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Il cigno nero
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E-book282 pagine4 ore

Il cigno nero

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Info su questo ebook

Caraibi, 1680 circa. La bella Priscilla Harradine si imbarca sulla nave Centaur per fare ritorno in Inghilterra. Al suo fianco l'appiccicoso Maggiore Sands. Priscilla non fa in tempo a fare amicizia con Charles de Bernis – misterioso quanto affascinante bucaniere francese – che la loro nave viene attaccata dalla temibile Cigno Nero, comandata dal famigerato pirata Tom Leach. La faccenda sembra mettersi molto male, se non che Charles potrebbe avere un asso nella manica: non appena rivela a Leach di essere a conoscenza di una ricca flotta spagnola, carica zeppa d'oro, il destino dell'improbabile compagnia sembra riservare nuove, incredibili, avventure... -
LinguaItaliano
Data di uscita15 feb 2023
ISBN9788728514955
Il cigno nero

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    Anteprima del libro

    Il cigno nero - Rafael Sabatini

    Il cigno nero

    Translated by Alfredo Pitta

    Original title: The black swan

    Original language: English

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1938, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728514955

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    IL CIGNO NERO

    I.

    Il maggiore Sands e la fortuna.

    Conscio dei propri meriti, il maggiore Sands era disposto a ricevere con benigna condiscendenza i doni che la fortuna, a quanto vedeva, era disposta ad elargirgli. Questo però non lo induceva a credere di doverle essere grato pel suo discernimento. L’aveva vista infatti prodigare favori ad indegni e defraudare i meritevoli del loro giusto guiderdone; e per di più essa lo aveva tenuto ad attendere, lui, il maggiore Sands. Se infine ora gli si mostrava benevola doveva averlo fatto, più che per un senso di giustizia, perchè egli aveva saputo costringervela.

    Questi, a giudicare dal complesso degli avvenimenti e dal suo stesso contegno, dovevano essere press’a poco i pensieri di Sands, quel giorno, mentre egli era seduto accanto alla sedia a sdraio disposta per la signorina Priscilla Harradine sotto la tenda di tela da vele improvvisata per lei sul castello di poppa del Centauro.

    La snella nave gialla era ancorata nella spaziosa baia di Fort Royal, dove aveva fatto scalo dopo essere partita dalle Barbados. Si trasportava acqua a bordo, e si approfittava dell’occasione per far provvista anche di altre cose. Il cuoco e il cameriere negro erano letteralmente bombardati da offerte fatte a voce altissima, in un inglese e un francese piuttosto approssimativi, da bianchi, meticci, negri, caraibi, le cui barche cariche di frutti e di legumi si affollavano intorno alla nave battendo e strisciando contro lo scafo.

    A capo della scaletta che portava a bordo il capitano, Bransome, in giubba turchino-scuro ornata di vecchi galloni d’oro, rifiutava risolutamente l’accesso sul ponte a un insistente ebreo che, dalla barca ai piedi di essa, gli offriva cacao, zenzero ed altre spezie. Fra la nave e la spiaggia l’acqua verdastra della baia, lievemente increspata dalla brezza di sud-est che temperava piacevolmente il torrido calore dell’assolata zona, era una piccola foresta di alberi di bastimenti là all’àncora; ed oltre di essa si vedeva la cittadina di Fort Royal stagliarsi di un accecante candore contro il verde smeraldino degli ondulati pendii della Martinica, dominati a settentrione dalla vulcanica massa del Monte Pelée che levava contro il cielo di cobalto la sua arida vetta.

    Il capitano Bransome, tenendo d’occhio a volta a volta il non rassegnato ebreo ed una scialuppa che, ancora lontana un mezzo miglio, puntava evidentemente verso il Centauro, oppresso dalla caldura finì col togliersi il rotondo cappello di castoro, sotto il quale portava un fazzoletto di cotone azzurro, secondo lui assai più fresco di una parrucca; e stette per un po’ ad asciugarsi la fronte madida di sudore. Gli pareva infatti di soffocare, stretto com’era in quel pesante vestito europeo che sentiva necessario indossare, per la dignità del suo grado, ogni qualvolta la nave entrava in un porto.

