Occhi vuoti come i tuoi
Di P.j. Matik
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Occhi vuoti come i tuoi - P.j. Matik
P.J. Matik
Occhi vuoti come i tuoi
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Ringraziamenti
A mio padre,
Che mostrandomi la bontà dell'uomo
Il pensiero più dolce mi lasciò in dono
Indice dei contenuti
Ringraziamenti
Terra di confine
Chiazze di ruggine
Nidi nudi
Onde ritratte
Terra di confine
La notte rimboccava le coperte sui mille occhi scintillanti della Città. Il fiume Nadu scorreva pigro alle spalle di Ian che, accovacciato, compiva un impercettibile dondolio a mo’ di burla della sua stessa ombra. Guardingo, sorvegliava l’accesso alla sua dimora, un sotterraneo in disuso, seppellito dall’umidità, un tempo adibito a locale compressori di un’azienda petrolchimica chiusa da decenni.
Era periodo di vendette, di attese e di memorie sospette. Un periodo in cui tra chi viveva in Strada giravano voci flebili, a volte soltanto sussurri, riguardanti tribù di bambini provenienti dal Nord, sguinzagliate per mettere a ferro e fuoco luoghi come quello.
Il sottobosco brontolava. Lamentandosi come la sua natura gli imponeva. Un timore nascente si delineò, sottilmente, senza un motivo concreto al quale appigliarsi, frutto esclusivo della contagiosa libertà alla quale Ian poteva a suo piacimento prostrarsi. Da spirito indomito quale era, da pietra grezza, da anima selvaggia costruita in anni di sfide alla mediocrità del caso. E mentre l’orizzonte s'ostinava a sgretolare le proprie morenti luci contro l'incedere della notte, il frastuono cittadino, da quella distanza, parlava con voce sommessa e garbata.
L’apprensione accennò a placarsi. Lui si raddrizzò in piedi, agile, rigenerato, rassicurato da quella veglia senza troppi sussulti, pronto a dirigersi verso i gradini della propria abitazione. Ma d'improvviso un fruscio si distinse in risposta ai suoi primi moti di distensione, lì a pochi metri, quasi sfiorandolo, da anticipazione intangibile, senza carattere, sincera, che si accomiatò cortesemente, attenuandosi piatta in direzione del fiume. Lui si sdraiò di colpo. E grattò il suolo. Denso. Pruriginoso. Fatto di umido terriccio. Che gli scorreva tra le mani, impastandole, annerendole, lasciandole nude al cospetto di una minaccia ingerente, che necessitava ben altro per essere schivata. Quindi attese immobile, per una decina di sospiri, e poi sollevò il capo, in modo da portare la visuale al di sopra dei ciuffi d’erba che gli si ponevano dinnanzi.
Quando il suo sguardo inquadrò la riva del fiume, rischiarata dal tenue gonfiore di una luna rosea in lontananza, due sfere cerulee perse nella candida assenza di occhi ignoti gli si piantarono addosso, spettrali. Il collo mostrava uno squarcio nero alla carotide. La bocca, più fine di uno spago, viola di solitudine, silenziosa, sembrava sul punto di implorare. La donna, avvolta in vesti da cerimonia, era bellissima.
Ricordava chiaramente di come al Nord si allevassero i figli. Quelle immagini scorrazzavano ferocemente nelle trame sconnesse dei suoi incubi più invadenti.
Perché mi avete portato qui?
Capirai
Ma ho paura
Zitto Ian, zitto per carità! Guarda e non dir niente
La barba di suo padre accarezzava con pudore la corteccia della betulla dietro la quale entrambi si nascondevano, sfumati dalle proprie tenebre, riparati dalla vista affilata di cecchini scocciati. Sua madre, seduta a terra con le spalle rivolte verso la scena che loro osservavano, fissava il cielo, sibilando, incantata. Distante. Assente. Aveva una voglia indomabile di afferrare quella peluria lercia ed ispida che mascherava la realtà del marito, di tirare con tutta la forza che possedeva, di staccargliela e poterlo finalmente guardare in viso per ciò che era. Un uomo smarrito in se stesso, in fuga dall’avvenire e ingannato dal mondo. Ma lei taceva. Taceva e si tratteneva. Come conviene a chi dell'obbedienza ha fatto il motivo della propria fierezza e del proprio patimento.
