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Info su questo ebook

Scott, ex braccio destro di Liam Turner, è stato arrestato subito dopo la retata a Villa Turner. Le conseguenze del rapimento di Connor Bailey lo hanno inevitabilmente distrutto e la morte di suo fratello, quanto accaduto al suo migliore amico e tutto ciò che ha dovuto fare per il clan Turner da quando era solo un ragazzino lo affliggono ogni giorno. Come se non bastasse, nella prigione in cui è stato portato ci sono anche i vecchi membri del clan e suo padre, il cui obiettivo, ora, è punire Scott per il suo tradimento e avere informazioni su Liam.

Doc Carrizo è un’anima persa, un uomo che non riuscirà mai a perdonarsi per aver causato, anche se non intenzionalmente, la morte di una giovane donna. È in carcere ormai da molti anni ed è rispettato e temuto per la dedizione con cui protegge i detenuti che potrebbero essere presi di mira dai cosiddetti leader, proprio come Scott, il suo nuovo compagno di cella, un giovane fragile e bello, tormentato dai rimorsi e devastato dal dolore. Pur sapendo che non è la scelta migliore legarsi al ragazzo, e non solo perché è un ex mafioso, non è poi così difficile cedere al desiderio di proteggerlo e al suo carattere gentile e socievole e al suo inaspettato buon cuore.

Con il passare del tempo, tra un’aggressione e l’altra, la convivenza forzata tra i due diventa amicizia e poi qualcosa di molto più intimo, speciale, qualcosa che Hale Senior sfrutterà per vendicarsi di suo figlio e di Liam. Ma Scott non ha nessuna intenzione di cedere alle minacce di suo padre né di tradire il suo migliore amico e sarà disposto a fare qualunque cosa pur di proteggere lui e l’uomo che ama.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2023
ISBN9791220705332
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    Anteprima del libro

    Ad ogni costo - Antonella Pellegrino

    1

    Scott Hale si guardava intorno frastornato. Era davvero lì? In una cella minuscola del Metropolitan Detention Center di Brooklyn, con indosso una divisa marrone?

    Certo che sì. Aveva commesso un omicidio.

    Nei suoi anni al fianco di Liam Turner, figlio del più potente boss di Brooklyn, aveva immaginato che prima o poi sarebbe finito in prigione. Del resto, era un criminale. Un mafioso. Eppure, non aveva mai pensato che ci sarebbe finito per omicidio, neanche in un futuro lontano. Per i membri di un clan uccidere era quasi una routine, ma lui era sempre stato soltanto una spalla. Il collaboratore più innocuo. Era Liam quello che faceva il lavoro sporco ed era Gabe che lo aiutava in modo più attivo. Da quando, a sedici anni, era ufficialmente diventato il braccio destro del giovane Turner, si era limitato a tener fermi gli uomini che il suo capo e suo fratello picchiavano. In tanti anni, soltanto nei mesi precedenti al suo arresto alcune situazioni si erano fatte più serie e aveva dovuto utilizzare realmente una pistola, e sempre solo per difendere se stesso, e Liam e Gabe. Non aveva mai immaginato, però, che avrebbe ucciso il boss del clan, padre del suo migliore amico, l’uomo con cui aveva vissuto fin dalla nascita. Già, aveva ammazzato John Turner senza rifletterci su due volte. Ma John aveva messo fine alla vita di suo fratello e probabilmente anche a quella di Liam, a pensarci. Era stato accecato dalla furia e dal desiderio di vendetta, ed era ancora più difficile credere che tutto quello fosse successo solo un paio d’ore prima. Si sentiva così sfinito. Ancora sotto shock. Era successo davvero o era soltanto un incubo orribile?

    Il rumore sordo della porta di ferro che si chiudeva alle sue spalle lo riportò alla realtà. No, non stava sognando: era appena stato rinchiuso in una cella. Un brivido di terrore gli corse lungo la spina dorsale. Liam era vivo? Avrebbe tanto voluto saperlo, perché non avere notizie del suo migliore amico gli stava logorando l’anima. John gli aveva sparato allo sterno e i paramedici gli stavano mettendo una maschera d’ossigeno quando lui era stato trascinato via dalla polizia dopo il blitz al garage di villa Turner. Chiuse gli occhi e deglutì. Venne immediatamente colpito dall’immagine di suo fratello steso sul pavimento ricoperto di sangue, con gli occhi chiusi, il respiro e il cuore fermi, e subito dopo Liam quasi nelle stesse condizioni, con Connor, il ragazzo che avevano rapito un mese prima e di cui, poi, il suo migliore amico e capo si era innamorato, a cercare di tenerlo in vita.

