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Francesco Guicciardini tra scienza etica e politica
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E-book384 pagine5 ore

Francesco Guicciardini tra scienza etica e politica

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La storia della filosofia politica del Cinquecento esprime con Francesco Guicciardini, una delle sue figure più rappresentative e una delle voci più autorevoli nel panorama del pensiero europeo, che hanno inciso sensibilmente sul dibattito etico-politico del vecchio continente. Uomo di governo e di molte altre faccende politiche e militari, luogotenente di papa Leone X e di papa Clemente VII, Guicciardini, sconosciuto come scrittore in vita e per oltre venti anni dopo la morte in Italia e nella sua stessa città, non avendo mai pubblicato né fatto conoscere agli amici più stretti neppure una sola pagina dei suoi scritti, trovò tardi posto tra i più grandi scrittori italiani di fama europea. Lo scopo precipuo di questa breve monografia su Francesco Guicciardini, di cui quest’anno ricorre il 530 anniversario della nascita, è quello di scandagliare il pensiero politico di uno storico obiettivo e scrupoloso, solerte alle mutazioni relative alle variegate situazioni politiche e culturali sviluppatesi tra XV e XVI secolo in Europa. Pensatore che muove da una visione introspettiva legata all’uomo e alla storia, sulla base di un ordine criteriato, caratterizzato dalla concretezza delle sue idee e da un’ampiezza di vedute che ritornano, oggi più che mai, di grande attualità. Guicciardini, che per alcuni aspetti può sembrare un personaggio estraneo alla sua epoca, guarda al presente, con i suoi problemi e le incomprensioni del momento, ma contemporaneamente volge lo sguardo verso il futuro, nella speranza di intravedere lo spiraglio giusto che gli consenta di trovare soluzioni adeguate ai problemi che costantemente assillano la vita di coloro che si assumono responsabilità politiche nell’ambito del quadro evolutivo di una società complessa, come quella espressa dalla Firenze del tempo che ben si compara alla odierna situazione politica italiana.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2013
ISBN9788868221218
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    Anteprima del libro

    Francesco Guicciardini tra scienza etica e politica - Martino Michele Battaglia

    nomi

    Prefazione

    Le pagine che seguono hanno innanzitutto un merito: aver riproposto all’attenzione degli studiosi uno degli autori classici più dimenticati, ma forse più attuali, della riflessione storico-politica della tradizione italiana. L’intento della ricerca è quello di riproporre, attraverso una meticolosa e precisa lettura, gli insegnamenti di Guicciardini cogliendone, oltre la novità, il punto di raccordo tra la speculazione precedente e quella futura. Ne viene fuori una lettura stimolante i cui punti di novità sono davvero tanti per poter essere sottolineati in una breve Prefazione. Converrà così estrarre per ciascuna delle parti del libro almeno una suggestione, lasciando poi a ciascuno di considerare e, sarebbe auspicabile, approfondirne altre.

    Già l’introduzione pone in evidenza il tema di fondo che anima tutta la riflessione guicciardiniana. Le vicende politiche sono così ricche e dense di significati che non possono essere approcciate in modo semplicistico. Il Guicciardini pertanto è proteso a scrutare e ad analizzare l’aspetto politico degli avvenimenti, gli istinti, le ambizioni, le debolezze, le malvagità degli uomini, i moventi segreti delle loro azioni, le invidie, gli odi, che sono alla base di guerre continue e azioni pacificatorie (p. 19). Insomma, la politica non può sfuggire a un’analisi seria e complessa. Solo così l’attore politico capisce che non deve lasciarsi governare dagli eventi, ma farsi guidare dall’esperienza e dalla riflessione (p. 19). Le vicende umane sono soggette a una serie di variabili che, a volte, non essendo possibile governarle tutte, ci debbono spingere alla prudenza, non solo nell’agire, ma soprattutto nel parlare e nel promettere.

