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Saturnini, malinconici, un po' deliranti: Incontri in terra veneta
Saturnini, malinconici, un po' deliranti: Incontri in terra veneta
Saturnini, malinconici, un po' deliranti: Incontri in terra veneta
E-book216 pagine3 ore

Saturnini, malinconici, un po' deliranti: Incontri in terra veneta

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Il filo che Nicola De Cilia dipana in questo libro di incontri e interviste con scrittori veneti del secondo Novecento è il tenace rapporto che lega ciascuno di loro alla terra e al paesaggio. È quanto unisce due combattenti, Antonio Giuriolo e Antonio Adami, ‘ piccoli maestri ’ dell’epica resistenziale, ai grandi del dopoguerra: Andrea Zanzotto, Luigi Meneghello e Mario Rigoni Stern. Per tutti, l’esperienza della libertà è scaturita quasi per osmosi dal terreno stesso, le forme del paesaggio divenendo forme della coscienza.
Analoga fratellanza incardinata nella terra accomuna Giuseppe Berto, Giovanni Comisso, Goffredo Parise e Nico Naldini – la storia e l’opera di ciascuno stretta fra radicamento e impulso nomade. Sono vagabondi felici, ma sognano ovunque il « cielo nordico del Veneto ». Quel paesaggio è oggi sfregiato. Lo strazio e, insieme, la « ribelle speranza » che ne viene si leggono nell’intensa conversazione con Luciano Cecchinel, poeta grande in lingua e in dialetto, anche lui indomabile combattente civile. Il cerchio così si chiude, specchiandosi nel «grido di gioia ferito» di Pier Paolo Pasolini in contrappunto con la disperata nostalgia dell’artista Loreto Martina.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2018
ISBN9788887007169
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    Anteprima del libro

    Saturnini, malinconici, un po' deliranti - Nicola De Cilia

    1973

    Intellettuali in armi, nonviolenti - Antonio Giuriolo e Antonio Adami

    L ’ eroe è una cosa trascinata dietro un carro nella polvere.

    Simone Weil, Iliade, o il poema della forza, 1940-1941

    Antonio Giuriolo e Antonio Adami hanno operato in epoca fascista e combattuto nella Resistenza. Molti sono i tratti in comune: entrambi veneti (Giuriolo della provincia di Vicenza, Adami di quella trevigiana), protesi alla difficile identificazione tra cultura e vita, convinti della responsabilità morale e sociale dell’intellettuale. Anche l’impegno nella Resistenza li rivela affini nelle ‘anomalie’ partigiane: sono infatti vicini alle idee nonviolente, mutuate per Giuriolo dal magistero di Aldo Capitini e maturate, in Adami, attraverso una sorta di eresia evangelica nutrita di elementi filosofici. Entrambi, uccisi dai nazifascisti.

    Tuttavia, ad accomunarli è soprattutto un aspetto malinconico, quasi un sottofondo di disperazione, che nasce dal conflitto tra l’aspirazione nonviolenta e la necessità di partecipare comunque alla lotta partigiana. Nel cuore di questa contraddizione si consuma il dramma umano: il dovere etico di partecipare alla storia nel suo farsi senza mai venir meno al rigore morale, alla propria responsabilità di intellettuale nella voluta continuità fra le proprie idee e l’essere nel mondo. Affiora in loro, tuttavia, anche la consapevolezza che la storia è comunque ingovernabile e che alla purezza degli ideali corrisponde un inevitabile ‘sporcarsi’ con il mondo che incrina la coerenza della complessa scelta nonviolenta. Infine, che soggiacere alle regole della forza significa una sconfitta sia per i vincitori sia per i vinti. Valgono per loro le riflessioni di Simone Weil sulla forza: «Colpire ed essere colpito è un’unica e medesima impurità. Il freddo dell’acciaio è ugualmente mortale all’impugnatura e sulla punta. Tutto ciò che è esposto al contatto della forza è suscettibile di degradazione» ( I catari e la civiltà mediterranea, 1942).

