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Storie segrete della storia di Milano
Storie segrete della storia di Milano
Storie segrete della storia di Milano
E-book382 pagine4 ore

Storie segrete della storia di Milano

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Aneddoti, curiosità, misteri e leggende della città ambrosiana

La storia di Milano è illustre e conosciuta, ma tra le pieghe degli eventi ufficiali si nasconde una miriade di aneddoti tutti da scoprire, che accompagnano il corso dei fatti più noti, arricchendoli di personalità e carattere. Diventa un piacere, allora, inoltrarsi in un viaggio a caccia di Virgilio e della sua formazione poetica, passando per i segreti oscuri e dimenticati delle reliquie, fino ai sussurri delle donne dei Duchi, personalità influenti ma lontane dalla ribalta. E ancora: cosa si nasconde dietro i progetti ufficiali del Duomo? C'erano davvero i lupi mannari, come racconta Cesare Beccaria? Anche l'infanzia di Mussolini, transitato a Milano, può diventare una chiave di lettura avvincente per comprendere il presente di una delle città che costituiscono il cuore pulsante dell'Europa, non solo geograficamente ma anche culturalmente. 

Milano tra simboli e leggende, personaggi e gesta del passato

Tra gli argomenti trattati:

• Belloveso e il mito di fondazione della città
• un grande poeta e la sua formazione: Virgilio a Mediolanum
• Carlo Magno a Milano: un grande della storia europea
• i tre re magi a Milano. Storia di un culto controverso
• storia e storie di un teschio: la reliquia di san Pietro martire
• Gian Giacomo Medici detto il Medeghino
• lupi mannari a Milano. Una testimonianza di Cesare Beccaria
• Napoleone a Milano. Vita pubblica e privata
• Radetzky e Milano. Soldati, caserme e una lavandaia
• esordi delle due ruote in terra lombarda. Il “Veloce club” milanese
Mauro Pavesi
Nato a Carate Brianza nel 1973, si è laureato con una tesi sul Trattato della Pittura di Leonardo e si è specializzato in Storia del collezionismo. Ha poi conseguito il dottorato di ricerca. Si occupa principalmente di temi riguardanti il Rinascimento lombardo. Attualmente insegna Storia dell'Arte Moderna all'Università Cattolica di Milano e Brescia. Con la Newton Compton ha pubblicato La storia di Milano in 100 monumenti e opere d'arte e Storie segrete della storia di Milano.
LinguaItaliano
Data di uscita29 nov 2017
ISBN9788822715210
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    Storie segrete della storia di Milano - Mauro Pavesi

    età protostorica e antica

    1. Belloveso, la scrofa semilanuta e il mito di fondazione della città

    Quando una persona, o una famiglia, o un popolo, si interroga sulle proprie origini, non vuole rassegnarsi ad accettare di non poter risalire con adeguata certezza fino in fondo, o di doversi riconoscere in una banale ordinarietà senza gloria. Se fa sorridere il singolo che presta fede a chi gli promette un albero genealogico in odore di blasone per pochi euro, muovono a tenerezza anche le leggende con cui una città si fa grande ai propri stessi occhi. «E vien Quirino / da sì vil padre che si rende a Marte» ( Paradiso , viii , 131-132). Così diceva Dante a proposito della fondazione di Roma; per Milano il nome dell’ardimentoso eroe capostipite è quello di Belloveso. Chi ce ne parla è Tito Livio, che nella sua storia di Roma Ab urbe condita ( v , 34) racconta di come questo antico principe avesse condotto, all’inizio del vi secolo a.C. (duecento anni prima, cioè, della presa di Roma da parte di Brenno), alcune popolazioni celtiche ad occupare una gran parte dell’Italia settentrionale; in tale occasione sarebbe stata fondata la città di Milano.

