Lo spettatore
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Il “prospettivismo” non è opaca e inerte neutralità, ma franca scelta di un punto di vista, di un angolo di osservazione, che permetta di abbracciare gli eventi, di sorprenderne la logica interna, e di misurarne l’energia distruttiva o costruttiva. Ha scritto Ortega y Gasset in una delle pagine più nette e sicure: «Ogni vita è un punto di vista sull’universo. A rigore, ciò che essa vede non lo può vedere un’altra. Ogni individuo – persona, popolo, epoca – è un organo insostituibile per la conquista della verità. Ciascun individuo è un punto di vista essenziale».
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Anteprima del libro
Lo spettatore - Natalino Irti
Gli occhiali del giurista e lo sguardo
di Ortega y Gasset
Questa rubrica, destinata ad accogliere pensieri domenicali (quando se ne dia occasione e gusto di scrittura), osa prender titolo dai saggi di un insigne filosofo spagnolo, José Ortega y Gasset. Il quale, in piccoli quaderni apparsi tra il 1916 e il 1934, fu El Espectador
degli eventi più vari, capaci di destare curiosità e imporre riflessione.
Ma non solo il titolo, poiché Ortega vi esprimeva il proprio rapporto con il mondo e la propria filosofia. È quasi passata in moda, o consuetudine di citazione, la frase «Io sono me stesso e la mia circostanza»: dove «circostanza» sta a indicare tutto ciò che ci è intorno, e ci avvolge, ed esige una nostra presa di posizione. Lo Spettatore guarda questo ricco mondo dal suo punto di vista: dalla sua «prospettiva», diceva Ortega.
Lo guarda – è da chiarire – come da lontano, da una certa distanza, non già perché ne sia estraneo (anch’egli appartiene a quel mondo), ma nella tensione di capire i movimenti più nascosti, le forze storiche che lottano e corrono l’incognita del vincere o del soccombere. Il «prospettivismo» non è opaca e inerte neutralità, ma franca scelta di un punto di vista, di un angolo di osservazione, che permetta di abbracciare gli eventi, di sorprenderne la logica interna, e di misurarne l’energia distruttiva o costruttiva. Ha scritto Ortega in una delle pagine più nette e sicure: «Ogni vita è un punto di vista sull’universo. A rigore, ciò che essa vede non lo può vedere un’altra. Ogni individuo – persona, popolo, epoca – è un organo insostituibile per la conquista della verità. (...) Ciascun individuo è un punto di vista essenziale».
I tempi, che il destino ha assegnati alla nostra vita, sono densi di eventi. La tecno-economia, ha planetaria coalizione fra tecnica ed economia, che Ortega poteva soltanto intravvedere (ma pur ne colse la immane potenza), domina la natura e la storia degli uomini. Si approntano difese del clima e dell’ambiente; si ridefinisce lo scopo dell’impresa, che si vorrebbe etica o sostenibile; si elevano «diritti umani» o «fondamentali» a protezione dell’uomo nella sua identità biologica; si prefigurano nuove forme di democrazia; si rimedita lo stesso concetto di libertà.
Un addensarsi di problemi e interrogativi, che esigono, non solo sensibilità storica e volontà di governo politico, ma pure l’occhio degli spettatori, gli «amici del guardare», a cui si rivolgeva Ortega. Per guardare, cioè provare a capire ciò che accade o può accadere, è necessaria la fatica della distanza, del trarsi fuori dall’immediatezza delle cose, dello scorgere un senso d’insieme. La fatica è forse più agevole per il giurista (e tale è, e rimane, l’autore di questa colonnina): più agevole, poiché egli ragiona e argomenta in base a schemi normativi e criteri istituzionali; ma anche più ardua, poiché il suo sguardo deve slargarsi e toccare ambiti contigui o lontani della vita collettiva.