Chi sono quelli che stanno arrivando?
Sono quelli che hanno liberato quest’anno
Una dozzina di ragazzini, formata sia da maschi che da femmine, avanzava verso il centro del cortile che padre e figlio stavano sorvegliando. Con una mano reggevano un piccolo sacco di juta. Nell’altra impugnavano un pugnale, o un machete, o un’altra arma da taglio molto simile. Tutt’intorno a questi, disposte a formare una mezzaluna, si sviluppavano un centinaio di gabbiette di ferro, ognuna contenente all'interno il silenzio di un bambino rannicchiato, sudicio, rachitico, il cui volto era coperto dallo stesso tipo di sacco che quelli appena arrivati si portavano appresso.
Ian sentì un filo di urina scorrergli lungo la gamba. Oleosa e rassicurante. La madre continuava a non volger lo sguardo verso di lui. Ai piccoli prigionieri venne ordinato di scoprirsi il viso. Il comando veniva da un drappello di uomini agghindati da guerriglieri che, rigidamente impostati, dirigevano con polso lo svolgimento delle operazioni. Non si riuscì a definire chi fu di preciso ad impartire l’ordine e, forse, ciò non era del tutto casuale. Una brezza tagliente sorprese le spalle dei due spettatori ed asciugò leggermente la patina di inquietudine che li fasciava.
Da un intero giorno sostavano in quella postazione attendendo ciò che stava per accadere. Suo padre continuava a chiamarla lezione di vita.
E nell’arco di quelle pesanti ore il piccolo Ian aveva potuto assistere alla cattività. Alla buia monotonia di notti rotte da continui singhiozzi. Al sole irruente, baldanzoso, striato, che batteva bianco d’inverno, furente d’estate. Offuscato una volta al giorno da profili ostili, dall’avvento dei genitori. Che lasciavano ai propri figli lo stretto necessario per non morire di stenti. Dono che loro inconsapevolmente desideravano, ma di cui, data la loro tenera età, ancora non sapevano assaporarne l’immediatezza dell’impenetrabilità. Semi misti a sassi, in una sozza mangiatoia, da suddividere meticolosamente, vita da non vita, nutrimento da ulcera. E mestoli colmi d’acqua, sobbalzanti, rovesciati meccanicamente sulle gabbie metalliche. Creatori di una pioggia sgusciante, anelata da volgari lingue biancastre, malate, che impertinenti si affacciavano da bocche spalancate. Deformate dalla fame. Raggrinzite. Ma reattive nello spirito di sopravvivenza, nel cogliere attimi cruciali, durante i quali non erano permesse distrazioni, emozioni, fraintendimenti. La razione era una e ritornava soltanto l’indomani, senza possibilità di eccezione. Di contrattazione. Di aiuti offerti dalle retrovie. Ed il ferro ardente che, incuneandosi tra le sbarre, andava a posarsi su membra immobilizzate dall'ubbidienza e dalla paura, incidendo l’immortalità di una bieca ustione sulla morbida carne. Quando la punizione era necessaria, quando si doveva, quando si riteneva che il dolore della precedente era stato metabolizzato, quando l’insegnamento necessitava di essere ravvivato.
Di regola il genitore premeva il ferro arroventato per circa un secondo, poi, se alla fine di quell’attimo il figlio non aveva pronunciato alcun lamento, si fermava. Ma bastava un sussurro, anche il più privo di rivalsa, per far ripetere l'atto, in modo da costruire disciplina, spogliare il sentimento, umiliare l’orgoglio.
E quel giorno, tra coloro che meritarono il nerbo dei propri genitori, furono parecchi quelli che smisero di gridare solo quando persero conoscenza. Alcuni di loro ancora giacevano immobili.
Vedi, il papà e la mamma si prendono cura così dei propri figli. Per educarli. Fino all’età di otto anni. E poi vengono liberati
E noi aspettiamo quelli liberati?
Sì, quelli che hanno liberato quest’anno
.
Un andirivieni frenetico di camion dai cancelli. Le guardie perquisivano ogni convoglio. Tutti confluivano all’interno di un grosso hangar posto alle pendici di una collina brulla morsicata qua e là da ruspe ed escavatori. Presumibilmente i carichi venivano collocati nel deposito e i rimorchi ne uscivano vuoti, ma, per quello che Ian riusciva a vedere e capire, non poteva giurare che non stesse accadendo l’esatto contrario.