    Come era potuto accadere tutto quello? Non riusciva davvero a crederci. Per salvare Liam e Connor, lui e suo fratello, quella testa calda che però aveva sempre amato, avevano combattuto contro il loro stesso padre, Mose. Avevano tradito il clan di cui facevano parte dalla nascita, facendo in modo, inoltre, che i membri venissero arrestati. Tra cui suo padre, che, supponeva, avrebbe rivisto presto. Cosa gli avrebbe detto? Cosa gli avrebbe fatto? Non voleva pensarci.

    «Ehi, tu, hai intenzione di restare lì per sempre?» Una voce roca e profonda lo fece trasalire. Giusto. In cella c’era qualcun altro. Prese un grosso respiro e sbatté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime che gli stavano annebbiando la vista.

    Ancora fermo sulla soglia, si voltò verso la voce alla sua destra, dove c’era un letto a castello, in ferro. Sul primo lettino era seduto un uomo robusto dalla carnagione più scura della sua, con lineamenti latini. Era cubano, forse? Brasiliano? Aveva folti capelli neri, occhi di un marrone che sfiorava il color ambra e un’espressione cupa. Tenebrosa. Era alto almeno dieci centimetri più di lui e sicuramente era più grande di età. Sembrava avere sui trent’anni.

    Scott scosse la testa e si avvicinò ai letti, gettando le lenzuola sul sottilissimo materasso in alto. Si guardò intorno, in quello spazio particolarmente angusto. Di fronte ai letti c’erano un piccolo tavolino a muro macchiato, un lavabo, anch’esso a muro, che avrebbe dovuto essere bianco ma che invece aveva delle disgustose sfumature di marrone e, nell’angolo, un water che gli fece venire la nausea al primo sguardo. Di fianco al letto, invece, c’erano due piccoli armadietti. Si voltò nuovamente verso la porta, da dove, grazie a una specie di finestrella, diede un’occhiata al corridoio. Rifece mentalmente il percorso dall’ingresso alla sua cella: delle guardie estremamente brutali lo avevano strattonato dall’auto della polizia detentiva fino a una sala, dove era stato istruito su tutto ciò che riguardava la prigione. Dopodiché, aveva percorso diversi corridoi e scale fino alla cella 153. Solo allora, il secondino che lo aveva accompagnato gli aveva tolto le manette. Inspirando a fondo, si avvicinò al tavolo e vi gettò sopra tutto l’occorrente da primo ingresso che gli avevano dato: un sacchetto con articoli da toilette di prima necessità, un paio di ciabatte di gomma, una felpa di molte taglie più grande. Ripose il sacco nell’armadietto libero, si tolse il cartellino su cui era scritto il suo nome e il numero di matricola che gli avevano dato e indossò la felpa.

    «Scott Hale,» affermò il tizio con tono sicuro, indicando il cartellino. «Sei il tizio del clan Turner, vero? Quello che ha ammazzato il boss Turner?»

    Scott non rispose. Si avvicinò al letto, gettò le pantofole che gli avevano consegnato vicino al muro e iniziò a sistemare le lenzuola e la coperta. Non aveva alcuna intenzione di fare conversazione, ma l’altro sembrava non accorgersene. Si mise in piedi e incrociò le braccia sul petto, apparendo ancora più grosso di quanto fosse, non solo per l’altezza. Aveva spalle e pettorali ampi, bicipiti gonfi e vita stretta. Era possente e i muscoli erano più che visibili da sotto la t-shirt nera che indossava. Lui, in confronto, era uno stecchino, più snello e più basso. Probabilmente non era il caso di infastidirlo, ma sbuffò ugualmente dal naso e, con voce irritata, rispose: «Le notizie volano, qui.»

    L’altro scrollò le spalle. «L’ho sentito urlare da qualcuno. Molti detenuti erano felici di sentirlo.»

    «Dovevano essere di un clan nemico, allora.» Si passò una mano sul viso, stremato. «Senti, non prenderla a male, ma non ne voglio parlare. Voglio solo stendermi e…»

    «E rimuginarci su? Non ti rodere il fegato, ragazzo. Ormai è successo,» rispose l’altro atono.