    Anche sull’altra poppa del Centauro il maggiore Sands sentiva la caldura, nonostante la fresca brezza e l’ombra prodotta dalla tenda, poichè propendeva alla pinguedine, e un prolungato soggiorno al tropico del Cancro non lo aveva smagrito, come accadeva alla maggior parte dei suoi colleghi. Da cinque anni, quando era ancora vivente re Carlo II, si era profferte di andare a prestar servizio laggiù, convinto che nel Nuovo Mondo avrebbe trovata quella fortuna che nel vecchio si era mostrata così restia a favorirlo. Era stata quella una necessità impostagli dal comportamento del padre, un dissoluto che aveva giocate e bevute le grandi possessioni che la famiglia aveva nel Wiltshire, e che quindi aveva lasciata una molto meschina eredità. Per fortuna — e di ciò il maggiore ringraziava quotidianamente Iddio — in quell’eredità non erano comprese le ignobili tendenze del vecchio Sands.

    Infatti, in contrasto col suo prodigo padre, il maggiore aveva quel temperamento freddo e calcolatore che, quando è accompagnato dall’intelligenza, può far andare un uomo molto lontano. Purtroppo in lui l’elemento intelligenza era piuttosto manchevole; ma di questo egli non si accorgeva, così come accade a molti altri uomini del suo stampo.

    Se non ancora si erano realizzate appieno le grandi speranze che aveva concepite nel partire pel Nuovo Mondo, egli sentiva che stavano però per adempirsi, e completamente; nè il fatto che ciò dipendesse da circostanze assolutamente fortuite scrollava la sua persuasione che fossero i propri meriti e la propria abilità ad assicurargli quel successo. Infatti, che cosa era egli andato a fare nelle Indie Occidentali? A cercar fortuna. Ora, se la fortuna gli sorrideva, ciò significava semplicemente che egli aveva fatto ciò che si era prefisso di fare. Un semplice rapporto fra causa ed effetto.

    Per di più, quella fortuna che egli era riuscito ad assicurarsi, e che dipendeva da lui di conquistare pienamente appena lo avesse voluto, era assai piacevole a vedere. Snella, diritta, ben fatta e di giusta statura, Priscilla Harradine — chiamata per vezzeggiativo Prissie — aveva innegabili grazie fisiche, che erano per di più il riflesso di grazie dello spirito che ella possedeva in non piccola misura. Stesa sulla sedia a sdraio di canna d’India, aveva il bellissimo viso giovanile soffuso di un delicato colorito roseo che si addiceva squisitamente all’oro bruno dei suoi capelli; ed era così fresca e graziosa e delicata, che non si sarebbe creduto avesse trascorsi lunghi anni nel bruciante clima di Antigua. Se il piccolo mento ben disegnato e la bella bocca rivelavano risolutezza di carattere, gli occhi, di un colore che stava fra l’azzurro del cielo e il verde-giada del mare, attestavano intelligenza, tenerezza, candore. Indossava una veste di seta color avorio a vita alta con trine d’oro, e agitava languidamente con la fine mano bianca un ventaglio fatto di piume di pappagallo scarlatte e verde smeraldo, con nel mezzo un piccolo specchio ovale, alla moda dell’epoca.

    Suo padre, Sir Giovanni Harradine, era stato mosso da motivi non dissimili da quelli del maggiore Sands ad esiliarsi dall’Inghilterra per andare in quelle remote colonie. Anche la sua situazione finanziaria, infatti, era stata ad un certo punto più che pericolante; ed egli si era quindi indotto, tanto nel proprio interesse che in quello della sua unica figlia rimasta orfana di madre, ad accettare la carica di Capitano generale, o governatore, delle isole Leeward, che un amico, di una certa influenza a Corte, gli aveva fatta offrire. In quei tempi un avveduto governatore coloniale aveva non poche occasioni di far fortuna. Sir Giovanni di quelle occasioni aveva saputo far pro’ nei suoi sei anni di governatorato, e quando era morto — prematuramente portato via da una febbre tropicale — si trovava in condizioni tali, da compensare Prissie di quei lunghi anni d’esilio, poichè la lasciava padrona di una bellissima possessione nella nativa Kent, da lui fatta acquistare da un fidato agente che aveva in Inghilterra.