Il giurista è come uno spettatore fornito di occhiali particolari, che illuminano alcune cose, ma altre (e sono la più parte) nascondono e velano di nebbia. Allora egli ha l’impegno di diradarla, e di spingersi, come può, fino all’estremo limite della propria comprensione, dove l’assenza di forma fa sospettare la minaccia del caos. Può dirsi spettatore delle forme
, siano esse proprie di istituti già saldi e duraturi o soltanto labili emergenze e preannunci del domani: ma sempre forme
, cioè fisionomie costruite dagli uomini per la necessità della convivenza. Il suo compito sta nello scoprirle o intuirle, e nel ridurle a quel tanto o poco di razionalità che i tempi concedono. Egli non propone né suggerisce, non consiglia né condanna, ma sta in vigile attesa.
Domenica 10 Ottobre 2021
La politica fa i conti con eccezionalità
ed emergenza
Se, come si insegna da eminenti filosofi, l’individuo si risolve nelle opere, che egli fa o concorre a fare, allora le cadenze anniversarie dovrebbero riguardare, non il semplice nascere e morire, ma poesie, romanzi, saggi di studio, e, insomma, tutte le orme lasciate dall’uomo nella vita materiale e spirituale.
Nessuno ha rammentato il centenario di un grande libro di Carl Schmitt, La Dittatura (Die Diktatur), apparso nel 1921, e oggi tenuto per classico delle teorie politiche e giuridiche. Forse il silenzio nasce dalle cupe ombre, che si distendono sulla vita, o su tratti di vita, di Schmitt, e lo accompagnano anche nella tarda solitudine di Plettenberg. Il libro gravita (e duole di sciuparne qui la ricchezza argomentativa) sull’ardua distinzione fra dittatura commissaria
e dittatura sovrana
: l’una si svolge all’interno di un dato ordinamento, e lo difende e protegge; l’altra contrappone un diverso ordinamento, e dà mano per instaurarlo in luogo di quello in vigore. Schmitt trae la prima figura dalle fonti romane, dove il dictator è preposto, per preciso periodo di tempo, a un àmbito di attività, si scioglie da tutti i vincoli di decisione collegiale, ma pur depone ogni autorità dopo l’esaurimento dell’ufficio. È, questa, la figura consueta nella storia europea, che oggi si riaffaccia, sotto più amabile e innocente nome di commissario
, in tutte le situazioni di emergenza
o eccezionalità
. Designano queste parole stati di cose assai diversi, poiché l’emergenza è evento interno alla normalità (la quale, come è ovvio, non è un quieto e sereno scorrere), mentre l’eccezione rompe la regola, e ferisce o schianta la normalità di un dato sistema.
Il libro di Schmitt non poteva presagire forme di dittatura tecnocratica, al cui servizio si pongano economia e politica. Né distinguere, in questo nuovo e diverso orizzonte, gradi di costrizione fisica e spirituale, che serrino l’individuo nei luoghi di lavoro e nella stessa quotidianità di vita. Ma l’autore – incomparabile e controverso spettatore
del secolo ventesimo – avvertì, nella prefazione alla quarta edizione del 1978, come ben poteva accadere che «taluni capitoli di questo libro appaiano in una luce del tutto nuova».
Quella luce, che giunge ora dalle vicende mondiali degli ultimi anni.
Domenica 24 Ottobre 2021
Il movimento e la trasformazione in struttura
Le parole vanno interrogate e adoperate nella loro più intima profondità. Che spesso non è offerta dalla radice etimologica, ma dalla storicità dell’uso. Come è ovvio, le due prospettive possono congiungersi e affidarsi a un concorde significato. È agevole e spontaneo ricondurre movimento
al muoversi, alla condizione di qualcosa che non se ne sta definita e ferma, ma si fa nell’agire e nel tempo.
Questo farsi
esprime sensibilità individuali e collettive, ascolta rumori del sottosuolo, enuncia e dissolve idee. Le sue forme visibili – raduni, convegni, sit-in simbolici ecc. – sono da osservare e capire: lo Spettatore vi trova il suo terreno d’elezione, il materiale del suo pervicace guardare. Gli occhi si fermano sulla direzione
di così quotidiano e vivace agitarsi. Verso dove
scorre il movimento? E quale consapevolezza ne guida e orienta i passi?