    Scott sentì dentro di sé una furia che non gli apparteneva, ma molto simile a quella che lo aveva portato a commettere un omicidio. Alzò la testa di scatto e lo guardò adirato. «Ormai è successo? Non so perché diavolo tu sia qui, ma io non ho neanche idea di come cazzo sia riuscito a sparare a un uomo!›› ringhiò a bassa voce. «Non avrei mai immaginato…»

    «Di poter finire in galera, sì. Beh, potrei dirti la stessa cosa, ma sono ugualmente qui.» L’uomo gli rispose con calma e un mezzo sorriso ironico, senza mai abbandonare la sua espressione cupa. Poi si stese nuovamente sul suo lettino, incrociando le mani sotto la testa. «Ti dico soltanto una cosa: abituatici. Sei qui, fattene una ragione o finirai con l’ucciderti il cervello o, peggio ancora, uccidere te stesso.» Detto quello, chiuse gli occhi, segno che la conversazione era terminata.

    Scott si trattenne a stento dall’urlare. Chi diavolo era quel tizio per dirgli cosa fare o non fare? O come sentirsi? Calciò via le scarpe, salì sul proprio letto e si stese, un braccio sulla fronte e gli occhi chiusi. Aveva il respiro affannato, sentiva il cuore in gola. Dannazione, lui non era il tipo di persona che si infuriava facilmente. Quante volte aveva calmato le acque tra Liam e Gabe? Quante volte li aveva rimproverati per le loro discussioni? Lui era quello calmo, quello ragionevole, il più razionale. Non si lasciava sopraffare dalle emozioni. Tantomeno dal desiderio di vendetta. Cosa diavolo gli era successo in quel maledetto garage? Perché sentiva dentro di sé il desiderio di prendere a pugni quello stronzo sotto di lui?

    Inspirò ed espirò, poi ancora e ancora. I suoi pensieri corsero nuovamente a ciò che era accaduto un paio d’ore prima, così riaprì di scatto gli occhi. Forse quell’uomo aveva ragione. Ora che era lì, senza più essere sballottato da una parte all’altra, da villa Turner al dipartimento di polizia e poi in cella, poteva metabolizzare tutto ciò che era successo. Nonostante rivivere quei momenti gli facesse troppo male, non poteva farne a meno: la notizia che John avrebbe ucciso Liam e la decisione, sua e di Gabe, di aiutare il loro amico, loro fratello; l’arrivo di Liam e Connor, gli scagnozzi e suo padre che picchiavano prima uno poi l’altro; Liam che si ribellava, gli uomini del clan a terra, feriti o svenuti, suo padre compreso; Gabe senza vita per salvare quella di Liam, poi quest’ultimo con una chiazza di sangue al petto, senza più conoscenza. Infine, poliziotti ovunque e lui che veniva ammanettato e gettato in un’auto mentre il suo migliore amico era in fin di vita. Che fine avevano fatto tutti? Sua madre era in casa quando erano arrivati Liam e Connor, e anche Maryse, la madre di Liam. Dov’erano? E cosa stava accadendo in quel momento al suo amico? Era in ospedale? Era vivo, almeno?

    Ti prego, non puoi morire, non anche tu. Non puoi…

    Una lacrima rischiò di scivolare dall’angolo dell’occhio a un improvviso ricordo di lui, suo fratello e il loro migliore amico nella stanza di quest’ultimo a giocare a poker, ridendo e prendendosi in giro. In poco più di un mese il loro mondo si era ribaltato, travolgendoli, e solo a causa dell’incarico che aveva dato loro il boss: rapire il figlio del nuovo sindaco per ricattarlo. Tenerlo prigioniero, torturarlo. La realtà, però, era che, se anche Liam non si fosse innamorato di Connor Bailey, niente sarebbe cambiato. Forse la polizia li avrebbe trovati comunque, o sarebbero finiti in galera per un motivo diverso, prima o poi. Inoltre, credeva che il suo migliore amico non avrebbe mai ucciso un ragazzo, non avrebbe mai ucciso nessuno probabilmente, a prescindere dai suoi sentimenti. Sapeva bene che nessuno può controllare di chi innamorarsi. Lui era stato innamorato di Liam fin da ragazzino. Pian piano, nel corso degli anni, era riuscito a riporre quei sentimenti in un angolo remoto del suo cervello e del suo cuore, consapevole che non avrebbe mai potuto avere Liam nel modo in cui desiderava, ma non erano mai scomparsi del tutto. Forse, se si fossero confidati uno con l’altro prima, se Liam gli avesse confessato di essere gay e lui avesse detto di essere bisessuale, avrebbe potuto avere una speranza.

    Che idiozia. Smettila con questi pensieri stupidi.