    Le notizie che abbiamo circa la migrazione dei Galli in Italia sono queste. Durante il regno di Tarquinio Prisco a Roma, i Celti, che sono uno dei tre ceppi etnici della Gallia, si trovavano sotto il dominio dei Biturigi i quali fornivano un re al popolo celtico. In quel tempo il re in carica era Ambigato, uomo potentissimo per valore e ricchezza tanto personale quanto dell’intero paese, perché sotto il suo regno la Gallia raggiunse un tale livello di abbondanza agricola e di popolosità da sembrare che una tale massa di individui la si potesse governare a mala pena. E siccome Ambigato era ormai avanti negli anni e desiderava alleviare il proprio regno da quell’eccesso di presenze, annunciò che avrebbe inviato Belloveso e Segoveso, i due intraprendenti figli di sua sorella, a trovare quelle sedi che gli dei, per mezzo degli àuguri, avrebbero loro indicato come appropriate. Erano autorizzati a convocare tutti gli uomini che ritenevano necessari all’operazione, in maniera tale che nessuna tribù potesse impedir loro di stanziarsi nel luogo prescelto. La sorte assegnò allora a Segoveso la regione della selva Ercinia [una gigantesca foresta primordiale nell’area del Danubio, sorta di Amazzonia dei tempi antichi], mentre a Belloveso gli dei concedevano un percorso ben più piacevole, e cioè la strada verso l’Italia. Prendendo con sé gli uomini che risultavano in eccesso tra le tribù dei Biturigi, degli Arverni, dei Senoni, degli Edui, degli Ambarri, dei Carnuti e degli Aulerci, Belloveso si mise in marcia con un ingente schieramento di fanti e cavalieri ed entrò nel territorio dei Tricastini. Lì si trovarono di fronte le Alpi: e non c’è da stupirsi che gli apparissero insormontabili, visto che fino ad allora non c’erano valichi che ne permettessero l’attraversamento (stando almeno alla tradizione storica, e se non si vuole credere alle leggende relative alle imprese di Ercole). Lì, mentre i Galli, quasi rinserrati tra le alte montagne, si guardavano intorno domandandosi dove mai sarebbero riusciti a passare in un altro mondo al di là di quelle cime imponenti, che arrivavano a toccare la volta del cielo, vennero trattenuti anche da uno scrupolo religioso perché arrivò la notizia che degli stranieri alla ricerca di terre erano stati attaccati dai Salluvi. Si trattava dei Massiliesi, partiti via mare da Focea. I Galli allora, ritenendolo un buon auspicio per il proprio futuro, li aiutarono […] a fortificare il luogo in cui si erano attestati subito dopo lo sbarco. Attraversarono quindi il territorio dei Taurini e valicarono le Alpi nella zona della Dora; poi, dopo aver sbaragliato in campo aperto gli Etruschi non lontano dal fiume Ticino, e saputo che il punto in cui si erano accampati si chiamava territorio degli Insubri […], fondarono in quel luogo una città che chiamarono Mediolanum.

    Se nelle appena ricordate parole di Livio i contorni di questa figura e di questi fatti destano qualche legittimo dubbio sulla loro autentica storicità (soprattutto dal punto di vista della cronologia), essi appaiono comunque meno ingenui e incredibili se interpretati come ipostasi dei rapporti tra le popolazioni d’oltralpe e quelle già precedentemente stanziate nel Nord Italia. È noto che, durante tutta l’Età del Ferro, le civiltà golasecchiane della pianura padana fungevano da mediatrici tra il mondo etrusco e quello transalpino; testimoniano una probabile presenza golasecchiana anche alle origini di Milano alcuni reperti dell’area di Palazzo Reale e del Policlinico. Probabilmente la componente celtica era non trascurabile già prima dell’invasione gallica del 390 a.C. e dell’assoggettamento da parte del presunto Belloveso.

    Che siano stati mossi, come vuole la leggenda, dal sovrappopolamento del loro territorio, per cui il re dei Biturigi Ambigato inviò i nipoti Belloveso e Segoveso a decentrare alcuni gruppi di tribù (ma questo, come è stato notato, è un po’ un topos ricorrente degli antichi miti di fondazione), o invece, come sembra più probabile, attratti dalla ricchezza di queste località con cui già da tempo intrattenevano rapporti commerciali, e spinti dalla pressione di popolazioni germaniche a farsi in là, appare comunque quasi certo che furono i Celti a dare origine alla città (lo stesso nome di Milano deriverebbe dalla traduzione di un termine celtico col significato di terra in mezzo, o, secondo altri, luogo sacro di mezzo); non furono però loro né i primi occupanti, né i più duraturi, né forse i più determinanti.