    La politica non è scienza se si basa sulle chiacchiere. È scienza del fattuale, del concreto, del particolare. L’esperienza e lo studio giuocano in essa un ruolo fondamentale. Il capitolo primo, Il valore e l’esperienza dell’azione in Guicciardini, analizza, e il quinto paragrafo in modo particolare, assai bene il rapporto tra particulare e pragmatismo con riferimenti anche alla cultura anglosassone che seguirà e che, nei suoi aspetti migliori, si richiama, in fondo, a quella cultura classica sulla quale si era formato Guicciardini.

    Nel secondo capitolo, La politica e la concezione dello Stato in Guicciardini, l’autore dà dimostrazione di quanto appena detto. Affrontando il problema di quella che, oggi, definiremmo la necessità della stabilità politica, ci ricorda che, quando Guicciardini parla di ordine, ritiene che questo, "prima di essere considerato fattore esteriore, è senza dubbio fattore interiore come dirà in seguito anche Kant (p. 106), senza peraltro dire niente di nuovo dato che, questa idea incarna la convinzione tipica del mondo occidentale" (p. 108). Non aveva detto, infatti, già Agostino che l’ordine, non solo si costruisce nell’interiorità, ma, se sparisce da questa, prima o poi si disarticola anche esteriormente?

    Queste considerazioni preparano il tema affrontato nel terzo capitolo: Intorno ai presupposti della visione di vita guicciardiana. È proprio questo convinto e consapevole richiamo a tutta la tradizione classica dell’Occidente che consente all’autore di prendere posizione sostenendo una tesi sulla quale da tempo si dibatte: non è certamente corretto parlare di antiumanesimo in Guicciardini, di un ripudio netto dell’antico, bensì di un rifiuto della esemplarità esclusiva degli antichi (p. 163). Questa considerazione, senza alcun dubbio, appare come uno dei pregi di questo originale lavoro.

    Passando, il tempo e lo spazio sono quelli che sono, al quarto capitolo – Intorno alle Costituzioni, mutazioni e riforme o della visione politica e democratica del Guicciardini – ci troviamo di fronte a un pensatore che dialoga col presente e col passato nella loro multiforme ricchezza e complessità. Interessanti le considerazioni su Lutero che ci mostrano, contrariamente a quanto dice tanta propaganda, come le considerazioni sul riformatore, mosso e sostenuto dall’ambizione politica di vari principi, siano alquanto variegate. Ma è riflettendo attorno alla Costituzioni che mi sono tornate alla mente alcune suggestioni che ho avuto tempo fa nel leggere il grande storico della nostra cosiddetta Rinascenza.

    Come avvertirono acutamente gli storici politici italiani del Rinascimento, e tra questi sicuramente Guicciardini, il richiamo alle vicende della classica Res Publica romana evidenzia un tema che nel Cinquecento era ben presente e che noi oggi, smaniosi di una perduta stabilità, dovremmo tornare a considerare. Fu proprio la vivacità di contrasti, ovviamente contenuti all’interno di limiti e regole ben precise, che determinò allora il progresso della repubblica. Il partito democratico, populares, tendeva, infatti, di per sé, a indicare cambiamenti repentini in quanto il popolo, mai contento dei risultati conseguiti, ha una smania di cambiamento quasi rivoluzionario, precisato da reali bisogni, che genera, però, una continua instabilità. Al contrario il partito aristocratico dei patres, pago della propria posizione e del benessere conseguito, tende a cristallizzare la società addormentandola in un ottuso sistema reazionario. Il concorso delle due parti e l’alternarsi al governo – i consoli non potevano essere mai rieletti – garantirono il miracolo repubblicano che si può definire di cambiamento nella continuità.

    Guicciardini considera questo modello assai utile per la Firenze del suo tempo, anche se la città, in linea con i tempi, si avviava verso un Principato che la avrebbe condotta verso una lenta e inesorabile decadenza. Sarà forse il caso di ricordare come, nei due primi secoli del mondo moderno, tra assolutisti e utopisti, Guicciardini sia l’unico che, con mente lucida, crede ancora possibile l’ideale repubblicano e non vuole rassegnarsi al suo tramonto.