La risposta a queste domande implica che il movimento abbia già dall’origine, o si dia in corso di tempo, una qualche struttura. Sociologi e storici hanno indagato il problematico rapporto fra i due fenomeni (essenziale, dopo pagine di Max Weber, rimane il saggio di Francesco Alberoni su Movimento e istituzione, datato 1977). Il movimento è gettato in un dilemma di vita: senza struttura, rischia di dissolversi e svanire nell’effimero; dotandosi di struttura, diventa altro
, si irrigidisce e indurisce. La struttura – che sia partito o ordine religioso o istituto giuridico – ha il duplice volto della salvezza e della perdizione: un volto tuttavia necessario, poiché il movimento non basta a sé stesso, e reca dentro la vocazione a consolidarsi e a prendere una forma
stabile e duratura.
Regimi del Novecento, e anche di questo secolo, hanno provato a conservare il movimento accanto alla struttura, in modo da non privarsi di freschezza di idee e spontaneità d’animo. Queste ardue e rare esperienze svelano la gravità del conflitto e insieme la necessità della duplice garanzia, che non spenga la vitalità del movimento e insieme offra serietà e continuità della struttura. Sta alla minoranza direttiva di non dissipare l’originaria spontaneità del movimento e di farne una dotazione, la quale si rinnovi e cresca nel tempo: forse irregolare e scomposta, ma indispensabile per le fondamenta e gli scopi della struttura.
Domenica 31 Ottobre 2021
Il politicamente corretto e la fatica di pensare
Anche sugli studî giuridici, che dall’uomo comune si reputano rigorosi e austeri, aleggia la spensieratezza del politicamente corretto
. Spensieratezza, cioè un liberarsi della fatica di pensare, un fatuo abbandono al conformismo. Così, a mano a mano, si determina una sorta di retorica, un uggioso reiterare di moduli argomentativi e linguistici in pagine di giuristi, docenti canuti e allievi servili.
Primeggia fra essi la critica al positivismo
, un bersaglio mai definito, lasciato in un’ombra di significati, che tutto può accogliere ed esprimere. Eppure lo scrupolo filologico, da cui dovrebbe muovere ogni serio argomentare, ci insegna che positivismo è la teoria (e la congiunta prospettiva di studio) di un diritto posto
. Posto, come è nel nostro cammino terreno, da uomini per altri uomini: un affare tra uomini
, direbbe Albert Camus, che risolvono da soli le questioni del loro convivere.
Non riceviamo un diritto dall’esterno, né per benignità del cielo né dalle tenebre del sottosuolo, ma lo facciamo noi, è una nostra creatura, fragile e mutevole, caduca e imperfetta, come tutte le opere dell’uomo. Donde la nota di umiltà, che sempre accompagna la pagina del pensoso giurista, il quale conosce la solitudine del porre
e il destino di precarietà delle leggi.
Questa umiltà lo sospinge alla particolare concretezza delle norme, alla protezione istituzionale di scopi, che rimarrebbero utopie o sogni di visionarî, se non fossero calati nella positività delle leggi e nella efficacia del loro rigore. Profeti disarmati
, ad usare la schietta e dura prosa di Machiavelli, coloro che elargiscono diritti
all’umanità intera, e non si curano dei singoli individui nella determinatezza di situazioni storiche e sociali. O coloro, che disegnano piani mondiali, e non si abbassano alle indagini su Paesi lontani e civiltà straniere. Né convegni di Stati, né proclami di notabili, né vivaci agitazioni di piazza, né fresche passioni di adolescenti, possono tenere il luogo della concreta positività di leggi, che tutelino i diritti dei singoli e adottino garanzie di concreta applicazione.
Diseducativa e ingannevole è la spensierata retorica dell’anti-positivismo: l’una, poiché riduce e sfiacca la volontà dell’uomo, teso a costruire il suo mondo terreno; l’altra, poiché illude e delude, promette e tradisce, e finge di donare ciò che, nella storia dell’umanità, è sempre conquista faticosa, risultato incerto e labile, approssimazione infinita e inappagata.
Domenica 7 Novembre 2021
La virtù è un impegno della volontà, uno stile di vita
Le quattro virtù cardinali, così denominate da Sant’Ambrogio, prudenza giustizia temperanza fortezza, segnano ancora la