    Il primo simbolo della città fu una scrofa, animale sacro alla civiltà agricola delle antiche popolazioni rurali. Fu una sorta di totem insubre, un’insegna distintiva dei primi abitanti della città, la cui immagine perdurò dopo la conquista romana e per tutta l’epoca imperiale. Ancora nel iv secolo, in età ormai cristiana, il panegirista Claudio Claudiano ricorda che le mura milanesi erano ornate (probabilmente in corrispondenza delle porte) dell’immagine di un suino ricoperto di un folto pelo ("lanigeri suis").

    Quale fu la vera natura (o, se vogliamo, la vera origine) di questo primo, curioso stemma cittadino? La risposta va probabilmente ricercata, da un lato, nell’importanza di quello specifico animale nello sviluppo dell’agricoltura europea già in fase pre e protostorica, e, dall’altro, nelle antiche forme di religione naturale delle popolazioni galliche. È noto, ad esempio, che in alcuni gruppi di Celti della penisola iberica (noti, appunto, col nome collettivo di civiltad de los verracos) il maiale e il cinghiale erano venerati come vere e proprie divinità. È probabile che anche l’antico emblema milanese avesse un’analoga origine sacrale.

    Contrariamente a quanto si legge in molti testi, anche recenti, sembra che solo in età tarda l’immagine del misterioso maiale selvatico sia entrata a far parte del mito di fondazione di Milano. Nelle Etimologie di Isidoro di Siviglia, risalenti al vii secolo (xv, 57) si racconta, genericamente, che la nascita della città è legata alla leggenda del ritrovamento (non si specifica da parte di chi) di un suino ricoperto dalla peluria solo per metà del corpo; da lì l’erronea supposizione che il nome derivi dalla locuzione – in un latino, peraltro, molto zoppicante – "medio lanum":

    Alcuni Galli [non si fa, qui, il nome di Belloveso], spinti da discordie intestine e dalle continue divisioni del proprio popolo, si trasferirono in Italia in cerca di nuove terre, e, dopo aver espulso gli Etruschi dalle loro sedi, vi fondarono Mediolanum e altre città. Dicono che Mediolanum abbia ricevuto questo nome perché là fu trovata una scrofa medio lanea, ossia con la metà del corpo coperta di lana.

    Questa, come detto, è probabilmente un’interpretazione – o interpolazione – tarda. Fra l’altro è interessante notare che il celebre rilievo antico con la scrofa, murato, nel Medioevo, in un’arcata del Broletto nuovo, non è, contrariamente a quanto spesso si dice, ricoperta di pelo per metà, ma appare completamente irsuta.

    Non è semplice capire a chi risalga l’effettiva contaminazione dell’immagine della scrofa con il mito di Belloveso, attestata, peraltro, solo a partire da alcuni memorialisti medievali; ne scrive, nel xvi secolo, Andrea Alciato, dicendo di aver tratto la sua narrazione da un antico testo di cui non specifica l’autore. Quello che sembra certo (e che, di solito, non è mai specificato) è che la leggenda che ne è nata risale comunque a un’epoca tarda, che, nel suo essere frutto di pura immaginazione, appare quindi assimilabile ad altre etimologie fantasiose dell’antico nome di Mediolanum, come quella che lo vorrebbe nato dalla fusione di quelli dei due mitici guerrieri Medo e Olano, forse un ingenuo scimmiottamento del mito di fondazione di Roma da parte di Romolo e Remo, al pari dell’altrettanto immaginosa narrazione, accreditata anche da Bonvesin de la Riva, che il primo nome dell’attuale capoluogo lombardo fosse stato Alba (ricordo dell’Alba Longa, antenata di Roma, fondata dal leggendario Ascanio, figlio di Enea).

    Attualmente, al di là di tutte queste epopee più o meno fantastiche, si suppone che la nascita degli insediamenti milanesi risalga al vi secolo a.C., anche se la prima, vera crescita definibile come protourbana si data almeno al v.

    2. Milano e alcuni grandi personaggi della storia romana: Annibale, Cesare, Augusto, Virgilio e Bruto

    I Romani conquistarono Milano nel 222 a.C., grazie alla vittoria dei consoli Marco Claudio Marcello e Gneo Cornelio Scipione, in un’ampia campagna di espansione in tutta l’Italia settentrionale. Dopo la sconfitta di Casteggio, quando gli Insubri furono sbaragliati dalle legioni latine, e la successiva occupazione di Acerrae (l’attuale Pizzighettone, nel cremonese), i Celti si arroccarono a Milano – che lo storico greco Polibio chiama «Mediolanon», ricordandola come la città più importante della regione –, ma anche lì furono assediati e sconfitti.