    Presso a morte, Sir Giovanni aveva ordinato alla figlia che ritornasse subito in patria, dove una sorella di lui l’avrebbe guidata ed assistita. Troppi anni della sua giovinezza, infatti — aveva detto — ella aveva sciupati nelle Indie Occidentali per l’egoismo paterno; del che le chiedeva sinceramente perdono.

    Prissie e il padre erano stati sempre insieme, e « buoni amici ». Alla morte di lui la fanciulla si sentì quindi dolorosamente sola; e più angosciosamente quella solitudine ella avrebbe sentita se non avesse avute le premure, l’amicizia, le attenzioni del maggiore Sands.

    Bartolomeo Sands era stato vice-governatore delle isole Leeward; e poichè aveva dimorato col suo superiore ed amico nello stesso palazzo, Prissie era giunta a considerarlo una persona di famiglia, sulla quale si sarebbe potuto fiduciosamente appoggiare. Di questo Sands era più che contento. Le sue speranze di succedere a Sir Giovanni nel governatorato erano tenui; non perchè, a suo modo di vedere, egli non avesse meriti sufficienti per coprire degnamente quella carica, ma perchè in casi simili il favore della Corte aveva molto maggior peso del talento e dell’esperienza, sicchè con molta probabilità al vacante posto di governatore sarebbe stato mandato dall’Inghilterra qualche inetto, frivolo bellimbusto. Era stata questa persuasione a rendere anche più acuto il senso dei suoi doveri verso la signorina Prissie. Di quei doveri egli aveva poi parlato all’orfana, mostrando così un nobile altruismo di cui ella gli era stata assai riconoscente. Secondo lei, infatti, il posto di Sir Giovanni avrebbe dovuto essere indubbiamente del loro fedele amico: e su questo punto il maggiore si era ben guardato dal dissipare le sue illusioni. Che cosa avrebbe fatto, ora, Prissie? Sarebbe ritornata in Inghilterra, così come il padre le aveva detto? Ebbene, egli non avrebbe lasciato che una fanciulla compisse da sola un lungo, tedioso viaggio, irto di mille pericoli; e l’avrebbe accompagnata, sì, anche a costo di mettere a repentaglio le sue fondate speranze di esser nominato governatore. Per di più, aveva aggiunto, questo appunto sarebbe stato il desiderio del povero Sir Giovanni se avesse avuto il tempo di esprimerlo. Dopo di che, senza tener conto delle affettuose proteste di Prissie, la quale non avrebbe voluto un tanto sacrificio, egli aveva lasciato a un certo capitano Grey di adempiere alle funzioni di vice-governatore fino a che non fossero venute altre disposizioni da Londra, e si era imbarcato con lei sul Centauro, che faceva vela per l’Inghilterra.

    Dapprima Prissie aveva avuta a compagna di viaggio la sua cameriera negra, Isabella; ma disgraziatamente questa aveva tanto sofferto pel mal di mare, che sarebbe stato impossibile farla giungere sino in Inghilterra in simili condizioni, e quindi la si era dovuta sbarcare alle Barbados. Dopo di che la signorina aveva dovuto adattarsi a fare a meno di camerista.

    Il maggiore Sands aveva scelto, per la traversata, il Centauro, perchè era questo un bel veliero relativamente comodo e teneva ottimamente il mare; e tali vantaggi avevano compensato ai suoi occhi l’inconveniente che il capitano aveva ancora qualche cosa da fare alle Barbados, e doveva quindi deviare verso di esse, prima di mettere la prua verso l’Inghilterra. In un certo senso, anzi, quel prolungamento del viaggio non era sgradito al maggiore, il quale avrebbe avuta così l’occasione di rimanere più a lungo, e in piacevole intimità, con la fanciulla che egli non dubitava sarebbe stata un giorno sua moglie.

