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Perchè Domenica: Quarant’anni in cerca di domande
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Perchè Domenica: Quarant’anni in cerca di domande
E-book275 pagine3 ore

Perchè Domenica: Quarant’anni in cerca di domande

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Info su questo ebook

A cura di Stefano Salis

Un libro per celebrare un anniversario importante per l’inserto di approfondimento culturale, in edicola ogni domenica con Il Sole 24 Ore, che in quarant’anni ha raccontato e spiegato i cambiamenti del paese e del mondo, con rigore e spirito critico. Curato da Stefano Salis, oggi responsabile della Domenica cui partecipa da quasi vent’anni, il libro raccoglie gli articoli che hanno fatto epoca, firmati dai collaboratori storici, dai responsabili che si sono succeduti e dalla redazione di oggi. Il racconto di come si sono trasformate la cultura e l’economia della cultura nel corso di quattro decenni.
LinguaItaliano
Data di uscita28 dic 2023
ISBN9791254842706
Perchè Domenica: Quarant’anni in cerca di domande

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    Anteprima del libro

    Perchè Domenica - AA.VV.

    I collaboratori

    Sotto il tallone della Gestapo

    di Piero Boitani

    12 novembre 2000

    La filologia romanza tedesca del XX secolo ha cambiato il nostro modo di leggere i testi, l’immaginario, la storia. Vossler ha iniziato la critica stilistica, Spitzer l’ha lanciata, Auerbach ci ha dato una visione affascinante del realismo occidentale in Mimesis, Curtius una fenomenologia della letteratura classica e medievale e le prime sorprendenti letture di Proust, Joyce, Eliot. Victor Klemperer, allievo di Vossler, non è una stella di pari grandezza: si è occupato sostanzialmente di letteratura francese, senza il respiro europeo dei suoi contemporanei, e i suoi lavori tradizionali su Corneille e l’amato Illuminismo sono ottimi, ma non eccezionali. Tuttavia, Klemperer è grandissimo, e rivoluzionario, filologo quando descrive con penetrazione senza precedenti le sfumature e le metamorfosi delle parole del nazismo in LTI. La Lingua del Terzo Reich (1947; Giuntina, 1988), e per esempio il senso di espressioni come fanatismo, Weltanschauung, organizzazione; oppure la natura religiosa, evangelica, del linguaggio di Hitler e di tutti i suoi credenti fino al 1945.

    Klemperer (1881-1960) era figlio di un rabbino liberale, cresciuto nell’ombra dei fratelli maggiori – in particolare Georg, medico famoso, anche di Lenin – con inclinazioni al giornalismo e all’arte: decise di farsi studioso e ottenne infine una cattedra all’Università Tecnica di Dresda. Divenuto protestante, fu egualmente pensionato, in quanto ebreo, dopo la presa nazista del potere. Sopravvisse alle persecuzioni del regime perché volontario nella Prima guerra mondiale e soprattutto perché sposato a un’ariana. Si salvò dalla deportazione in campo di concentramento solo perché, la sera del giorno – 13 febbraio 1945 – in cui ricevette l’ordine di presentarsi, Dresda fu rasa al suolo dai bombardieri alleati. Lui e la moglie Eva peregrinarono poi per la Germania ormai in rovine fino al giugno di quell’anno, ritornando infine all’adorata casa di Dolzschen. Rimasto nella Germania Orientale, fu reintegrato all’Università di Dresda, poi cattedratico a Greifswald, Halle e Berlino, e si risposò dopo la morte di Eva.

    Klemperer ha quindi attraversato la Germania guglielmina, la Repubblica di Weimar, il nazismo e il dopoguerra. Quel che è più importante è che ha tenuto un diario dal 1918 al 1959, e descritto le sue esperienze nel periodo dal 1881 al 1918 in Curriculum Vitae (1996), steso in segreto durante la Seconda guerra mondiale. È perciò una voce dall’interno di ben ottant’anni di realtà tedesca. A prima vista poco simpatico, ipocondriaco, complessato, narcisista, attaccato alle rivalità e ai risentimenti accademici (tra cui quelli verso Vossler e Auerbach), Klemperer è un osservatore minuzioso dei particolari quotidiani, della piccola gente, del modo di parlare e di pensare dei suoi tempi.

