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Toccami primavera, avventurose solitudini
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Toccami primavera, avventurose solitudini
E-book117 pagine1 ora

Toccami primavera, avventurose solitudini

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Info su questo ebook

Livia perde all’improvviso la bizzarra, insostituibile migliore amica. D’impulso torna nel paese costiero della loro comune adolescenza, dal quale mancava da più di trent’anni. In quel luogo dei ricordi Livia sperimenta di nuovo, con lo smarrimento adolescenziale della prima volta, il desiderio sessuale, le paure ancestrali, la complessa instabilità dell’amicizia e dell’amore…
Si può raggirare il Tempo e prendere sul passato rivincite inimmaginabili?

Stefano Pomilia (Roma, 28.10.56) sceneggiatore e regista cinematografico. Debutta alla regia nel 1988 con Fiori di zucca, film selezionato per la Mostra del Cinema di Venezia, sez. Orizzonti. Scrive nel 2001 Ti voglio bene Eugenio, distribuito in Europa, Stati Uniti, America Latina, miglior film al Festival di Newport Beach 2002, per la cui interpretazione Giancarlo Giannini vince il David di Donatello come attore protagonista. Soggettista e sceneggiatore di oltre 20 opere cinematografiche realizzate, tra cui: Sinner, peccato mortale (2009), film interpretato dal divo dell’horror Robert Englund, Ballerina (2006), cortometraggio che vanta la partecipazione dei premi Oscar F. Murray Abraham e Andrej Končalovskij e partecipazioni e riconoscimenti in oltre 30 festival, Prigioniero della mia libertà (2016), film dalla cui sceneggiatura è stato tratto il libro omonimo.
Toccami primavera, avventurose solitudini è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9788830674264
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    Anteprima del libro

    Toccami primavera, avventurose solitudini - Stefano Pomilia

    1

    Ho pensato di avvelenarli… bruciarli vivi nella nostra casa… soffocarli nel sonno. Mio marito ha una pistola. So dove la tiene. Potrei usarla…. Nel viso di Marianna, ovunque puntellato dalla chirurgia plastica, i sorrisi s’aprivano a fatica, stucchevoli e tutti uguali. L’intento di quello appena rivolto al soffitto era forse di rassicurare. All’improvviso torno ad amarli, con tutta me stessa. L’incupirsi dello sguardo smentì il sorriso. Ho sospettato… sospetto che siano amanti. Una notte, mio marito è sceso dal letto piano piano. L’ho seguito di nascosto fino in camera di nostra figlia. Si è chinato su di lei. Le ha baciato la fronte. Non ha fatto altro. Mi ha vista. Non ha capito che lo stavo spiando. O forse sì. Quella è stata l’ultima volta. Mi ha presa da dietro. Non mi ha baciata in bocca. Gli faccio schifo. Sono vecchia. Si torse le mani, infilate in guanti di pelle nera, e rivelò altre verità mai dette con voce roca come se, per farle emergere, il fiato dovesse scovarle una ad una e raschiargliele via dalla gola, dal torace, dal ventre. Vorrei il corpo di mia figlia, la sua pelle, le sue mani. Ha mani bellissime, come le avevo io. Il suo ragazzo è alto, sì, alto. Non riesco a descriverlo. Lo sogno. Non ha faccia, ma so che è lui. Mi bacia il seno, le gambe, tra le gambe… con la lingua. Sono anni che mio marito non lo fa. Mi manca… mi manca…. Pianse, mentre le parole si allungavano in un lamento monotono: Mi mancaaa… mi mancaaaa…. Fu un breve cedimento, aveva smania di chiarire: Non lo desidero, non è un desiderio, lo giuro, è il dolore per una nuova privazione irrevocabile. Scopriamo le cose, le pratichiamo, le perdiamo. Non è un desiderio, è il fastidio per la consunzione delle prospettive, per l’assottigliamento delle possibilità residue. Di desideri non ne ho più. Lotto per mantenere la posizione. Desiderio era incrociare lo sguardo di quell’uomo, ad esempio, quell’uomo sul pontile della nostra infanzia. Ricordi? Pareva un dio greco generato e brunito dal sole. E che occhi aveva… quell’uomo….

    A disagio nella sua poltroncina d’analista, Livia cadde nel tranello della memoria e rievocò: Occhi che ti tagliano l’anima, così dicevi.

    Marianna scosse il capo, autocritica, strusciando la nuca sul rivestimento di pelle lucida. Ho sempre esagerato nelle mie cose. Nelle nostre cose.

    Livia sorrise. Forse le ragazzine di oggi sono diverse, ma noi… noi… in un sorriso… in una bella voce maschile…. in occhi meravigliosi come quelli del signor Valerio… riuscivamo a perderci.

    Lycosa tarentula, rilanciò Marianna dal lettino, è un ragno, il ragno lupo, siamo così, io e te, siano proprio così.

    Ah sì!? prese tempo Livia, mentre un nuovo malinconico sorriso si faceva strada tra quelle rughe e quei cedimenti dei cinquanta rinnegati dall’amica ma da lei sopportati con austera noncuranza.

    Sì, tesoro mio. Le femmine si accoppiano soltanto con i maschi somiglianti a quelli incontrati da giovanissime, gli altri li uccidono e li divorano. Lycosa tarentula: segnate dall’adolescenza.

    Tu dici? si arroccò Livia, preparandosi ad eventuali colpi bassi in arrivo dalla poco raccomandabile amica.