    Qui si fermano le similitudini: se prima della lotta partigiana in montagna l’attività antifascista di Giuriolo si svolge principalmente in ambito urbano, fra Vicenza e Padova, l’esperienza di Adami è tutta in ambito rurale. Di Giuriolo restano moltissimi documenti, grazie all’ambiente familiare e cittadino che ha saputo rendersi custode della sua memoria. Di Toni Adami, invece, rimane poco o niente: tolti i ricordi di Andrea Zanzotto e di pochi altri partigiani, restano memorie orali sfilacciate che, se contribuiscono ad alimentare l’aura del mito, poco aiutano alla ricostruzione storica e biografica della vicenda umana e politica. Anche i suoi manoscritti, custoditi dal vecchio priore del monastero di San Pietro di Barbozza, sono andati dispersi. Adami sconta l’arretratezza di un luogo che, agli occhi di molti, sembra rivestire le caratteristiche di una Fontamara veneta.

    «Credo che di maestri di simile tempra ce ne siano stati in ogni parte d’Italia pochi bensì, ma non pochissimi. Dietro a quasi ogni gruppo di studenti partigiani o resistenti ce n’è stato uno; e penso che sarebbe importante studiarli, ricostruire bene la loro cultura, riconoscere l’origine e la tempra del loro non-conformismo, rintracciare la storia delle loro libere scuole e gli effetti della loro influenza. Forse m’inganno, e l’argomento non è interessante se non per la pietas e il senso storico privato di pochi italiani che invecchiano in patria e fuori: ma non credo. Sono convinto invece che c’è proprio qui la chiave per capire come avviene realmente la trasmissione della cultura». Così, Luigi Meneghello in Fiori italiani.

    Antonio Giuriolo, il piccolo maestro

    Dobbiamo principalmente a Luigi Meneghello il merito di aver tenuto vivo il ricordo di Antonio Giuriolo e di aver fatto conoscere questo «prodigioso e misterioso maestro», schietto antifascista, legato al movimento liberalsocialista, e partigiano. Lo troviamo fra i protagonisti de I piccoli maestri, libro sulla Resistenza nel Veneto, scritto in chiave di epica antieroica. Più ampio spazio gli è tuttavia riservato in Fiori italiani, rivisitazione dell’apprendistato culturale giovanile sotto il fascismo: le pagine finali sono un commosso tributo a questo «educatore senza cattedra»: «Frequentando Antonio si cambiava quasi a vista d’occhio: di mese in mese ci si trovava ad avere abbandonato questo o quel punto delle dottrine o credenze correnti [...]. Antonio non separava ciò che studiava e pensava per conto proprio da ciò che insegnava a noi. Era proprio questa la forza del suo insegnamento: non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma. Parlava delle cose a cui si stava interessando senza proporsi di dimostrare qualcosa, o di convincerci. [...] Viveva dando lezioni private. Non poteva insegnare nelle scuole perché non voleva iscriversi al fascio. Era questa la cosa che per prima ci faceva sgranare gli occhi conoscendolo, il primo segno di una qualità ignota all’ambiente culturale in cui eravamo cresciuti».

    Di lui ricorda ancora Enzo Enriquez Agnoletti: «Toni era un uomo di grande cultura e di grande finezza critica, non sceglieva il proprio dovere senza una profonda riflessione.[...] Aveva un tale orrore dell’accademismo della cultura italiana, del suo dire e non fare, che aveva bisogno, per sentirsi la coscienza tranquilla, di difendersi con l’azione consapevole. Aveva in sé il senso religioso della redenzione. [...] Per noi liberalsocialisti, dal ’37 al ’43, il Veneto era un nome: Giuriolo. Toni lavorava senza soste, fiducioso, amaro e delicato come era lui. E sempre come un po’ distaccato».

    Così, infine, Mario Mirri, altro esponente del Partito d’Azione, allora giovane studente: «Il rapporto con il gruppo di Giuriolo fu accettato, anzi, ricercato, proprio perché Giuriolo ci apparve subito come una delle persone più colte della Vicenza di allora, dotato di una finissima sensibilità e di una ricca cultura letteraria, ma anche di vivi interessi storici; ma soprattutto ci apparve come l’uomo che, accanto alla grande cultura, manifestava una totale disponibilità al dialogo, sorretto da un carattere dolce e comprensivo, assolutamente generoso. [...] Egli si preoccupava di dare, essenzialmente, indicazioni di lettura; il suo intento era di offrire strumenti, capaci di dare risposte alle domande, che continuamente ponevamo. Fu insomma, per noi, qualcosa di mezzo fra un confessore laico e un libero conversatore peripatetico».