    Per finire, anche nelle Conclusioni il nostro autore ci dà prova della sua sottile e attenta lettura. Non si limita infatti a dire che il nostro pensatore si può "senza ombra di dubbio definire come padre della storiografia contemporanea, ma si spinge oltre. La storiografia guicciardiniana, pur anticipando molti dei contemporanei, non si schiaccia, come ad esempio lo storicismo tedesco, su uno sterile determinismo. Anzi, è destinata a influire a lungo sul postmodernismo che tende a riscoprire i temi e i modelli" (p. 259) della volontà e dell’impegno civile che furono di quei grandi spiriti che hanno fatto grande la nostra cultura.

    Per tale motivo uno studio di questo genere appare lodevole e meritevole dalla massima attenzione, anche se apparentemente, ma solo per i più superficiali, tratta temi che potrebbero sembrare ormai fuori moda.

    Rocco Pezzimenti

    Roma, 5 ottobre ’13

    «L’uomo è la misura di tutte le cose di quelle

    che sono in quanto sono e di quelle

    che non sono in quanto non sono».

    [Protagora, fr. 1, in Platone, Teeteto, 152 a]

    «Incominciai a scrivere biografie su suggerimento di altri,

    ma ora continuo, avendovi trovato piacere per me stesso:

    la storia dei grandi uomini è come una specchio

    che guardo per plasmare e regolare la mia vita

    alla luce delle virtù che nel medesimo si rispecchiano».

    [Plutarco, Vita di Paolo Emilio, I, 1]

    Introduzione

    La storia della filosofia politica del Cinquecento esprime con Francesco Guicciardini, una delle sue figure più rappresentative e una delle voci più autorevoli nel panorama del pensiero europeo, che hanno inciso sensibilmente sul dibattito etico-politico del vecchio continente. Uomo di governo e di molte altre faccende politiche e militari, luogotenente di papa Leone X e di papa Clemente VII, Guicciardini, sconosciuto come scrittore in vita e per oltre venti anni dopo la morte in Italia e nella sua stessa città, non avendo mai pubblicato né fatto conoscere agli amici più stretti neppure una sola pagina dei suoi scritti, trovò tardi posto tra i più grandi scrittori italiani di fama europea. Solo nel 1561, infatti, i nipoti col sospetto di essere preceduti da altri decisero di dare alle stampe la Storia d’Italia, che ebbe un grande successo in tutta Europa fin dal suo primo apparire[1]. Di tutti gli altri suoi scritti fino a quasi i nostri giorni non si conobbe neppure l’esistenza. Probabilmente, come rileva Roberto Ridolfi, in nessun altro scrittore tanta parte delle opere è rimasta così lungamente ignorata quasi completamente. Solo tra il 1857 e il 1867 i discendenti del Guicciardini decisero di pubblicare le Opere inedite a cura di Giuseppe Canestrini[2].

    Lo scopo precipuo di questo breve lavoro su Francesco Guicciardini, di cui quest’anno ricorre il 530 anniversario della nascita, è quello di scandagliare il pensiero politico di uno storico obiettivo e scrupoloso, solerte alle mutazioni relative alle variegate situazioni politiche e culturali sviluppatesi tra XV e XVI secolo in Europa. Pensatore che muove da una visione introspettiva legata all’uomo e alla storia, sulla base di un ordine criteriato, caratterizzato dalla concretezza delle sue idee e da un’ampiezza di vedute che ritornano, oggi più che mai, di grande attualità. Guicciardini, ammirato per il suo antiassolutismo, traccia, se vogliamo, un percorso innovativo che si sviluppa a partire dal Rinascimento sul solco di quegli umanisti fiorentini animati da ideali repubblicani come Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1370-1444). Entrambi, nelle loro opere, recuperano le tesi di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357) che, con il De tyrannide, espone i rimedi da usare contro il potere tirannico[3]. Guicciardini, che per alcuni aspetti può sembrare un personaggio estraneo alla sua epoca, guarda al presente, con i suoi problemi e le incomprensioni del momento, ma contemporaneamente volge lo sguardo verso il futuro, nella speranza di intravedere lo spiraglio giusto che gli consenta di trovare soluzioni adeguate ai problemi che costantemente assillano la vita di coloro che si assumono responsabilità politiche nell’ambito del quadro evolutivo di una società complessa, come quella espressa dalla Firenze del tempo che ben si compara alla odierna situazione politica italiana. Il giudizio espresso dal letterato e giurista calabrese, Gian Vincenzo Gravina (1664-1718), si rivela alquanto autorevole in relazione al pensiero politico e allo spessore culturale del Guicciardini:

    «Speditici da’ più degni istorici greci e latini, passeremo ai volgari; il principe dei quali è il Guicciardino, che può stimarsi superiore a Tacito, non solo per la fecondità e gentilezza di stile a’ primi Greci e Latini somigliante, ma forse ancora per la cognizione del governo civile, la quale si spande più largamente ed in misura corrispondente al regolamento di un’ampia repubblica»[4].

    Di lui scrive Leopardi:

    «Guicciardini è forse il solo storico fra i moderni, che abbia e conosciuti molto gli uomini, e filosofato circa gli avvenimenti attenendosi alla cognizione della natura umana, e non piuttosto a una certa scienza politica, separata dalla scienza dell’uomo, e per lo più chimerica, della quale si sono serviti quegli storici, massime oltramontani ed oltremarini, che hanno voluto pur discorrere intorno ai fatti, non contentandosi, come la maggior parte, di narrarli per ordine, senza pensare più avanti»[5].

    Leopardi, pone in risalto il metodo di indagine guicciardiniano volto particolarmente alla conoscenza della natura umana. Rispetto a Hegel che considera la storia sulla base di un determinismo assoluto e di Marx che considera l’economia come struttura portante della storia, Guicciardini pone al centro l’uomo e la sua entità psicologica ed etico-politica, sempre e comunque condizionato dall’imprevedibilità del «caso» e dal gioco della «fortuna»[6]. Di qui, non è un’eresia e neppure un paradosso affermare che Guicciardini opera alla stregua di Protagora, che riteneva l’uomo «misura di tutte le cose». Sulla scia anche di Plutarco, questa prospettiva, viene rivalutata dalla concezione guicciardiniana della storia, per il modo in cui offre una prospettiva che tende a superare, riteniamo, la visione statica, pietrificata e chiusa in se stessa della storia che offre il Machiavelli, legato al pregiudizio storicista e al mito olistico. Visione che ancora oggi, rappresenta il «credo» e lo specchio di coloro che pensano di aver scoperto definitivamente le leggi dello sviluppo storico.

    Attraverso questa nuova lettura degli accadimenti che si pone in un ambito non più storicistico e nemmeno storiografico, ma decisamente su una prospettiva «storiologica»[7], Guicciardini mira ad approdare verso quei lidi euristici che hanno nel sentire e nel toccare concretamente con mano la complessità delle varie situazioni politiche di ogni nazione europea (oltre che di ogni regione italiana) le «gemme della fondamentalità dell’atto creativo»[8] che, senza ignorare la propria tradizione, propone di scegliere il sistema che meglio si addice al proprio ethos per una buona gestione del governo dello Stato. Il fatto stesso che Guicciardini abbia lasciato scritti di carattere frammentario, se vogliamo, come gli aforismi e i frammenti dei filosofi dell’antica Ionia e i sofisti, dimostra quanto egli sia alieno da tutto ciò che sia prettamente teorico o dogmatico. Pratico e positivo, il sofista fiorentino si guarda bene dal sistemare in una opera organica e completa la dottrina dell’arte di governo. Il suo sguardo e il senso polifonico della realtà è una costante nello statista fiorentino, animato da uno spirito decisamente più complesso rispetto a quello di Machiavelli. Una procedura di metodo, a seguire Emilio Cecchi, che lo porta a diventare precursore delle età a lui posteriori[9]. Egli apparentemente sembra guardare al presente, a non vedere mai oltre il momento e lo scopo contingenti, limitandosi a formulare osservazioni, giudizi critici, obiezioni ed eventuali soluzioni man mano che la realtà storica e politica contemporanea gliene offre l’occasione. In ciò, Guicciardini, sulla scia di Protagora, si dimostra un pioniere e un precursore di quel pragmatismo intellettuale positivo, evolutosi in America alla fine dell’Ottocento attraverso figure come quelle di William James (1842-1910), di Charles Sanders Perirce (1839-1914), di Charles William Morris (1901-1979), di Ferdinand Canning Scott Schiller (1864-1937) e di Jhon Dewey (1859-1952)[10]. Su questo punto è significativo il giudizio di Ugo Spirito che scrive:

    «Il sum di Guicciardini non è soltanto ego, ma il determinatissimo ego che per lui può dirsi veramente tale . La centralità dell’io acquista per lui un vero significato, soltanto perché vissuta nella realtà di un’esperienza personale inconfondibile con quella di chiunque altro. Questa la ragione per cui la sua filosofia può esprimersi soltanto come storia e psicologia»[11].

    A ciò aggiungiamo che diversi sono i punti di contatto col pensiero di Friedrich Nietzsche, Will Durant e in particolare con Karl Raimund Popper. Non a caso, proprio in Guicciardini è possibile cogliere il senso della posizione antistoricistica che ha caratterizzato il percorso speculativo di Nietzsche, Durant e Popper, per i quali la storia non giustifica nulla, ma piuttosto ha bisogno di essere giustificata. Questo significa prendere partito contro le costruzioni dialettiche della storia, rifiutando ogni atteggiamento olistico che tende a universalizzare e a inglobare gli eventi alla maniera di Machiavelli e di Hegel[12].

    Guicciardini, come in una articolazione più sistematica si potrà scorgere nelle opere di Popper per affinità di pensiero, rifugge dalla dottrina astratta e utopica dell’amico Machiavelli, investigando la realtà con oculatezza e spirito polemico e critico. È pura follia occuparsi del soprannaturale, dell’invisibile e di astrologia (come dirà più tardi Kant a proposito di «fenomeno» e «noumeno»)[13], perché, a suo modo di vedere, il futuro non si dispiega ai capricci dell’arte divinatoria. Perciò, Guicciardini si interessa maggiormente all’uomo proiettato nell’ambito della vita politica e sociale, giudicandolo non dall’ufficio che esercita (spesso affidato al «caso»), ma dal modo in cui lo esercita, non dal grado sociale che non sceglie, ma dalla sua condotta. L’uomo, a suo dire, non deve lasciarsi governare dagli eventi, ma farsi guidare dall’esperienza e dalla riflessione, vigile e pronto a operare in modo da correggere (quando non è possibile deviare del tutto), il corso della sua «fortuna». Il Guicciardini pertanto è proteso a scrutare e ad analizzare l’aspetto politico degli avvenimenti, gli istinti, le ambizioni, le debolezze, la malvagità degli uomini, i moventi segreti delle loro azioni, le invidie, gli odi, che sono alla base di guerre continue e azioni pacificatorie, delle vittorie e delle sconfitte, delle contese e degli accordi, seppur non manca una punta di fatalismo: «Nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà»[14].

    Alla luce di tutto ciò, Guicciardini, nonostante il suo psicologismo storico troppo rigoroso, le incoerenze e le contraddizioni che si riscontrano nel suo pensiero, rimane uno dei maggiori storiografi italiani di ogni tempo, dotato di visione ampia della vita e della storia, proteso verso la speranza di un possibile sviluppo della società aperta al maggior flusso di idee e di valori contro il pregiudizio assolutista di sofisticate teorie filosofiche, puntando alla necessità di quegli interventi a «spizzico», alla maniera popperiana, utili a eliminare passo passo, uno alla volta, gli errori e gli orrori del tribalismo frutto della tirannide e del totalitarismo antico (Platone) e delle dottrine contemporanee (Hegel)[15]. La sua prospettiva ci invita a puntare decisamente a rafforzare quella società civile e democratica, la sola in grado di garantire condizioni di vita migliori non solo per noi, ma in particolare per quei popoli che all’alba del terzo millennio sono oppressi da regimi dittatoriali.

