Al di là del bene e del male
Di Mario Pozzi
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Al di là del bene e del male - Mario Pozzi
Mario Pozzi
Al di là del bene e del male
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ISBN 9788867522224
Introduco al romanzo questa poesia - Venezia
Venezia - Poesia di Mario Pozzi dal Tramonto dei sogni
Pittore Gianni Grassi
Arcani desideri dai tuoi occhi raccolti,
penombre, penombre di sospiri
cosi lievi come passi di morte
che alitano come soffi
di distanze eterne.
Scivoliamo nell’abisso luminoso
di questa infinita sera
palpitando tra nebbiosi merletti
confusioni d’acque e di marmi
che s’incendiano dentro specchi
di violaci riflessi.
Tristezza melodiche
oscillano come onde tra lo splendore
dei palazzi che bruciano
e si trasfigurano in ermi sogni,
dove tu lieviti come una chimera
nella malinconia serale
di questa festosa bellezza.
Il concerto di Vivaldi era appena finito e la Fenice dopo gli applausi all’orchestra e al suo direttore si stava svuotando. Ammiravo in religioso silenzio, questa splendida creatura incastonata nei suoi stucchi d’oro e nei suoi bambocci finemente scolpiti, la sua forma circolare i suoi palchi, nicchie per gli amanti, il soffitto a volta tutto affrescato. Nel Frattempo erano usciti tutti e mentre si spegnevano le luci, il silenzio si profuse nel teatro e con ancora l’adagio di Vivaldi nel cuore rividi mia madre nella sua bellezza, elegantemente vestita, quando bambino mi portava a sentire le orchestre che si perdevano nelle loro sinfonie e pensai alla mia vita e alla sua tristezza, tornando con la mente a luoghi sconosciuti, alle ombre della mia anima e alle sue ferite. D’un tratto il custode mi disse di uscire che doveva chiudere, mi alzai e uscii.
L’inverno gelava la notte, sussurrando antichi fantasmi che si perdevano lungo i merletti di questa città dove le ombre racchiudono il suo dolce mistero. Lo sciacquio dei suoi canali misto all’odore delle sue acque, la luce lunare che le rischiarava portando misteri da chi sa quali tempi lontani, perdendomi come mi ci ero sempre perso fin da bambino.
Scivolando nella notte, arrivai a casa. Abitavo in un palazzetto del settecento, vicino alla Chiesa della salute da dove potevo vedere la splendida isola di San Giorgio, quando l’alba l’infuocava e la faceva rilucere solfurea nelle dolci acque piene di riflessi.
Entrando il silenzio era assoluto, era un palazzetto sospeso nelle acque della laguna, a tre piani con i suoi abbaini ricamati come merletti nel marmo così le sue finestre e i suoi portoni, era arredato con mobili Veneziani del settecento pieno di quadri antichi molti dei quali raffiguravano personaggi della mia famiglia la cui storia si perdeva nella notte dei tempi. Ero rimasto solo, mia madre era morta e anche mio padre, ero un fantasma che girava come un’ombra tra altri fantasmi dove tutto era sospeso nel suo silenzio. Il silenzio ovattato che i sussurri della palude trascinavano dentro le finestre del palazzo, erano bisbigli di cose celate, cose segrete. Entrai nel salone e vidi il ritratto di mia madre, in tutta la sua sfavillante bellezza, mi sdraiai sul divano a guardarla e mi ritornava in mente quando, appena ragazzo mi prendeva tra le sue braccia e accarezzandomi i capelli, neri e ricci, mi diceva: quanto sei bello figlio mio, sarò gelosa delle donne che ti ameranno.
Mi persi nei pensieri e mi addormentai.
Svegliandomi, rividi il ritratto di mia madre avvolto dalla luce che filtrava dalle finestre e pensandola mi riveniva in mente quando mi chiamava per tutta la casa. E mi nascondevo da una stanza all’altra.
Mario, Mario vieni da tua madre, non nasconderti che poi ti trovo, vieni da mamma che ti vuole tanto bene, fatti abbracciare, accarezzare.
Allora uscivo, le andavo incontro e lei mi baciava e mi accarezzava dicendomi: sei tutta la mia vita.
Girai per le stanze del palazzo, erano piene di silenzio e d’ombre, la tenue luce che filtrava gli dava un senso di mistero, pieno di mobili, di quadri, di arazzi, muti come fantasmi che mi guardavano da un tempo indefinito. Perdendomi in queste immense stanze risentivo la voce di mia madre che allegra parlava e delle volte cantava spensierata. Entrai nella mia stanza, la laccatura dorata dei mobili si fondeva con i raggi del sole che la faceva splendere. Aprii la finestra e la laguna sibilava il suo melodioso canto d’acque, il mio sguardo si perse oltre il suo confine in un gioco di luci e d’inquietanti doline che rilucevano alla luce del sole e risentivo i sospiri di mia madre, quando veniva a salutarmi baciandomi, dicendomi:
Mario bambino mio, tua madre esce, ci vediamo domani in un altro giorno di luce e io mi addormentavo felice.
Aprii il mio armadio, era pieno di vestiti, cappotti, camice e quant’altro. Tutte cose che mi comprava mia madre, con quel suo gusto innato per le cose belle. Mi provai un vestito nero gessato, mi stava ancora bene e pensando a mia madre che ogni volta che cambiavo abito mi diceva: sei sempre più bello, farai soffrire le donne che ti ameranno, come fai soffrire tua madre che ti ama.
Mi vestii e uscii, mi avviai verso Ponte dell’Accademia per arrivare a San Vitale, da lì presi Calle Larga 12 marzo e arrivai a Piazza San Marco. La mattina era tersa e fredda, il cielo limpido, la luce velava questi splendidi palazzi immersi nella storia, immobili nel silenzio dei tempi, l’acqua tremola e i suoi ponti s’irradiavano al sole dipinto dalla malinconia dei sogni e l’aria pungente