Ai margini della collina un puzzle di prefabbricati di varie forme e dimensioni cingeva con un abbraccio protettivo il pendio che si innalzava verso la sommità. Una morsa frastagliata, cannibale, ramificata dalle antenne trasmittenti che sovrastavano i tetti degli edifici, sghembe, che tagliavano scheletriche contorni dai canoni geometrici piuttosto insoliti, sporcati da vigili occhi di telecamere sepolti negli angoli reconditi dell’indebolimento cromatico. Che regnava. Rinvigorito. Dissacrato. E che si mimetizzava senza troppi sforzi alla diffusa sensazione di sospetto.
Se si ruotava la visuale in direzione opposta, giusto per curiosità, o anche solo per repulsione, campi sterminati si svisceravano fino a che l'occhio non si smarriva, butterati da macchie che, man mano che ci si allontanava dalla linea dell’orizzonte, prendevano sempre più la forma di contadini spezzati in due, retti, ricurvi sulle loro fatiche. Ed esattamente al centro dell’inquadratura, tra le distese coltivate e le palazzine prefabbricate, si apriva il cortile dove i bambini, obbedendo ad un ordine appena dettato dal manipolo di militari, stavano per svuotare i sacchi di juta che si portavano appresso.
Caddero con tonfo sordo. Gli occhi del padre batterono impercettibilmente, quelli di Ian si socchiusero dolcemente per mettere a fuoco.
Di chi sono?
Non importa di chi sono ma cosa sono. L’hai capito?
Sono mani
Sono mani amputate.
E di chi sono?
La madre strinse gli occhi. Strizzò una lacrima. Spurgando un rivolo di rimorso.
Non importa Ian. Sono una prova
Una prova di cosa?
Una prova, una delle tante
E chi non la supera?
Ora ce ne andiamo
Dai sacchi di un bambino gracile e di una ragazzina dall’aria mascolina non uscì nulla.
La famiglia si stava già allontanando quando il fragore di due spari li raggiunse. Uno dietro l’altro. Inequivocabili.
Non voltarti
lo implorò la madre hai già visto abbastanza
.
Ian legò una torcia a un berretto nero con del nastro adesivo, l’accese, l’indossò e scese il lieve pendio che portava al fiume. Un’eco pressante lo incitava ad un maggior dinamismo. Si inoltrò in una porzione di canneto e la fanghiglia cedette sotto il peso dei suoi passi. Illuminò il cadavere. Raggiunto, lo afferrò rapidamente, tirandolo a riva, senza segni di esitazione. Lo dominò in posizione eretta, ed iniziò a fargli scorrere il cono di luce lungo tutto il corpo, minuziosamente, partendo dal capo, perquisendogli otticamente l'intera figura, fino a spingersi nelle intimità più sottaciute. Non vi erano tracce di altre ferite oltre a quella sul collo.
Al di là del fiume, la Città, sfavillante e sferragliante, cercava di indurgli tormenti che odoravano di rivincita. E le macerie del ponte McMurry gli parlarono, ricordandogli di quando la Divisione ebbe inizio.
Lei veniva dalla Città. Era indubbio. Erano gli abiti a raccontarlo, il fine orologio al polso, la pelle perlacea. Era la posa educata che elegante indossava durante la morte. Non apparteneva di certo alla Strada, questo era categorico. La Strada urlava, sempre, infuocata. Mentre la Città sommessamente discuteva. E la distinzione era secca, graffiata, punteggiata qua e là da rari contagi. La Strada ti ammanettava e si rivolgeva a te in concetti puri, profondi, non strutturati, che esplicitavano sostanze lontane da tutto ciò che la Città incarnava. Odiava le carezze, il sapone, le lingue molli. Ed era popolata da personaggi protetti esclusivamente dalla propria dignità e da un pugno di stracci consunti. Soltanto una volta, in passato, capitò di incontrarci gente dalle sembianze raffinate. Appariscenti. E provocanti. Millantanti ricercate fragranze floreali tra la noncuranza collettiva, insospettita e spaesata da tanta arroganza sfoggiata da gentaglia della peggior specie, assolutamente da evitare, agghindata di tutto punto da abiti provenienti dalle rapine alle spedizioni dirette ai negozi di alta moda della Città.