    Giuriolo ha vissuto il proprio impegno di ‘intellettuale’ con intensità del tutto particolare. Il rigore con cui ha sempre voluto scegliere le forme della partecipazione allo scontro esprime bene il suo atteggiamento di fondo, un bisogno forte di ‘testimoniare’, senza far nulla per sfuggire alla possibilità, se necessario, del sacrificio personale. In questo ‘bisogno di testimoniare’ è facilmente riconoscibile una componente religiosa, sia pure di religiosità laica: uno dei motivi primi dell’attrazione che Giuriolo aveva avvertito per le posizioni di Aldo Capitini, fin dalla lettura degli Elementi di una esperienza religiosa. Di qui la costante, particolarissima attenzione a quanto veniva elaborato nel ‘rifugio’ di Perugia. Leggiamo Capitini: «In questo secolo si fa evidente, più ancora che in altri tempi, la lotta di mentalità, di modi di concepire la vita, che vanno oltre il governo degli Stati, il regolamento economico, l’ordinaria amministrazione; ogni affermazione anche politica si presenta ispirata da un proprio punto di vista religioso, che deve investire tutto e suscitare una decisione assoluta nell’impegno della vita e della morte. [...] Si sente che ogni atto deve essere illuminato da un proposito, da una direttiva, da una responsabilità. [...] Oggi più che mai non è possibile, per la folla di sollecitazioni e di pressioni anche esteriori, rifiutarsi di prendere un atteggiamento, di impegnarsi per un’idea. […] La persuasione religiosa suscita un sentimento e un’iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente [...] il persuaso getta il proprio peso sulla bilancia: l’essenziale è che egli compia l’atto religioso con tutte le sue forze, senza angolo di riluttanza».

    Giuriolo attribuiva a queste testimonianze un senso più immediatamente politico: convinto qual era che, vivendo quotidianamente in trasparente unità di pensiero e azione, mostrando la possibilità di ricostruire in noi stessi «la pianta uomo», si contribuisse a presentare un modello di comportamento capace di diffondersi. Un modo, anche questo, per tentare di affrontare il problema iniziale, per il nostro paese, di una ‘educazione nazionale’ o dell’educazione di una nuova classe intellettuale e una nuova classe dirigente, da cui derivano poi tutte le discussioni sul rapporto tra politica e cultura.

    Da queste premesse discendono le scelte di Giuriolo: dall’impegno nella lotta antifascista e nell’organizza­zione clandestina, liberalsocialista e azionista, fino alla partecipazione nella lotta partigiana e alla morte.

    Una ‘capacità di testimoniare’ ben descritta da Luigi Meneghello in Fiori italiani: «L ’ influenza di Antonio veniva dal profondo dell’uomo, era essenzialmente un esempio. Ha scritto di lui un illustre studioso italiano che l’ha conosciuto: " Egli rappresentò l’incarnazione più perfetta che io abbia vista realizzata in un giovane della nostra generazione dell’unione di cultura e di vita moraleˮ. Non so nemmeno se la gente capisca più cosa vogliono dire queste parole. La cultura in questo senso è il principio informante del carattere. Non si può ‘insegnarla’ come una materia di studio. Ha un’autorevolezza intrinseca, in cui non c’entrano le doti appariscenti o alcuna forma di prestigio esteriore».

    Antonio Giuriolo nasce nel febbraio del 1912 in provincia di Vicenza, da una famiglia di tradizioni socialiste: il padre, noto avvocato nonché consigliere comunale ad Arzignano nelle file del partito socialista, si era prodigato per la causa operaia e, nel 1922, sarà vittima di un’aggressione squadrista messa in atto dalle locali camicie nere.