    Testimoniare fino all’ultimo. Diari 1933-1945 (ora finalmente in italiano a cinque anni dalla sua comparsa in Germania e dopo la pubblicazione in Francia e nei Paesi anglosassoni) è un capolavoro assoluto di scrittura documentaria (e letteraria) del secolo ormai trascorso. Si è salvato dalle mani della Gestapo perché Eva ne portava i brani regolarmente a casa di un’amica fuori Dresda. Klemperer vi registra tutto: sensazioni, malattie immaginarie e vere, illusioni, indecisioni – prima fra tutte quella, ostinata, ad abbandonare la Germania, che alla fine lo intrappola –, gli eventi della grande storia e i gesti minimi di odio e solidarietà. Si denuda completamente dinanzi a noi mentre viene gradualmente spogliato di ogni cosa, a cominciare dalla sua profonda identità di tedesco.

    Privato del lavoro, Klemperer si compra un’automobile e gira nei dintorni, va al cinema e al ristorante. Presto costretto a portare la stella gialla, viene bandito dai parchi, dalle strade, dai mezzi pubblici, cacciato di casa e trasferito con la moglie in una serie di Case per ebrei, privato della sua biblioteca, della macchina da scrivere, del telefono, obbligato ai lavori forzati per strada e in fabbrica, costretto al logorante e sempre più difficile reperimento del cibo e delle medicine, ridotto alla quasi unica conversazione umana con i suoi correligionari, al tramonto, presso il cimitero ebraico.

    Eppure, si mantiene informato su tutto, ascolta la radio e i bollettini militari; legge, spesso ad alta voce per la moglie, e sempre a rischio della vita, gli scritti di Hitler, Goebbels e Rosenberg, i classici e i gialli; annota la LTI (Lingua Tertii Imperii); stende i ricordi del Curriculum; elenca i campi di sterminio. Su una stessa pagina, per esempio, tra il 26 luglio e il 2 agosto 1943, riporta la ricerca affannosa di una, il marcire delle ultime patate, la notte, disturbi di cuore, il primo allarme aereo, le notizie sulla deposizione di Mussolini, particolari sul suo mettere il in busta per una ditta, una visita al cimitero ebraico, e un’improvvisa convocazione della Gestapo, che potrebbe significare la fine e il cui interrogatorio si svolge poi in cinque minuti, nel modo seguente (altri incontri terminano in maniera ben diversa, con insulti, sputi, percosse, prigionia): «Hai dei mobili da Thamm?»; «Che cosa?»; «La dote di mia moglie, ariana, un organo di mia moglie, la mia biblioteca scientifica»; «Non puoi mettere quella roba da un’altra parte? Dovremmo se possibile liberare i locali di deposito»; «Se lei me lo chiede naturalmente ci proverò; ma dove li metto? Ci sarebbe posto a Lothringer Weg ma non so per quanto tempo ci rimarrò»; «Mah sì, a posto. Conosci una certa signora Huberti a Pirna?…»; «No, non ho mai fatto parte della Comunità ebraica, non conosco nessuno»; «A posto»; «Posso andare?»; «Sì».

    I Diari sono un gorgo inesorabile di Male premeditato e di Caso, un intreccio che non si riesce ad abbandonare e che soffoca il respiro man mano che il nodo scorsoio si stringe attorno alla gola degli ebrei, e la guerra si avvicina, con le bombe alleate e le truppe russe verso il cuore della Germania, mentre infuriano i proclami di una «svolta» e di «vittoria finale» (LTI).