La scorpacciata non durò molto. Purtroppo, per coloro che avevano a cuore la promiscuità e le incertezze, fortunatamente, per i sempre acerrimi nemici delle contaminazioni. Infatti, i Robot Vedetta alla guida dei convogli vennero temporaneamente programmati ad incenerire qualsiasi sospetto si parasse loro dinnanzi, senza indugi, seconde possibilità, o intimazioni al farsi riconoscere. Da veri codardi quali erano, sia loro, che i loro programmatori, nel terrore reagirono con l’eccesso di violenza, piuttosto che con l’astuzia.
La notizia dell’aggiornamento delle impostazioni dei Robot Vedetta fu subito captata dai sensibili uditi della Strada. E si sparse prontamente, senza freni, secondo le consuete impetuose modalità con le quali proliferava qualunque insegnamento utile alla sopravvivenza sociale.
Ma in ogni caso, del sangue fu versato, gratuito, sporcato. E Suozy, il piccolo asiatico con il grugno da pipistrello che abitava la cabina elettrica tra Rummler e Sablen, cadde proprio in quelle circostanze. Ridotto a un mucchietto di cenere. Sbriciolato. Spazzato via da un insignificante alito di vento. E disciolto nel mondo, ad arricchire di significato e di nostalgia un po’ tutti gli abitanti della Strada.
Ian aveva prestato una piastra per capelli a Suozy. E non la rivide più. Suozy era completamente calvo e particolarmente avverso ai singolari stili di vita che la moda cittadina dettava.
Ian si chinò, abbracciò la donna, assaporandone il secco aroma dell’addio. Tiepido, ad un primo contatto. Se la caricò su di una spalla e iniziò a risalire verso la sua abitazione. Al primo spiazzo pianeggiante si fermò, lasciò andare il corpo ed iniziò a spogliarlo. Vide un portamonete legato in vita, lo aprì. Qualche spicciolo e un indirizzo dimenticato su di un fradicio pezzo di carta. Derron Street 88. Lo rimise al suo posto. Finì di denudare la donna senza trovarle addosso nient’altro di particolare, indiziario o sospetto . Quindi si diresse verso casa, portando con sé il portamonete e l’abito che lei indossava. Una scavatrice si arrestò, poi sbuffò lungo la via che costeggiava il porto di Bayby. Due vecchi aspettavano sotto un lampione fioco, scrutando la faccia sgonfia della propria anima. Un piede calpestò una cicca sputata per terra. E i parcheggi non trovavano pace. Prima una bottiglia rotta, poi un urlo. Una maledizione. Infine il silenzio, inspiegabile più di qualsiasi altro suono. I due vecchi non si mossero. Indossavano entrambi una felpa blu un paio di taglie troppo grande.
Ian legò al ramo di un albero il vestito della donna, per lasciarlo ad asciugare. Si sedette contro il tronco, e, caricandosi con ampi sospiri, si nutrì della notte temeraria che spoglia lo coccolava.
Ian aprì la porta del bar. La scena riflessa nei cubetti di ghiaccio e negli specchi sudici respirava sotto una pesante coltre di fumo costipante. Il matto di Brenxiland aveva appena terminato uno dei suoi spettacoli ed ora ciondolava da uno sgabello con la faccia spiaccicata sul bancone madido. Il dottor Arinka, un ex veterinario avvezzo al vagabondaggio, addobbato da una borsa di pelle marrone, occhiali tondeggianti e una coppia di iguane al guinzaglio, era seduto in fondo al locale. Delirante. Gli affabili rettili sonnecchiavano pacati ai suoi piedi mentre lui, sorseggiando sommessamente un bicchiere colmo di liquido bianco, scriveva con ampi gesti sgraziati su di un taccuino sbrindellato.
Da giorni stava osservando che i pesci del fiume tendevano a seguire il bagliore lunare radunati in curiosi branchi eterogenei. Il suo obbiettivo era dunque quello di portarsi in vetta al promontorio di Mannuiz e, sfruttando la luna piena, riuscire a studiare interamente i profili che quei raggruppamenti ittici disegnavano sul pelo del corso d'acqua. Sospettava di poterci leggere messaggi di un imminente messia.