    Tra i prigionieri condotti a Roma c’era un giovanissimo ragazzino insubre che poi, assunto il nome di Cecilio Stazio, divenne uno dei più noti commediografi della prima fase della letteratura latina.

    Quella del 222 non fu, almeno all’inizio, un’occupazione definitiva; solo pochi anni dopo, cogliendo l’occasione offerta loro dalla seconda guerra punica (218-202 a.C.), gli abitanti della futura Lombardia si ribellarono e si arruolarono in massa nelle armate di Annibale, il grande generale cartaginese che per un certo periodo sembrò quasi mettere in scacco l’intera Italia. Non si sa se, una volta varcate le Alpi, Annibale si sia effettivamente fermato anche a Milano, città che allora, come già detto, era già grande e fiorente; quello che è certo è che molti degli antichi milanesi seguirono le orme di questo potentissimo guerriero arrivato dall’Africa. Tito Livio, ad esempio, ricorda un certo Ducario, comandante insubre che, durante la sanguinosa battaglia del Trasimeno (212 a.C.) aveva trucidato il console Flaminio: individuatolo in mezzo alle schiere latine e «cacciati gli sproni nel ventre del cavallo», si sarebbe gettato a tutta velocità contro il nemico, uccidendo prima l’alfiere che lo difendeva e trafiggendolo crudelmente con la lancia. Alcuni hanno ipotizzato che Ducario fosse milanese: è possibile che l’invocazione di vendetta contro colui che aveva «falcidiato le nostre schiere, razziato e saccheggiato i nostri campi e la nostra città» alludesse alle confische e condanne a morte esemplari seguite, a Milano, alla prima occupazione romana.

    Tuttavia, nonostante le prime vittorie cartaginesi, con la definitiva sconfitta di Annibale a Zama (202) anche il destino degli Insubri poteva dirsi segnato. Dopo qualche grattacapo e gli ultimi episodi di guerriglia, alla fine del ii secolo l’occupazione della pianura padana poteva dirsi cosa fatta. Col tempo, anche gli indomabili Celti si romanizzarono: la città cominciò ad accogliere edifici in stile classico; il tempio della dea Belisama iniziò a essere ricordato come quello di Minerva. Anche il latino divenne la lingua ufficiale, pur in un’accezione diversa da quella di Roma, come attesta, fra gli altri, Cicerone, che, ancora nel i secolo d.C., ricorda l’ampio uso di parole di origine autoctona in luogo di quelle canoniche del latino classico. Poi, nell’89 a.C., alla città, che pure continuò a mantenere lo status di colonia, venne concesso lo ius Latii, una sorta di cittadinanza ridotta che la parificava, salvo la mancanza di alcuni diritti, alle popolazioni di Roma.

    Esattamente quattro decenni dopo (nell’anno 49), a concedere ai milanesi pieni titoli di romanità fu Giulio Cesare, che promosse Milano a municipium. È certo che tutta la pianura padana, ormai, nel i secolo a.C., pienamente romanizzata, ebbe un ruolo preponderante nella sua politica, anche solo come fonte di uomini da arruolare nelle sue legioni impegnate nelle campagne di Gallia. Probabilmente (ma non esistono certezze in proposito) si deve proprio a Cesare la decisione di far circondare l’ex capitale degli Insubri con una potente cinta muraria, fatto questo che ne segnerà, col passare del tempo, quella considerevole importanza strategica che sarà alla base della sua prosperità futura.

    Fu comunque un interesse pienamente ricambiato. Gli antichi milanesi, che erano rimasti segnati dalla durissima repressione di Silla (con decapitazioni di massa e confische di beni immobili) dopo la cosiddetta guerra sociale (91-88 a.C.; Mediolanum aveva parteggiato per lo sconfitto Mario), instaurarono con Cesare un rapporto di amicizia e fiducia. Le fonti testimoniano che, negli anni delle sue campagne militari, il grande generale rientrasse in Italia per trascorrere gli inverni in Gallia Cisalpina, sostando a lungo, verosimilmente, nella sua capitale.