    Nel dare alle stampe questa breve monografia su Francesco Guicciardini, sollecitato in questo da amici e colleghi, esprimo innanzitutto la mia più sincera gratitudine nei confronti dell’Editore Walter Pellegrini, del direttore della collana, prof. Santi Lo Giudice, per averla accolta tra le pubblicazioni di Filosofia Teoretica, e nei confronti del prof. Rocco Pezzimenti per la sua autorevole prefazione. Colgo, inoltre, l’occasione per ringraziare tutti coloro che con ragguagli e consigli mi hanno stimolato ad approfondire adeguatamente alcuni aspetti relativi all’opera guicciardiniana: Antonio Ligato, Enzo Cicero, Anna Rotundo, Nino Arrigo, Lina e Maria Silvestro, e in particolare Michele Vagnetti che con diligenza ha dato un assetto organico e uniforme alle edizioni e alle relative note bibliografiche. Un ringraziamento speciale a Domenico Massara e a Lino Palermo, che hanno curato la compilazione dell’indice dei nomi e la bibliografia e a coloro che hanno realizzato il progetto grafico della copertina: Stefania Chiesalotti, Alessandra Siclari e Marta Pellegrini.

    Resta mia la responsabilità dell’esito complessivo di questa disamina relativa al pensiero guicciardiniano, attraverso la quale ho tentato di tracciare la sintesi di un itinerario di vita e di ricerca che, oggi più che mai, è destinato ad incidere fortemente sul dibattito storico ed epistemologico contemporaneo.

    Martino Michele Battaglia

    Soriano Calabro, 1 ottobre ’13

    [1] Guicciardini fu al servizio del papato dal 1513 al 1527. Cfr. R. Ridolfi, Studi guicciardiniani, Olschki, Firenze, MCMLXXVIII, pp. 16-17 e pp. 131-132; inoltre, R. Ridolfi, documenti sulla prima stampa della Storia d’Italia guicciardiniana, in «La Bibliografia», v. LXI (1959), pp. 39-51.

    [2]Ibidem, p. 18. Vedi pure F. Guicciardini, Opere inedite di Francesco Guicciardini, illustrate da Giuseppe Canestrini e pubblicate per cura dei conti Piero e Luigi Guicciardini, Firenze, Barbera, Bianchi; [poi] presso M. Cellini e Comp., Firenze, 1857-1867. Per ulteriori dettagli F. Guicciardini, Opere di Francesco Guicciardini, a cura di E. Lugnani-Scarano, UTET, Torino, 1970, v. I, p. 33.

    [3] Cfr. R. Pezzimenti, La società aperta nel difficile cammino della modernità, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, p. 19. Per ulteriori approfondimenti si rinvia a: B. Sassoferrato, Tractatus de Guelphis et Gebellinis, in D. Quaglioni, Politica e diritto nel Trecento italiano. Il «De tyranno» di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), Olschki, Firenze, 1983, pp. 131-146; C. Salutati, Il trattato «De tiranno» e lettere scelte, a cura di F. Ercole, Zanichelli, Bologna, 1942, p. 17; L. Bruni, Oratio in hypocritas, in Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, UTET, Torino, 1996, pp. 311-331.