    La resistenza ostinata del filologo Klemperer al nazismo è per l’appunto quella di «testimoniare fino all’ultimo». Chi ha letto i due più recenti (1999) volumi dei suoi diari, Così non ho saputo prender partito. 1945-1959, sa, nonostante la sua iscrizione al partito comunista della Repubblica democratica tedesca, e i privilegi e gli onori ricevuti da esso, che egli ha continuato a portare testimonianza sino alla fine, osservando la Lingua Quarti Imperii, le illusioni e gli errori suoi e della nuova dittatura: «Porterò Antigone ai lavoratori», scrive da una parte con empito di adesione ideale; e dall’altra: «Compagno Klemperer. Ma compagno di chi?».

    Mettere in moto la memoria

    di Lina Bolzoni

    25 settembre 2011

    «Devi assolutamente incontrare Joshua Foer» mi dice la mia amica Mary Carruthers. «È un ragazzo davvero in gamba, viene da Yale ed è molto interessato all’arte della memoria. Ha pubblicato un bell’articolo sul ‘National Geographic’. Era l’inizio di novembre del 2007. Per me erano gli ultimi giorni di soggiorno a New York, e le cose da fare prima della partenza si accumulavano in modo minaccioso.

    Ma Joshua Foer mi aveva mandato una mail molto gentile, chiedendomi di incontrarlo, e non potevo restare insensibile alla presentazione che me ne aveva fatto Mary, che certo di arte della memoria se ne intendeva: aveva scritto sull’argomento due libri molto innovativi, The Book of Memory. A Study of Memory in Medieval Culture, e The Craft of Memory. Meditation, Rhetoric, and the Making of Images, 400-1200, entrambi pubblicati da Cambridge University Press. Il secondo è stato tradotto anche in italiano, per le Edizioni della Normale, col titolo di Machina memorialis, che era poi il titolo pensato all’origine, e cambiato dall’editore inglese.

    È stato così che, tra una valigia e l’altra, un saluto agli amici e qualche inesorabile dimenticanza, mi sono ritagliata il tempo per incontrare Joshua Foer e per stare a pranzo con lui. L’appuntamento era a Washington Square, all’ingresso della Bobst Library, un grande edificio squadrato che ospita la biblioteca di New York University. È una costruzione recente, non bella, un po’ discosta, per fortuna, dalle case di mattone in cui Henry James ha ambientato Washington Square. Ma come avremmo fatto a riconoscerci?

    Ci ha pensato Joshua, che teneva in mano il numero del ‘National geographic’ dedicato alla memoria e anche una gentile sorpresa: la traduzione spagnola della mia edizione dell’Idea del teatro di Giulio Camillo, di cui ignoravo l’esistenza e di cui mi ha fatto dono. E proprio di Camillo lui voleva parlare con me, del suo progetto di costruzione di un universale teatro della memoria, che incarnava i sogni di una intera epoca (i lettori del Domenicale ricorderanno forse l’articolo che gli ho dedicato tempo fa, L’alchimista delle parole, 4 luglio 2010).

    Siamo andati a pranzo in uno dei ristorantini che abbondano nella piazza, e nelle strade del Greenwich Village, e via via che il tempo passava, e la conversazione fra noi si animava, ero sempre più contenta di aver trovato il tempo per quell’incontro. Avevo di fronte un giovane molto preparato, curioso, determinato e gentile, con un percorso di studi davvero intrigante: aveva studiato scienze a Yale, biologia se ricordo bene, e da subito si era dedicato al giornalismo scientifico.

    In particolare, mi disse, stava scrivendo un libro sulla memoria, per il quale aveva trovato un grosso editore, Penguin, che aveva dato fiducia al suo progetto. Si stava interessando a come le neuroscienze studiano i casi di amnesia e di memoria eccessiva. Secondo i dettami del giornalismo più efficace e seguendo la tradizione di Alexander Luria e di Oliver Sacks, non si fermava però al caso, ma si interessava agli individui, alle loro storie, alla loro vita quotidiana, e andava a trovarli di persona, da San Diego a Salt Lake City.