    È possibile che a uno di questi soggiorni stagionali sia legato un aneddoto minore, a tema culinario, descritto nelle Vite parallele di Plutarco. Lo storico greco racconta che, a Milano, a Cesare e ai suoi generali era stato offerto un banchetto da uno dei maggiorenti della città. Lì, il comandante avrebbe dato prova di cortesia e ottima educazione accettando di servirsi di un piatto di asparagi cotti secondo una ricetta locale che aveva stomacato tutti gli altri commensali romani:

    Della sua temperanza nel vitto adducono questo esempio: quando a Milano, Valerio Leone, suo ospite, lo invitò a pranzo e gli offrì asparagi insaporiti con un unguento aromatico anziché con olio, egli ne mangiò tranquillamente e criticò gli amici che ne erano disgustati: Bastava, disse, non mangiare ciò che non piaceva; chi ha da ridire su questa rusticità è egli stesso rustico.

    Non è chiaro cosa fosse realmente questo misterioso condimento; forse, come è stato ipotizzato, un antenato del burro fuso (sarebbe, in caso, la prima attestazione di un modo di cucinare assai caratteristico della tradizione lombarda); ma su questo non tutti gli studiosi sono d’accordo.

    Alcuni storici moderni hanno attribuito proprio a Cesare la monumentalizzazione dell’impianto urbano milanese. Anche se non ci sono conferme, fu comunque in questo giro d’anni che la città diede un impulso decisivo alla sua ascesa. Già dai tempi degli Insubri c’era una zecca in cui si batteva moneta; in età romana, negli ultimi decenni, appunto, della Repubblica, fu intrapresa la costruzione di un grande teatro semicircolare, un edificio veramente imponente di cui oggi non resta nulla. Avanzi delle sue fondamenta sono visitabili nei sotterranei dell’attuale palazzo della Borsa, in piazza Affari; per secoli ne rimase memoria nel nome della chiesa di San Vittore detta, appunto, al Teatro, di fondazione antichissima, che sopravvisse per più di un millennio all’edificio che le aveva dato il nome per finire poi anch’essa distrutta nel tritacarne degli sventramenti e delle ricostruzioni della Milano borghese tra fine xix e inizio xx secolo.

    È di questi anni anche l’edificazione del Foro, un grande spazio porticato di dimensioni paragonabili a quelle dell’odierna piazza Duomo (anche se, in proporzione, più lunga e stretta), che accoglieva un portico scandito da colonne marmoree, templi e da una basilica dove si amministrava la giustizia. Ne rimangono, intatte, solo le lastre della pavimentazione, sotto l’attuale Biblioteca Ambrosiana, in parte riutilizzate nella cripta dell’adiacente chiesa del Santo Sepolcro.

    Città di una certa importanza ma comunque provinciale, Milano doveva essere però un centro di cultura tutt’altro che secondario. Ed è per questo che un breve momento della sua vicenda millenaria si intreccia con la storia personale di Virgilio, il grande poeta che lasciò una traccia indelebile nella letteratura europea; tutte le biografie antiche sono concordi nel ricordarne il soggiorno in città per completare i suoi studi, quando aveva appena assunto la toga virile. Dovremmo essere negli anni intorno al 55 a.C.; nato a Mantova, e intrapresi i primi studi a Cremona (allora la più importante colonia romana dell’attuale area lombarda), Virgilio aveva deciso poi di trasferirsi a Milano, città che evidentemente ospitava maestri e retori di livello più alto. Fu quindi in questi anni, come afferma lui stesso in un verso dell’Eneide, che il giovane poeta ebbe modo di mescolarsi alla folla che applaudiva Giulio Cesare, sceso in Italia dalla Baviera prima di accingersi alla guerra civile contro Pompeo.

    Nell’anno 47, anche il futuro cesaricida, Marco Giunio Bruto, era stato a Milano, come propretore della Gallia Cisalpina. Era stato scelto, come suo sostituto ad interim, dallo stesso Cesare, e si era distinto, a differenza di molti governatori di province (carica che, nell’età repubblicana, era spesso una mera fonte di arricchimento personale tramite l’incameramento di alte creste sulle tasse), per la sua onestà specchiata, qualità che gli aveva guadagnato una profonda gratitudine da parte dei milanesi. Si spiega forse così la notizia, cui accenna Cicerone, dello schierarsi degli abitanti della Gallia Cisalpina, nella guerra civile seguita all’uccisione di Cesare, con la coalizione, poi sconfitta, dello stesso Bruto.