    Era nel carattere calcolatore di Sands di procedere con cauta lentezza, di non guastar mai le cose con la precipitazione. Egli comprendeva bene che la conquista dell’erede di Sir Giovanni Harradine — conquista alla quale non aveva pensato se non quando ella era rimasta orfana e in un certo senso affidata a lui — richiedeva ancora qualche tempo e non poca circospezione. Bisognava infatti superare certe difficoltà, abbattere qualche pregiudizio. Tutto sommato, sebbene egli fosse senza dubbio un uomo molto interessante, come gli confermava ogni giorno il suo specchio, non si poteva negare che fra loro vi fosse una notevole differenza d’età. Prissie non aveva ancora venticinque anni, e lui, il maggiore, aveva già voltate le spalle alla quarantina, senza contare che era già costretto a celare sotto i riccioli della bionda parrucca una noiosissima e più che incipiente calvizie. Egli si era accorto che in principio, di quella differenza d’età, Prissie si era mostrata cosciente, poichè l’aveva trattato con una deferenza filiale che lo aveva quasi sgomentato; ma a poco a poco, con lo stare insieme, e grazie agli abili sforzi da lui fatti per stabilire fra loro un certo cameratismo, ella si era mostrata a poco a poco più disinvolta. Ora, certo, il lunghissimo viaggio avrebbe compiuta l’opera così ben cominciata. Egli sarebbe stato un vero idiota, si diceva, se non fosse riuscito a fare in modo che quella desiderabilissima damigella e la sua non meno desiderabile sostanza appartenessero a lui prima che il Centauro gettasse l’àncora a Plymouth.

    Era stato contro quella fondatissima speranza che il maggiore Sands aveva giocate le poche probabilità che aveva di essere nominato governatore delle isole Leeward; ma, come si è detto, egli non aveva il temperamento del giocatore, e quindi si era posto allo sbaraglio fidandosi completamente della propria avvincente personalità, dei propri meriti, delle proprie arti di conquistatore, senza dubitare dell’esito finale dei suoi sforzi. In altri termini, aveva semplicemente scambiata una certezza contro una possibilità.

    Di ciò era più che mai convinto quel giorno, mentre riavvicinava la sua sedia a quella di Prissie per offrirle dei piccoli dolci peruviani in una scatola d’argento, dolci che egli si era procurati con una commovente previdenza che avrebbe dovuto far certa la fanciulla della sua volontà di soddisfarne i minimi desideri.

    Ella si volse appena sul cuscino di velluto purpureo a fiocchi d’oro che il maggiore era andato a prendere nella cabina con la solita premura, e scrollò la bella testa in atto negativo, pur sorridendo con una dolcezza che si sarebbe potuta definire tenera; poi rispose languidamente:

    — Siete così pieno di premure per me, maggiore, che è quasi villania rifiutare ciò che mi portate: ma…

    E non completò la frase, agitando lentamente il ventaglio.

    Sands mostrò un malumore che non era forse completamente finto, e replicò, stringendosi nelle spalle:

    — Sentite, Prissie, se dovrò essere per voi sino alla morte il maggiore Sands, che io sia sventrato se vi porto più nulla. E vi chiamerò damigella, per di più, non Prissie. Non sapete dunque che il mio nome è Bartolomeo? Bart, se preferite, per diminutivo.

    Come era in quei tempi usanza dei giovani gentiluomini, che affettavano d’imprecare ad ogni pie’ sospinto per darsi un contegno di spadaccini e di teste balzane, il maggiore aveva presa l’abitudine di ripetere con eccessiva frequenza la frase « che io sia sventrato », forse perchè gli pareva dovesse ringiovanirlo e dargli l’aria di un gentiluomo dal sangue un po’ caldo. Quella faccenda del nome, poi, con la quale egli tendeva ad entrare con la fanciulla in maggiore intimità, l’aveva premeditata a lungo, e gli pareva che fosse venuto il momento di arrischiarvisi.