    Nello stesso tempo era molto interessato agli studi sull’arte della memoria nel Medioevo e nel Rinascimento. Conosceva i testi classici di Paolo Rossi e Frances Yates, e le ricerche che Mary Carruthers e io stavamo facendo. Era davvero lusinghiero vedere un giovane scienziato così addentro a un settore di ricerca umanistica; nello stesso tempo avvertivo qualcosa di profondamente diverso che mi colpiva e che in un certo senso era una sfida per me.

    Joshua si interessava alla tradizione antica, medievale e rinascimentale dell’arte della memoria perché lui quell’arte la praticava. Quel che per me era un insieme di pratiche, affascinanti ma lontane, che mi aiutavano a orientarmi nel Rinascimento, a capire qualcosa dell’intreccio fra parole e immagini, e del rapporto tra filosofi, scrittori, artisti, per Josh era qualcosa che stava sperimentando di persona. Aveva cominciato, mi ha raccontato, a frequentare da giornalista i campionati di memoria e ne era rimasto affascinato, fino a sottoporsi a un lungo allenamento e a parteciparvi di persona: nel 2006 aveva vinto il campionato americano, bruciando gli avversari per la rapidità con cui aveva memorizzato mazzi di carte, poesie, liste di nomi e di numeri.

    Ho ritrovato tutto questo nel suo libro (L’arte di ricordare tutto, Longanesi), che è uscito quest’anno e ha avuto un incredibile successo: è stato in classifica dei bestseller del ‘New York Times’ e Amazon l’ha scelto fra i dieci migliori libri. Mi piace pensare che il segreto del suo successo stia anche in questo singolare impasto di cultura umanistica e scientifica, di antico e moderno. Ma è indubbio che il libro affascina soprattutto per la qualità della scrittura.

    Con un forte senso dello humour e umana simpatia l’autore ci presenta una galleria indimenticabile di personaggi, come Tony Buzan, che ha inventato nel 1991 il campionato di memoria, gira fra Cina, Messico, Australia, Stati Uniti, e in Inghilterra non rinuncia alla sua personale vettura, un taxi anni 30 color avorio. E soprattutto Ed Cooke, il personal coach dell’autore, che gli insegna a costruire il suo primo palazzo della memoria a Central Park, in un pomeriggio in cui spira un vento gelido, perché «il freddo fa bene al cervello», il giovane maestro che attribuisce alla mnemotecnica anche una funzione terapeutica: «quanto più riempiamo le nostre vite di memorie, tanto più lentamente il tempo sembra scorrere». E i vari partecipanti ai concorsi di memoria, come una ragazza austriaca di quindici anni, Corinna, che per ricordare una poesia appena sentita ne associa le diverse parti non alle immagini, ma alle emozioni che le suscitano.

    Il fascino del libro sta proprio in questo suo andirivieni fra tecniche e idee antiche (si citano Petrarca e san Tommaso, Pietro da Ravenna, Giulio Camillo, Giordano Bruno) ed esperienze di oggi, vissute al ritmo di un giovane che si sposta senza problemi tra America ed Europa e, mentre pratica la costruzione mentale di luoghi e immagini, usa internet ed è familiare con tutte le risorse della moderna tecnologia. Si affaccia da giornalista, si diceva, a un mondo di cui si innamora.

    L’ultimo capitolo ci racconta il momento del trionfo, quando vince il campionato americano di memoria, e insieme il momento del distacco: potrebbe presentarsi ai mondiali, ma sceglie di dedicare il suo tempo ad altro, ad esempio a scrivere questo libro.