    L ’ adolescenza e la prima gioventù di Antonio non segnalano particolari avvenimenti. Soltanto dopo aver conseguito la laurea in lettere all’università di Padova, nel 1935, comincia per lui un periodo di più attenta introspezione, di educazione personale e definizione psicologica che lasciano consistenti tracce nei suoi scritti, quasi tutti di carattere privato. Scrive in una pagina del diario, datata 1936 e riportata da Antonio Trentin: «Un giovane tedesco, caduto eroicamente nella grande guerra, ripeteva sovente a se stesso: "Tu devi diventare un titanoˮ; ed esprimeva così energicamente quell’aspirazione d’ogni anima giovanile non volgare ad elevarsi sopra la comune massa incolore, a costituirsi un carattere serio e forte, capace di dominare le tempeste della vita. Questo motto, d’ora innanzi, dev’essere anche il tuo, dev’essere la tua divisa. Devi essere un eletto, un forte. [...] Non ti devi nascondere che ti trovi in una posizione storica difficile; l’ambiente che ti circonda, ti è, in genere, ostile o diffidente; ti si guarda o come un letterato o come un sorpassato o come un intruso. Di fronte a questo ambiente, tu devi riaffermare con fierezza l’elevatezza del tuo carattere e la fede della tua anima. Bisogna che in ogni contingenza tu ti comporti in modo che ognuno ti rispetti e, se è possibile, ti ammiri; e questo non per un tuo sterile compiacimento, ma perché le tue idee religiose (nel senso più comprensivo della parola) hanno pochi difensori e bisogna quindi che questi pochi siano degni di esse e le sappiano difendere e tener alte in ogni momento della vita».

    Rilette oggi, queste parole sembrano un po’ altisonanti, creano forse ‘risonanze non pertinenti’, ma a tale proposito proprio Meneghello ha osservato che quei pensieri non possono diventare oggetto diretto di comunicazione ad altri senza cambiare carattere. Ancora Meneghello in Fiori italiani sottolinea che il cuore di questa pagina è nel senso della necessità storica, nel dovere concreto di reagire in quel modo «perché le tue idee hanno pochi difensori»: «È la tipica posizione degli uomini a cui tocca il compito di testimoniare integralmente, in circostanze schiaccianti, e che si ritrovano a farlo praticamente da soli. Si sentono quasi gli ultimi rimasti, devono impegnare non solo tutte le loro forze, ma la personalità e la vita. C’è un effetto di raccoglimento profondo, in contrasto con le posizioni di protesta sulla cresta dell’onda, anche quelle genui­namente minoritarie, in cui c’è invece una tendenza alla diffusione estroversa. Quando Antonio assunse questa sua posizione nel pieno del quinquennio imperiale, non c’era onda, né il senso di una minoranza vincente. C’era solo lui, con le sue ‘idee religiose’».

    Ma quali erano queste ‘idee religiose’? Ancora Meneghello: «La libertà di Antonio era il nome della sola ispirazione religiosa che gli pareva possibile per dei laici. L ’ alimento stesso della vita intellettuale e morale. ‘Libero’ come attributo delle cose umane credo che fosse per lui indistinguibile da ‘vero’, ‘reale’: tutto ciò che si genera di fatto negli animi degli uomini liberi; tutto ciò che sono capaci di creare. Una vita individuale, una società hanno senso in quanto si fondano su questa libertà. [...] Senza di essa non c’è alcuna società (come non c’è alcuna vita privata) che valga la pena di avere. Naturalmente questa non è una posizione politica se non nel senso più lato. Questa è semplicemente una religione».

    Nella seconda metà degli anni Trenta ha inizio anche l’attività antifascista di Toni: a partire dal rifiuto della tessera fascista (che gli costerà la possibilità di insegnare e di qualsiasi sbocco professionale sicuro) fino alla costituzione del Partito d’Azione. Nel 1937 arriva il momento, per Toni, di guardare oltre Vicenza. I punti di riferimento sono Luigi Russo e Francesco Flora. Il contatto con Russo lo porta quasi contemporaneamente alla cerchia politica e culturale che fa capo ad Aldo Capitini. Giuriolo è fortemente attratto dalla tematica della nonviolenza, della non menzogna, dell’apertura all’uomo. Nella primavera del 1939 incontra direttamente Capitini a Perugia. Il colloquio dura a lungo e Capitini ne parlerà apprezzando, di Toni, la pacatezza del ragionare, l’apertura e la disponibilità al confronto, quindi all’impegno nelle questioni poste sia dalla nonviolenza sia dal liberalsocialismo. Un secondo incontro risale all’estate del 1940, a Padova.