    Fu una scelta politicamente errata, ma non ci furono conseguenze negative. Anche il vincitore del conflitto, Ottaviano, che assunse il titolo di Augusto e fu il primo imperatore romano, ebbe infatti un rapporto privilegiato con l’ex capitale insubre, in cui soggiornò più volte.

    Come con Cesare, Plutarco prese spunto da un episodio milanese della vita di Ottaviano per costruire un aneddoto da biografia esemplare. Notata una statua bronzea di Bruto esposta pubblicamente nella Curia di Mediolanum, l’imperatore avrebbe prima mostrato pubblicamente di adombrarsi, poi, con un ostentato sorriso, avrebbe lodato pubblicamente i milanesi per essersi mantenuti fedeli al buon ricordo di un loro benefattore non distruggendone l’immagine neppure nella sorte avversa.

    È comunque con Augusto che Milano cessò di essere una colonia ed entrò pienamente a far parte della rete amministrativa romana; è addirittura possibile (anche se il fatto è attestato con sicurezza solo dai tempi di Marco Aurelio) che sia stata scelta come la sede del magistrato preposto al controllo dell’intera Italia settentrionale.

    Dal punto di vista militare, nei primi due secoli dell’Impero, Milano rafforzò la sua funzione di importante piazzaforte di retrovia, in cui le truppe di difesa si acquartieravano nei mesi invernali.

    3. Un affarista milanese tra gli imperatori romani: la tragica vicenda di Didio Giuliano

    In una Gallia Cisalpina ormai romanizzata, non molti sanno che nella sequenza degli imperatori romani si annovera anche il nome di un milanese, lo sventurato Didio Giuliano, ricchissimo senatore asceso alla porpora imperiale per un periodo relativamente breve, poco più di due mesi intercorsi tra il marzo e il giugno dell’anno 193, quando fu trucidato nei corridoi del suo palazzo, a Roma.

    Marco Didio Severo, poi chiamato Didio Giuliano, apparteneva alla Gens Didia, una delle stirpi più prestigiose della Gallia Cisalpina. Era nato a Milano il 30 gennaio del 133, da Quinto Petronio Didio Severo e da una nobildonna di origine africana; la sua educazione era avvenuta in casa della celebre Domizia Lucilla, madre di Marco Aurelio, con gli stessi precettori che, non molti anni prima, avevano plasmato la figura del celebre imperatore filosofo. I risultati, come si vedrà, furono però ben diversi.

    Gli inizi della sua carriera erano stati ricchi di successi, con un susseguirsi di incarichi prestigiosi: pretore, governatore della Bitinia, dell’Africa e della Gallia Belgica e, nel 175, console, insieme a Elvio Pertinace, che sarebbe stato imperatore subito prima di lui.

    La vicenda della sua elezione imperiale fu breve e fulminea, e finì nel sangue quasi con la stessa velocità. Giuliano ebbe la sventura di essere stato divorato dall’ingranaggio di un’epoca in cui la compagine romana attraversava una fase di grande incertezza: dopo l’età felice dei cosiddetti imperatori adottivi, aveva avuto inizio un’epoca turbolenta, e non a caso proprio l’anno 193 sarebbe stato ricordato come quello dei cinque imperatori. A partire da questo periodo, la stessa elezione imperiale cominciò a non essere più considerata come un successo o un grande onore, ma come il preludio a una tragica morte violenta. Solo la forte personalità del suo successore, Settimio Severo, rallentò provvisoriamente la crisi dell’istituzione imperiale.

    Il regno di Didio Giuliano durò, come detto, il breve spazio di poche settimane, e si svolse interamente a Roma. Dopo la congiura che aveva portato alla morte di Commodo, gli allori imperiali erano passati al valente generale Elvio Pertinace, sopravvissuto poco più di un anno e fatto uccidere da quella stessa potentissima casta militare dei pretoriani che ne aveva decretato l’ascesa al potere. Fu in questo frangente che Giuliano, nell’anarchia seguita all’assassinio del suo predecessore, comprò letteralmente il titolo imperiale, offrendo una grossa somma di denaro in una vera e propria asta indetta dalla Guardia Pretoriana.