    Un ragno non sa di essere un ragno insisté quella. I nostri mariti hanno tratti in comune e, se fai mente locale, assomigliano al signor Valerio. Certo non hanno i suoi occhi. Ineguagliabili.

    Rammentando poi a Livia di che pasta fosse fatta, Marianna passò fulminea dal romanticismo zuccheroso al suo storico plateale cinismo: Adesso saranno occhi opachi di vecchio… o marciti da tempo in un cimitero di paese. Brulicanti di larve. Occhi verminosi. Sì, mi strazia sufficientemente immaginare quello sguardo straordinario perduto in un cimitero lontano, abbandonato, fatiscente.

    2

    Era l’estate dei loro 11, 12 o 13 anni. In Livia il ricordo era nitido, più vaga la sua precisa collocazione temporale. Poco importava. La pineta dell’adolescenza era immutabile, un elementare labirinto che alla fine regalava la vista e l’aria viva del mare. Livia e Marianna la attraversavano pressoché ogni giorno, l’olfatto e l’udito confusi, storditi dallo stagnante acre profumo dei pini e dal monotono lavorio esagitato delle cicale. Una volta Marianna aveva paragonato quell’aggressione sensoriale all’ottundimento provato durante una clandestina perlustrazione in discoteca. Fortunatamente loro due, nella pineta, erano sempre e soltanto di passaggio. Superati gli ultimi pini, quelli che sfiorano la sabbia e vedono il mare, offrivano polmoni e pelle alla goduriosa libertà del salmastro, mentre le orecchie si accoccolavano nella quiete materna della risacca. Solitamente le ragazzine spiccavano una corsa verso il pontile di legno che, dopo aver risuonato dei loro zoccoli, le accoglieva all’estremità, sedute con le gambe penzoloni nel vuoto, a ciarlare dell’universo intero contro l’orizzonte. Diversamente, se colte dall’urgenza infantile di prendere il bagno, puntavano da subito l’accosta battigia.

    Durante un’estate dei loro 11, 12 o 13 anni, s’erano recate alla pineta allo scoccare dell’alba con la determinazione di incontrare il signor Valerio. Ansanti più per l’emozione che per la corsa lungo il soffice sentiero d’aghi di pino, s’erano sporte da un tronco rugoso e lo avevano visto, il signor Valerio, in piedi in fondo al pontile, lontano, quasi irreale, intento a pescare in solitudine.

    Dio sia lodato, lui c’è! aveva gioito con l’avidità del predatore Marianna, stringendo forte nella mano il laccetto della kodak instamatic ingoffata dalla panciuta custodia di pelle marrone, poi ammiccando smargiassa verso l’amica: Lo sapevo che a quest’ora lo beccavamo! Sono una grande… una grandissima stratega, ammettilo.

    Vai!… vai tu, io t’aspetto qui aveva subito abdicato Livia, paralizzata dal senso del ridicolo ad un passo dall’obiettivo.

    Marianna, conoscendone l’indole pavida, s’era subito infervorata: Non provarci nemmeno! Hai giurato che lo avremmo fatto insieme! Che insieme saremmo andate fino in fondo!.

    Livia aveva chiuso gli occhi e scosso ripetutamente la testa.

    Vigliacca… vigliacca e vigliacca! aveva tagliato corto Marianna, prima d’avviarsi da sola, risoluta, come al suo solito alla ventura.

    Lo sguardo di Livia accarezzò le 50 fiammelle che rendevano solenne la sua torta di compleanno, quindi passò in rassegna i visi di Ernesto, di Lorenzo, di Giacomo e di Maurizio, deformati dall’enfasi con cui storpiavano la classica canzoncina augurale. Livia allora rifletté una volta di più su quanto i maschi fossero elementari, del tutto limitati in quella che lei definiva la gamma delle possibili espressioni vitali. Livia era fermamente convinta che la femmina fosse talmente padrona e abile frequentatrice del senso della misura da poterlo abbandonare in qualsiasi momento, persino come spesso accadeva senza apparente motivo, distanziandosene infinitamente nella consapevolezza di poterlo riguadagnare a piacimento, potendo così percorrere strade emotive impensabili e inaccessibili per il più limitato genere maschile.

    Dall’alto della sua superiorità espressiva ed emotiva, Livia racchiuse in un unico pensiero d’amorevole commiserazione il marito e i tre figli di 13, 17 e 22 anni, esauriente campionario umano della semplicità di cui lei, come sempre, era in grado di presagire ogni futura mossa. Le parole che di lì a poco avrebbe dovuto ascoltare, i regali che avrebbe scartato, i brindisi che avrebbe sopportato, tutto per lei era già chiaro, risaputo, tristemente monotono. Avrebbe comunque sorriso. Lungamente. Ci sarebbero cascati, anche se poi le fosse sfuggita una lacrima di desolazione perché si sa, o meglio i maschi lo sanno, le donne sono felici di piangere di felicità. Livia aveva di che scegliere nella gamma delle possibili espressioni vitali senza correre il rischio di mortificare marito e figli, in quel frangente ingenuamente convinti di renderle onore nel migliore dei modi per questa fine del suo quinto decennio di vita.

    Livia ebbe improvvisa nostalgia della complessità di Marianna, dei batticuori condivisi, dei comuni respiri mozzati, di quelle loro risate sempre a un millimetro, a un secondo, a un battito dalle lacrime. Abbassò gli

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