    [4] Giovanni Vincenzo Gravina di Roggiano (Cosenza) è stato un letterato e giurista italiano. Nel 1689 si recò a Roma, dove sotto l’influenza della regina Cristina di Svezia fu co-fondatore e ideologo del circolo letterario Accademia dell’Arcadia, fondata nel 1690 con l’intento di discostare la poesia dall’ampollosità barocca per rifarsi invece a modelli classici. In questa accademia si svilupparono ben presto due diverse tendenze: quella dello stesso Gravina, basata sui modelli di Dante e Omero e quella più moderata di Giovan Mario Crescimbeni (1663-1728), che si rifaceva al Petrarca. A causa di questo diverbio Gravina uscì dall’accademia nel 1711 e fondò l’Accademia dei Quiriti, così chiamata nel 1714. Gravina scoprì anche il poeta e librettista Pietro Metastasio al quale fornì un’ottima formazione letteraria. Questi divenne anch’esso un eccellente membro dell’Accademia dell’Arcadia. (G.V. Gravina, Opere scelte italiane coll’elogio storico scritto da Giuseppe Boccanegra di Macerata, 2 ediz., Biblioteca scelta di opere antiche e moderne, per Giovanni Silvestri, Milano, M. DCCC. XXVII, v. 65, p. 403).

    [5] G. Leopardi, Pensieri LI, in Tutte le poesie e tutte le prose e lo zibaldone, a cura di L. Felici e E. Trevi, Newton Compton, Roma, 1997, p. 638.

    [6] Cfr. A. Quatela, Invito alla lettura di Guicciardini, Mursia, Milano, 1991, p. 64 e p. 131.

    [7] Utilizziamo qui il termine «storiologia» nell’accezione usata da Santi Lo Giudice al riguardo del metodo storiografico di impronta nietzscheana. Cfr. S. Lo Giudice, Introduzione al lessico di Nietzsche, Armando, Roma, p. 20.

    [8] S. Lo Giudice, Nietzscheana. Esercizi di lettura, Alfa, Messina, 1995, p. 22; inoltre, U. Spirito, Machiavelli e Guicciardini, Sansoni, Firenze, 1970, p. 93.

    [9] Cfr. E. Cecchi, Guicciardiniana, in Ritratti e profili, Garzanti, Milano, 1957, p. 86; inoltre, F. Chabod, Guicciardini, in Enciclopedia italiana, v. XVIII, pp. 247-248.

    [10] Le scuole statunitensi dell’epoca si svilupparono sulla scia di quell’eclettismo che cuce su misura ciò che di più pratico insegna l’esperienza storica. Questo nuovo pragmatismo si arricchì grazie ai contributi di pensiero che risalgono a Protagora e che senza dubbio, fanno parte, anche del prospettivismo guicciardiniano. Vedi al riguardo S. Cosentino, Le relazioni pubbliche come scienza e come ricerca, Bonfirrao, Enna, 2007, p. 96; inoltre, John E. Boodin, From Protagoras to William James, in The Monist. Internationality and Phenomenal Consciousness, Issue 1, January, 1911, v. 21, pp. 73-91.

    [11] U. Spirito, Machiavelli e Guicciardini, cit., p. 110.

    [12] Vedi al riguardo F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it. di S. Giametta, [tratto da G. Colli e M. Montinari (a cura di), Opere di Friedrich Nietzsche, v. III, t. I] Adelphi, Milano, 1994, pp. 9-25; W. e A. Durant, Le Lezioni della Storia, trad. it. di S. Vassallo, Araba Fenice, Cuneo, 1995, pp. 4-5; K.R. Popper, Miseria dello storicismo, trad. it. di C. Montaleone, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 7-15.

    [13] I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 2004, pp. 264-280. Credo che Popper se avesse conosciuto bene il pensiero di Guicciardini lo avrebbe senza dubbio condiviso per larghissimi aspetti come ha condiviso quello kantiano.