    L’episodio dell’acquisizione della porpora imperiale ha veramente del grottesco. Il memorialista Erodiano afferma che la notizia della facile disponibilità del titolo gli sarebbe giunta durante un banchetto; convinto dalla moglie a cogliere l’occasione e recatosi in tutta fretta al palazzo imperiale, avrebbe convinto i pretoriani non solo con un’offerta superiore a quella dell’altro aspirante Sulpiciano, ma anche con la promessa di concedere loro qualsiasi cosa, vantando le sue immense ricchezze personali. Proprio questo episodio, commenta lo scrittore latino, avrebbe segnato un aggravarsi della decadenza e della corruttibilità della Guardia Pretoriana, le cui azioni, da allora, sarebbero state spesso motivate da un’insaziabile sete di denaro.

    Come per molti imperatori vissuti in quest’epoca della storia romana, la porpora sarebbe stata fatale per Didio Giuliano, che se ne era appropriato senza alleanze né meriti propri (e, soprattutto, senza avere valutato il rapporto tra le sue effettive capacità e il terribile peso della carica) ma l’aveva acquistata in tutta fretta, pagandola a peso d’oro, accecato dalla sete di potere. Privo di qualsiasi dote militare, una volta trasferitosi nella sua residenza, sul colle Palatino, l’imperatore aveva cominciato una vita di terrore. Le fonti narrano che, per timore di congiure o attentati, quando usciva dal palazzo si muoveva sempre con una scorta di pretoriani schierati in assetto da guerra. Questo ed altri modi di comportarsi gli procurarono l’odio e la diffidenza della popolazione.

    Nel frattempo, in una situazione di caos, alcune legioni stanziate nei territori periferici di Siria, Britannia, e Pannonia (l’odierna Ungheria) si erano ribellate e, nello spazio di poche settimane, avevano acclamato tre diversi imperatori, che quasi in contemporanea avevano cominciato a marciare minacciosamente su Roma con i rispettivi eserciti. Il più veloce era stato Settimio Severo, che arrivava dalla Pannonia; il suo solo avvicinarsi gettò nel panico Didio Giuliano che dapprima provò a mandare un sicario per uccidere il rivale, poi tentò di fortificare Roma in tutta fretta, in seguito offrì all’avversario di associarlo a sé come coimperatore, e infine, vistosi rifiutare l’offerta, tentò disperatamente di rinforzare le schiere dei pretoriani con un esercito raccogliticcio, cercando di riciclare per usi bellici perfino gli elefanti del circo. Ma la sorte era segnata, e sia i pretoriani sia i senatori avevano individuato che l’anello debole della situazione stava proprio nella figura del goffo, sfortunato imperatore.

    Così, con il nemico a pochi giorni di marcia dalla capitale, Didio Giuliano era stato fatto decapitare dal Senato, tra i marmi e gli ori del suo palazzo. Lo storico Cassio Dione narra la scena della sua indecorosa fine, con l’imperatore in ginocchio, che implorava disperatamente pietà all’ufficiale incaricato dell’esecuzione. Un altro memorialista, Aurelio Vittore, racconta che, dopo la decapitazione, la sua testa tagliata era stata esposta al pubblico ludibrio, sulla tribuna dei Rostri. Jacob Burckhardt, nella sua Età di Costantino il Grande, liquida questo sfortunato milanese dell’antichità come «un ricco idiota» che, con la sua sfortunata elargizione ai pretoriani, si era guadagnato «qualche settimana di orge e di angosce mortali».

    È curioso che, come attestano le fonti, proprio da Milano, città d’origine di Didio Giuliano, sia partita l’organizzazione della controffensiva di Settimio Severo, che ne avrebbe causato la tragica eliminazione.

    4. L’usurpatore Aureolo e l’imperatore Gallieno. Storia di un colpo di stato negli anni della Roma imperiale

    In piena età imperiale, il ruolo strategico di Milano cominciò a crescere quando, col tempo, diminuì l’importanza politica di Roma, che, da sede storica del Senato, cominciò a conservare un mero ruolo di prestigio o di rappresentanza, come fosse un museo della sua passata grandezza. Molto spesso, invece, a partire dal iii secolo, le partite

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