    — Bartolomeo è un bel nome, non dico di no — rispose con un languido sorriso Prissie; — ma troppo lungo per essere continuamente usato quando fa tanto caldo.

    Non badò più che tanto alla lieve ironia di quelle parole, il maggiore Sands, e preferì prenderle alla lettera; sicchè rispose gravemente:

    — Qualche volta, come vi ho accennato, i miei amici mi chiamano Bart; e così mi chiamava sempre mia madre. Vi autorizzo quindi a dire Bart, semplicemente.

    — Davvero! Ne sono proprio onorata, Bart! — rise la fanciulla; e quella fresca risatina riconfortò il maggiore.

    La campana di bordo suonò in quel momento quattro colpi doppi; e Prissie si raddrizzò a sedere, come se quello fosse stato un segnale.

    — Son trascorse già quattr’ore e siamo ancora all’àncora! — esclamò. — Il capitano aveva detto che non ci saremmo fermati più di due o tre ore. Perchè la nave rimane ancora qui?

    Come per cercare una risposta a quella domanda, ella si alzò e uscì da sotto la tenda; poi, insieme col maggiore, che si era alzato anche lui, si avanzò verso la murata.

    La barca nella quale era il deluso ebreo finalmente ritornava alla spiaggia; e le altre barche dei venditori si staccavano dallo scafo, sebbene i loro occupanti continuassero a vociferare, offrendo la propria merce ad alcuni marinai che si erano affacciati alle murate. Invece la scialuppa, che il capitano Bransome era stato ad osservare, si trovava ormai vicina al Centauro. Uno dei caraibi che facevano da rematori s’inginocchiò a prua per afferrare l’estremità di una corda che pendeva dalla nave, e così assicurò l’imbarcazione all’estremità della scaletta.

    Da sotto la tenda della scialuppa, allora, apparve un uomo giovane, alto, snello, vigoroso, vestito di un elegante abito di raso azzurro pallido con merletti d’argento. Sull’ampio cappello nero era una piuma di struzzo dello stesso colore del vestito; e la mano che lo sconosciuto appoggiò contro lo scafo per passare sulla scaletta era inguantata.

    — Che io sia sventrato! — esclamò il maggiore, meravigliato nel vedere alla Martinica un simile zerbinotto. — E chi può essere, costui?

    Il suo stupore aumentò allorchè egli vide con quanta sicura agilità lo sconosciuto saliva su per l’incomoda scaletta. Lo seguiva, meno disinvolto, un giovane meticcio in camicia di cotone e brache di cuoio non conciato, che portava un mantello, una spada e un’alta cintura di cuoio rosso rinsaldata con bulloni d’argento, con fondine dello stesso cuoio dalle quali apparivano le impugnature intarsiate di due pistole.

    Giunto sul ponte, il nuovo venuto si fermò un momento, poi si avanzò verso il mezzo di esso, e al saluto ossequioso del capitano rispose togliendosi cortesemente il cappello. Fu visto così che portava una parrucca di un nero lucido, accuratamente arricciata, che incorniciava piacevolmente il viso giovanile e abbronzato dal sole dei tropici.

    Il capitano diede un ordine, e due marinai si affrettarono a calare delle corde nella scialuppa, mediante le quali furono issati a bordo prima un baule poi un altro.

    — A quanto pare, costui è venuto ad imbarcarsi — commentò il maggiore Sands; e Prissie soggiunse:

    — Lo si direbbe un personaggio di una certa importanza.

    Senza che forse se ne rendesse conto, Sands si sentì spinto a contraddire su quel punto la sua compagna.

    — Uhm! Voi giudicate dal vestito, mia cara Prissie; ma l’esteriorità può essere ingannevole. Guardate il servo, per esempio! Ha l’aspetto di un filibustiere.

    — Bart, non dimenticate che siamo nelle Indie occidentali!

    — Che non lo so, forse? Appunto per ciò quel bellimbusto mi sembra fuori posto, qui. Chi mai potrà essere?

