappresenta; o, se vogliamo, su ciò a cui il compito filosofico rimanda, pur senza richiamarsi per questo a una qualche «utilità» in senso spiccio. D’altra parte, poiché ci si appresta all’offĭcĭo assumendosi la responsabilità di quel compito particolare il cui fine rappresenta anche l’unica garanzia di valore, il lavoro dell’offĭcĭum assume, per gli Antichi, il significato di un compito etico. Eppure, proprio questo aspetto non è esente da rischi. Sappiamo infatti che l’etica, a cui l’offĭcĭum richiama, può volgersi su se stessa e porsi in termini assoluti, come imperativo morale del dovere e come assoggettamento al comando. Ed è in tal modo che l’ontologia moderna, dalla metafisica alla politica, ha interpretato il compito e l’offĭcĭum¹.
Allo stesso tempo, l’offı˘cı˘o è diventato per noi, a partire dal XIX secolo, oltre che il compito ideologico dell’esercizio del potere anche uno spazio e un simbolo: una parola dal significato denso come il metallo che evoca, insieme al sudore, al grasso degli strumenti martellanti, ai forni roventi, al rumore sordo delle macchine; o leggero, quasi impalpabile, come certi fogli sottili che hanno caratterizzato i luoghi della burocrazia e dell’impiego «triste» del borghese. E in questo senso, il munus è allora sembrato perdere il dovere del compito, almeno nel senso etico della sua responsabilità, e assumerlo secondo quel particolare senso del «dovere» che è diventato per noi l’obbligo alla produzione, col suo mediocre ricatto imposto dal «capitale».
Per tutto il XIX e il XX secolo, ogni realismo ha fatto di questa pesantezza, o di questa leggerezza, la propria bandiera e il simbolo stesso del lavoro moderno. E l’offĭcĭum ha assunto il significato prevalente della trasformazione e della violenza sulla natura e sul territorio, mentre il munus è stato rivestito di un significato meramente costruttivo
. Esso ha rappresentato così la realizzazione compiuta, l’«opera» in quanto tale, con la sua definitezza chiusa e determinata, e il suo valore assoluto (che rimane sempre un valore in sé, come dimostra benissimo l’architettura contemporanea in cui siamo costretti ad abitare). E in questo senso, il munus è diventato anche l’Opera a tutti i costi
. Perché l’unico motivo dell’opera, a cui l’offĭcĭo sovrintende, è appunto quello economico; così che l’officium ha assunto per lo più il significato di un’azione e di un compito collegati direttamente all’indice di sviluppo (il Pil) in cui si è trascritto in termini di guadagno anche ciò che sarebbe stato forse più corretto trascrivere in termini di