    [14] F. Guicciardini, Ricordi, C, 30, in Opere di Francesco Guicciardini, a cura di E. Lugnani-Scarano, v. I, cit., p. 736. Il topos della mutatio fortunae percorre la letteratura greca e lo ritroviamo in quella latina nonché nella nostra letteratura italiana. Tema che possiamo individuare da un lato nei poeti tragici e nei filosofi che, in presenza di riflessioni sulla sorte dell’uomo in generale, lo propongono in forma prevalentemente gnomica, dall’altro in storici che lo applicano agli avvenimenti politici e militari. Frutto di una concezione laica che non attribuisce la sorte degli uomini e delle loro azioni agli dei, e pure la sottrae al potere della saggezza umana, questo topos individua come causa delle alterne vicende della vita umana la casualità, elemento incontrollabile per l’uomo. Vitam regit fortuna non sapientia «La vita la regge la fortuna non la saggezza» dice Teofrasto, come riferisce Cicerone (Tusc. 5, 9, 25) e, similmente: «Le cose dei mortali sono rette dalla fortuna (tyche) e non dalla saggezza (euboulìa)» esprimeva un poeta tragico, in un contrasto fra fortuna e consilium che sarà riproposto da Publilio Siro: «Fortuna in homine plus quam consilium valet» (F 27), che tradotto letteralmente dice: «Per l’uomo la fortuna ha più importanza del senno», motto che ritroviamo in Livio: «fortuna quae plus consiliis humanis pollet» (Storia di Roma dalla fondazione, LIV 40, 3). Il poeta Archiloco, a sua volta, aveva affermato: «Sorte e destino, o Pericle, danno all’uomo ogni cosa» (16 W.). Christian Meier riporta al riguardo la seguente espressione di Tucidide: «Le cose erano nascoste da quella incertezza che copre tutto ciò che è futuro» (C. Meier, Atene. La città che fondò la democrazia e diede un nuovo inizio alla storia, trad. it. di G. Scandiani, CDE, Milano, 1993, p. 28). Cesare trae certamente il concetto di fortuna dalla storiografia greca seguendo la stessa scia di Tucidide per il quale la tyche «è quasi il limite negativo di una spiegazione della storia secondo cause umane e naturali, è l’inevitabile compagno dialettico dell’uomo fiducioso nella sua energia», e che afferma: «E non dobbiamo esitare davanti al pericolo, ma pensare che in guerra l’elemento di sorpresa sia proprio una cosa come questa» (III, 30, 4), il che significa che molti sono i fattori imponderabili della guerra, cosa che era abbastanza nota ai Romani, come risulta dalla citazione di Cicerone: «scis enim dici quaendam panika/, dici item ta\ kena\ tou= pole/mou» che tradotto letteralmente significa: «sai, infatti, che imperversa talora il timor panico, come si ama dire, e parimenti furoreggiano le vuote apparenze della guerra, come pur si usa dire» (Ad Att. V 20), frase già codificata da Polibio: «È vero quindi quanto si dice comunemente, che in guerra avvengono molte cose prive di logica» (XXIX, 16). Nel Principe il venticinquesimo capitolo è dedicato alla fortuna: «Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum» (Quanto possa la Fortuna nelle cose umane e in che modo se li abbia a resistere) così leggiamo: «E non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio che li uomini, con la prudenzia loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbero iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose ma lasciarsi governare alla sorte». (N. Machiavelli, Il principe. Con uno scritto di G.W.F. Hegel, a cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 220).

    [15] Cfr. K.R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, trad. it. di R. Pavetto, a cura di D. Antiseri, Armando, Roma, 2002, pp. 42-43. Vedi anche Platone, Politico, 293a; 293b; 293d; 293e; 294a; 294b; 294c; 294d; inoltre, G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano, 2000, Prefazione, p. 83.

    Piatto in maiolica in azzurro a «grottesche minute» con le armi Guicciardini-Salviati. Faenza, Casa Pirota, 1525. (Londra British Museum).

    Nel corso del suo ufficio di presidente di Romagna (maggio 1524 - gennaio 1926), Guicciardini risiedette per lunghi periodi a Faenza, dove portò anche la sua famiglia sperando che il clima romagnolo giovasse alla salute della moglie, Maria Alamanno Salviati. In tutta la Romagna Guicciardini fu onorato in ogni modo, come egli stesso scrive nell’Oratio accusatoria:

    «E certo se voi avessi veduto, giudici, messer Francesco in Romagna, come credo che qui siano presenti molti che l’hanno veduto, con la casa piena di arazzi, di argenti, di servidori, con el concorso di tutta la provincia, che

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