    A un colpo di fischietto del nostromo i marinai si affrettarono ad andare ai posti di manovra; e poco dopo lo scricchiolìo dell’argano e il rumore delle catene annunciarono che si stava levando l’àncora. Così il maggiore comprese che la partenza era stata ritardata unicamente in attesa del nuovo viaggiatore; e, seccato, egli brontolò di nuovo:

    — Chi diavolo può essere, costui?

    Proprio, il suo era il tono di voce dell’uomo seccato, quasi risentito. Ormai Prissie e lui non erano più i soli passeggeri a bordo, e la loro quieta intimità era forse finita. Ma non solamente risentito sarebbe stato il maggiore Sands se avesse potuto immaginare che il nuovo viaggiatore era stato mandato a bordo del Centauro dalla fortuna, la quale voleva così insegnare a lui, sconoscente, a non accogliere con sdegnosa leggerezza i suoi favori.

    II.

    Monsieur de Bernis.

    Dire che quando, poco dopo, il maggiore e Prissie si trovarono a pranzo insieme col nuovo compagno di viaggio la loro curiosità a suo riguardo fosse soddisfatta, sarebbe affermare cosa assolutamente contraria alla verità; chè anzi essi non fecero che divenire più curiosi di sapere qualche cosa dello straordinario personaggio.

    Questo fu loro presentato dal capitano Bransome come monsieur Carlo de Bernis. Dal nome apparve che dovesse essere francese, il che non si sarebbe capito al solo udirlo parlare, poichè egli si esprimeva in inglese correttamente, con appena un lievissimo accento straniero. Piuttosto, della sua nazionalità avrebbero potuto far dubitare i suoi gesti, piuttosto abbondanti, e, a freddi occhi britannici, un’aria di cortesia lievemente esagerata. Il maggiore, che era andato a tavola già prevenuto contro di lui, fu contento di non trovarvi nulla che lo costringesse ad un più indulgente giudizio. Se altro non vi fosse stato a giustificare la sua antipatia, sarebbe bastata la qualità di straniero; ed infatti il maggiore Sands aveva il più altezzoso disdegno per tutti coloro che non avevano avuta la fortuna di nascere nel Regno Unito.

    Monsieur de Bernis era alto di statura, e, sebbene snello, come si è detto, dava l’impressione di essere molto robusto. Il polpaccio, chiuso nella ben tirata calza di un azzurro pallido, pareva un fascio di solide corde. Era molto abbronzato in viso, e rassomigliava stranamente, come il maggiore subito aveva notato, al defunto re Carlo II quando era nei suoi anni giovanili. E infatti il francese poteva avere un trentacinque anni o poco più. La stessa faccia dal profilo netto, con gli zigomi prominenti, il mento sporgente, le labbra pienotte dal perpetuo sorriso sarcastico, gli stessi baffetti neri che avevano contraddistinto lo Stuart. Gli occhi, sotto le nerissime sopracciglia, erano grandi e assai scuri; e il loro sguardo, sebbene fosse di solito dolce, si sarebbe detto quasi vellutato, all’occorrenza poteva divenire, come apparve subito evidente, di una fermezza sconcertante.

    Se i suoi compagni di viaggio s’interessavano di lui, non si potrebbe dire che in sulle prime egli facesse altrettanto di loro. La stessa sua squisita ma fredda cortesia pareva elevare come una barriera dietro la quale egli rimaneva altezzoso e come distante. Appariva piuttosto preoccupato, e nel corso della conversazione l’unica cosa alla quale mostrasse d’interessarsi realmente fu l’immediata destinazione del Centauro.

    — Anche se non voleste approdare a Maria Galante, capitano — disse ad un certo punto, come riprendendo un colloquio avuto con Bransome prima di andare a tavola — non vedo quale inconveniente potrebbe portarvi, o quale ritardo, il farmi sbarcare là con una scialuppa.

    — Dite così perchè non vi rendete conto dei motivi che ho per non far questo — replicò Bransome. — Non tengo nè punto nè poco a passare a poche miglia di distanza dalla Guadalupa, ecco. Se qualche malanno mi verrà addosso, pazienza, saprò come difendermi; ma non sarò

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