    Allo stesso periodo risalgono alcune riflessioni di Giuriolo, riportate da Trentin: «Ai giorni nostri tante istituzioni e tanti costumi [...] sono caduti in rovina o rimangono malsicuri e vacillanti: il discernimento etico si è ottenebrato, il fascino delle ultime dee superstiti, giustizia e libertà, è svanito per cedere posto all’irrisione e al dispregio; e l’individuo che a quei principi e quegli ideali s’è educato e se li trova ad ogni passo e ad ogni ora brutalmente violati e scherniti, si agita in una dolorosa perplessità e si domanda, a volte, se non sia un’utopia letteraria, un vagheggiamento dell’immaginazione, un riscaldamento a vuoto tutto quello che pur gli sembra, unica forza, dare un valore e un significato alla storia del mondo e alla vita individuale. [...]

    Né il dolore né l’incertezza offrono un risultato o una via d’uscita: sono soltanto la tensione che accompagna lo sforzo dell’individuo nella sua aspirazione alla verità e al bene, sono lo stimolo alla sua elevazione; riguardano in ogni caso l’individuo psicologico nei suoi limiti e nella sua debolezza, non la verità e il bene nella sua forza e nella sua universalità; e per la personalità morale non è la sua sofferenza (o il suo gioire), ma la conquista della verità e del bene, che costituisce il suo supremo interesse».

    La curiosità intellettuale di Giuriolo è testimoniata anche dalla conoscenza diretta della cultura francese. Nel 1938, era stato in viaggio a Parigi, in quegli anni vertice dell’intellettualità internazionale, e la città lo aveva affascinato. Lì partecipa anche a un grande comizio sindacale. Rientra in Italia portando con sé l’opera completa di Alexis de Tocqueville, la traduzione francese (lingua che leggeva correntemente) dell ’Avertissement à l’Europe di Thomas Mann e altri volumi proibiti in Italia, che passano la frontiera nascosti in un’intercapedine del vagone ferroviario. A Vicenza riprende le occupazioni consuete: lezioni private, qualche gita in montagna, lunghe ore di studio in biblioteca. Leggiamo Antonio Trentin, suo biografo: «Nei quaderni di appunti di Giuriolo sono stati individuati tanti passi, nei quali egli insisteva sulla necessità che la vita morale si traducesse immediatamente in attività politica, in assunzione di responsabilità, in opere rivolte al bene dell’umanità; la sua concezione era, insomma, quella della ‘responsabilità sociale della cultura’ secondo il titolo di un opuscolo che si era proposto di pubblicare nel quadro di un’iniziativa ‘azionista’ vicentina nella primavera- estate del ’43».

    Leggiamo lo stesso Giuriolo citato nella biografia di Trentin: «Il mondo è tutto travagliato dalle scosse di una crisi violenta; è tempesta che non investe solo le vecchie istituzioni politiche e sociali, i rapporti internazionali e intercontinentali, ma anche i costumi, le idee, le fedi e le tradizioni. La guerra, se dall’esterno appare prima di tutto la febbre che brucia il corpo malato della nostra civiltà, è sostanzialmente, guardata nell’intimo, l’espressione esasperata di un completo dissidio morale e spirituale [...] la cultura sembra colpita al cuore da un’aridità progressiva, che le fa smarrire il senso della sua funzione sociale e della sua missione morale. La lezione è quella nota: riconsiderare il ruolo vero della cultura, uscire dalla ‘letterarietà’, che è l’insidia sottile nella quale rischia di cascare ogni uomo di cultura: poiché il suo compito è di rielaborare valori ideali, c’è sempre il pericolo che egli si accontenti della rielaborazione in se stessa, dei valori ideali in se stessi, fuori dall’esigenza che li sollecita a riversarsi nella vita; è necessario invece affrontare il mondo con strumenti validi di comprensione e intervento, accettare convintamente la politica come espressione più alta del rapporto fra cultura e realtà civile e far vivere questa politica di una moralità netta e ben indirizzata. Partecipare alla vita: questo è il punto. Solo così si obbliga il mondo a cambiarsi. [...] Quando la politica si fa disumana e va verso la perdizione, sono sempre gli uomini di fede che

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