Manuel asciugava i bicchieri dietro il bancone. Non troppo convinto.
Cosa prendi?
Cosa hai di buono?
Ho del liquore di bacche invecchiato venti mesi
Basta liquore di bacche! Non c’è qualcos’altro in questo dannato mondo?
Mi hanno portato del cognac preso d’assalto
confidò Manuel senza circospezione.
Da dove?
Da due passi dal confine. Il carico veniva dalla Città Viola. Sai la strada che si deve fare per arrivare alla Porta Est della Città?
Sì, c’è quella manciata di chilometri tra i boschi, ho presente
Ok, ma non l’hanno assaltato lì. Ormai ci son telecamere ovunque. Alla fine del bosco c’è il tunnel, giusto?
Hanno fatto saltare il tunnel?
Macché, li hanno attaccati dopo, sul rettilineo poco prima della frontiera. Incredibile
Ma chi erano?
Non si sa. Rizzie mi ha portato una cassa di cognac e un cesto pieno di marmellate alle bacche di ginepro. Mi ha fatto spendere un patrimonio! Ma anche lui dice di non sapere chi fossero
.
Erano professionisti?
Può darsi, comunque le marmellate sono eccezionali. Per il cognac, due monete e un quarto
Ian estrasse di tasca il portamonete della donna. Manuel lo adocchiò e, passata la frazione di secondo in cui capì che si trattava di qualcosa di cui era meglio non accorgersi, portò lo sguardo su quello del dirimpettaio. Lui lo aspettava al varco, con aria interrogativa, indeciso se approfondire la situazione oppure lasciar correre. Un sorriso nacque sulle labbra.
E sì, spero li valga tutti
Il dottor Arinka si alzò dalla sedia e, con paio di colpetti del piede, svegliò le iguane. Ian gli accennò un saluto.
Ragazzo, come è al fiume in questo periodo?
Dottore, è terra di confine come sempre
Non si respira aria più fresca?
No, stagnante come al solito
Annusa meglio la prossima volta
Quindi sorrise della propria onniscienza e trascinò di peso i due animaletti fuori dal locale, dirigendosi danzante nell’oscurità.
Ian brindò in solitario per omaggiare la dipartita di una persona a lui sconosciuta, ma alla quale sentiva di dedicare un po’ di sé. Il cognac scese per l’esofago. Bruciò nella bocca dello stomaco. Fiammelle sulle labbra. La ricordò nel bosco. Fredda e indifesa.
La Strada viveva di schizzi di leggende.
La scuola elementare H. H. Hatton distava meno di cinque minuti di cammino dal bar di Manuel. A passo blando. Scoraggiato. Si narrava che, da illustre roccaforte di civiltà, difesa dall’ocra stazza massiccia dei suoi mattoni di cotto, riuscì a restare a lungo immune dai venti di odio dei bui anni della Divisione. Beatificata. Cauterizzata. Illibata come bucato appena fatto, arrancava sofferente macinando le giornate senza ben badare all’animosità che la circondava.
I bambini poggiavano le loro menti svogliate su banchi pasticciati di classi foderate da forzature. Venivano puntualmente ripresi, sgridati, incoraggiati. Ridevano e gridavano la loro bellezza a squarciagola, assorbendo di sfuggita sprazzi di nozioni mentre tutt’intorno ci si uccideva. Un’oasi di buonsenso, un'eccezione, uno scherzo alla logica che, uno stanco giorno di fine autunno, venne minacciata da un gruppo di militari SopraDivisionisti pronti a fare una mattanza.
Erano le undici del mattino. Un mattino dal sapido sapore di metallo. E dal cancello di ingresso si proiettavano all'esterno le urla gioiose della ricreazione, saltellanti nel brio mattutino, grintose. I soldati le ignorarono, senza troppi sorsi di strafottenza. E ubbidienti ai dettami dei loro bisogni attesero l’ordine del proprio comandante per oltre un’ora. Poi avanzarono, rullando, sfondando a calci l’entrata principale. La varcarono, calpestandola, e si guardarono attorno. Attoniti. E tutto ciò che trovarono furono suoni, voci, rumori. Chiasso. Non vi erano alunni, maestri o bidelli. Nessuno nel capiente atrio d'ingresso o nello scivolare prospettico dei lunghi corridoi illuminati. Nessuno nell’angoscia delle aule