    Il mondo salvato dalle lettere

    di Vittore Branca

    6 maggio 2001

    Un’emarginazione della poesia e della letteratura e delle loro forme più tradizionali, della memoria umana e civile riflessa e fissata nei testi, sembra si voglia sempre più affermare e imporre anche nella scuola a tutti i livelli, dagli elementari a quelli universitari. Negli stessi Indirizzi per l’attuazione del curriculo nella scuola di base del ministero della Pubblica istruzione si privilegiano concetti astratti (come «società di agricoltori», «società industriale») sui testi letterari e sulle narrazioni di vite e le presentazioni di opere e di uomini; o culture lontane senza vera letteratura (i Bantù, l’Africa subsahariana, l’Oceania) sulle tradizioni bibliche, greco-latine, classico-cristiane, che sono alle radici della nostra vita stessa e del suo linguaggio anche oggi. È rovesciato o abbandonato il sano principio della pedagogia più autorevole e della psicologia più moderna e accreditata: partire dal vicino per giungere al lontano, dal concreto per salire all’astratto.

    La ribellione della maggioranza degli insegnanti e delle famiglie stesse, la bocciatura del Consiglio superiore alla riforma proposta dal ministero danno però oggi ferma speranza che quella riforma – che tende anche a cancellare, o quasi, Virgilio e Dante dalla nostra scuola – non si farà.

    Sembra che oggi si dimentichi una realtà impostasi lungo i millenni: che cioè una civiltà non parla e non giova all’umanità, vincendo tutte le distanze spaziali e temporali, se non principalmente attraverso i testi letterari, poetici e narrativi. Anche grandi imperi e potenti popoli non sono attivamente presenti nell’evoluzione dell’umanità quando non possono parlare attraverso felici testi letterari. Cosa rappresentano nella società e nella coscienza dei nostri secoli i potentati di Gengis Khan o di Tamerlano? O anche certe civiltà, espresse pure alle volte da monumenti insigni ma senza una grande letteratura, come la babilonese o la incaica?

    E invece basta un libro, un solo libro, a imporre lungo i millenni e fino a oggi una civiltà come l’ebraica, priva o scarsa di altre espressioni e scarsissima di forza imperiale. E un popolo, come il greco, piccolissimo al confronto – ad esempio – del contemporaneo persiano, ha potuto coi suoi testi dare una base insostituibile al nostro vivere, che invece dei persiani di Dario e Serse non ha avuto e non ha quasi nulla. Questo avviene perché la letteratura, nelle sue forme più diverse, è l’unica espressione che trasmetta e faccia comprendere i motivi stessi di una civiltà e persino di una religione, e soprattutto le eterne ragioni dell’uomo e della sua dignità.

    «Credente nell’assoluta superiorità della parola su tutti gli altri mezzi di espressione io son certo che la prima luce verrà sempre da un libro. Ex libro lux», proclamava D’annunzio a Ojetti. È una luce che si può diffondere facilmente, e come nessun’altra, lungo i più larghi spazi di tempi e di luoghi, e che fa presenti e operanti negli uomini di tutte le età le più forti e alte prove dell’uomo. Anche Umberto Eco, pochi giorni fa, ha scritto che un uomo con un libro conta per due uomini. Anche le esperienze individuali e sociali di questi ultimi secoli parlano, efficaci e operanti in noi, per le interpretazioni letterarie di Stendhal e Tolstoj, di Zola e Mann, giù giù fino a quelle di Pasternak, di Primo Levi, di Solženicyn; o sublimate nelle espressioni poetiche di Pound e di Eliot, di Montale e Ungaretti, di Celan e Bonnefoy.

    Sono le espressioni che nelle situazioni più oscure della nostra storia novecentesca hanno resistito e fatto resistere alle tirannie e alle violenze più inumane e hanno salvato la dignità dell’uomo e delle sue libertà. Non a caso Osip Mandel’štam resisteva al soffocamento dei lager staliniani ripetendosi Dante; come Primo Levi con quegli stessi testi dava forza a sé stesso e ai compagni nei campi hitleriani di eliminazione. Non a caso contro il bestiale uragano razzista inalberammo per un’illustre casa editrice ebraica, quella di L. S. Olschki, per conservarne la sigla originaria, il motto umanistico «Litteris Servabitur Orbis» (il mondo sarà salvato dalle lettere).

    Quella funzione vitale e sollecitante della letteratura si manifesta del resto nella sua forza inesausta e possentemente metabolica attraverso le espressioni più diverse ed eterogenee. Possono certo oscurarsi o tramontare certe forme letterarie, come ad esempio già in passato la poesia bucolica o il poema epico; possono certo in qualche periodo avere il sopravvento, come attorno al Mille, le opere filosofiche, teologiche, religiose. Ma il testo letterario nelle sue forme più diverse resta sempre al centro dello sviluppo civile.

    La letteratura, questa gran signora insidiata alle volte nel suo trono secolare, tende a occupare poltrone sempre più numerose e importanti nel salotto della nostra vita corrente: quelle anzitutto della pubblicità, l’espressione continuamente presente e determinante nella società d’oggi. Versi o frasi o motti di poeti antichi e moderni diventano slogan di bevande e liquori e detersivi; la rima, variamente emarginata nella lirica da un secolo, si è imposta come elemento quasi obbligatorio nelle réclames.

    E mai come oggi gli spettacoli più correnti hanno attinto a capolavori letterari. Si direbbe che mentre certa più inamidata letteratura sta perdendo colpi, la vera e umanissima letteratura ne guadagna invece molti e li moltiplica metabolicamente in proporzioni geometriche. Conquista così, in certo modo, un pubblico che non aveva contatto con quei testi classici.

    La forza della letteratura, della grande letteratura, si rivela proprio in questa straordinaria capacità di metamorfosi: di bruciare e di risorgere più forte dalle ceneri quasi mitica fenice, di inabissarsi anche in percorsi sotterranei per riaffiorare e imporsi più forte e trionfante. Non mancano esempi simili anche nel lontano passato, anche prima di quelli ottocenteschi dei grandi temi letterari rilanciati dall’opera lirica.

    Ci saranno anche nella nostra età fenomeni simili? Si può sperarlo, credo, per l’esperienza felice di straordinarie invenzioni, anche ieri e oggi, su fenomeni paraletterari e paralinguistici (Pasolini, Peter Brook, Rossellini, Depardieu, John Madden).

    Nell’immensa brughiera brandeburghese

    di Giulio Busi

    29 novembre 2020

    «Bunker» è a Berlino una parola fatale. È il fato oscuro della guerra e delle distruzioni. Ed è il fato luminoso dell’arte, del divertimento, della creatività. Prendetele entrambe, queste energie contrastanti, mettetele dentro massicce pareti di cemento armato, possibilmente sottoterra, e avrete trovato un modo per parlare a questa città.

    Non è un caso che, per visitare due importanti collezioni d’arte berlinesi, sia necessario abbandonarsi all’abbraccio claustrofobico dei bunker della Seconda guerra mondiale. Nella centrale Reinhardtstraße s’innalza il massiccio edificio della Collezione Boros, con le sue pareti spesse due metri, innalzate nel 1943 per proteggere dai bombardamenti sino a tremila treni passeggeri. Lungo la Sprea s’incontra invece la Collezione Fuerle, scrigno ipogeo di un sontuoso patrimonio di arredi e sculture cinesi antiche, intrecciate a statue khmer e a opere contemporanee.

    Gl’involucri di cemento e ferro non avvinghiano solo l’arte. Uno dei luoghi più iconici della città, il Techno-Club Berghain, occupa una gigantesca centrale di teleriscaldamento, eretta negli anni Cinquanta del secolo scorso. Una vera fortezza in gotico staliniano, le cui pareti ciclopiche funzionano da prodigiosa cassa di risonanza per una discoteca celebrata e imitata in tutto il mondo, vibrante di (moderate) trasgressioni e di elettro esotismo.

    E poiché l’unione fa la forza, a settembre la Collezione

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