    Liam si era innamorato di Connor così velocemente che, anche se lui avesse dichiarato i suoi sentimenti anni prima, non avrebbe fatto alcuna differenza: il suo migliore amico non era innamorato di lui e sarebbe ugualmente stato un amore non corrisposto. Prese un profondo respiro e provò a dormire. Nonostante le immagini degli avvenimenti al garage che avevano da subito cambiato per sempre la sua vita, la stanchezza si impossessò di lui e non ci mise molto a addormentarsi.

    La mattina seguente Scott venne svegliato da un suono acuto e assordante che lo fece trasalire e aprire gli occhi di scatto.

    «Sveglia, ragazzo,» sentì dire dal suo compagno di cella. «Inizia la tua prima giornata da detenuto.» Mugolò, ancora in preda al sonno. Aveva dormito al massimo un paio d’ore, tra gli incubi che lo avevano impregnato di sudore e svegliato di soprassalto diverse volte, e la difficoltà, dopo, a riaddormentarsi. «Hai fatto l’inserimento, no? Sai come funziona qui.»

    Oh, certo che l’aveva fatto. Appena era arrivato in prigione, gli avevano preso le impronte, fotografato il viso, lo avevano fatto spogliare, visitato ovunque facendolo sentire così umiliato. Poi gli avevano fatto fare una doccia e lo avevano fatto vestire con la divisa dei detenuti. Aveva parlato con uno psicologo, affinché questi capisse il suo livello di pericolosità, ed erano arrivati alla conclusione che Scott Hale era un tipo mite, tranquillo, l’omicidio era stato causato da una forte ondata di rabbia e turbamento in una situazione di per sé complessa e pericolosa. John Turner lo aveva fatto infuriare sul serio, facendogli perdere il lume della ragione. Inoltre, la sua vita e quella di Connor Bailey erano in pericolo. Allora, secondo i codici di pericolosità, poteva stare in una cella in compagnia di un altro detenuto, che si chiudeva con una porta anziché con sbarre aperte, poteva mangiare in mensa, partecipare a laboratori e avere del tempo libero da occupare come desiderava. Ogni settimana avrebbe avuto un lavoro diverso, per nove centesimi l’ora. Al solo pensiero gli scappava da ridere. Quei nove centesimi erano la prima paga che riceveva. In quel modo, comunque, avrebbe potuto comprare dei vestiti ‒ autorizzati ‒ togliersi quella orribile tuta marrone e sostituirla con un abbigliamento rigorosamente di colore scuro, chissà perché.

    La sveglia, gli avevano detto, ossia una specie di allarme che strideva in tutta la prigione, suonava alle 6.30 del mattino. I detenuti dovevano rifarsi il letto, pulire la cella, occuparsi della propria igiene personale, il tutto entro le 7.00. Poi, dovevano recarsi in mensa per la colazione, dopodiché iniziava il lavoro. Terminato quello, potevano trascorrere del tempo libero tra cella, doccia, biblioteca, sale cinema ‒ con una tv con un numero limitato di canali ‒ palestra in cui si poteva fare fitness ‒ con attrezzi ritenuti non pericolosi come tapis-roulant, cyclette, sacchi da boxe, panche multifunzionali, spalliere svedesi e scale orizzontali ‒ oppure giocare a ping-pong e basket o calcio in cortile. Durante la giornata, poi, c’erano da fare conteggi, riunioni, laboratori per chi desiderava, e visite mediche di ogni tipo.

    Mentre rifaceva il letto, Scott non era per niente sicuro di voler uscire dalla cella. Era quasi certo che anche suo padre e gli altri membri del clan erano stati portati lì. E se fosse stato vero, li avrebbe visti? Combattere contro suo padre, metterlo in condizioni di essere arrestato, non era stato facile. Era stata la scelta giusta e non se ne pentiva, ma faceva male essere la causa del suo arresto. Liam aveva potuto tradirli cercando di salvare Connor, ma erano stati lui e Gabe ad avvertire la polizia di quello che sarebbe accaduto.

    «Ehi, tu, sbrigati,» lo chiamò il suo compagno di cella. «Non ci è permesso tardare.»

    Scott fece un lungo respiro prima di voltarsi verso l’uomo, la testa bassa. «Io dovrei… Cazzo. Posso sapere il tuo nome?»

    «Doc,» rispose l’altro secco.

    Lui annuì. «Ecco, io dovrei… fare pipì.» Cristo, che umiliazione. Sentiva le guance roventi.

    L’altro esitò prima di rispondere. «Ascolta, so che è difficile, ma devi farci l’abitudine il prima possibile. D’ora in poi questa sarà la tua vita: piscerai, cagherai e dormirai in questa cella, e la maggior parte delle volte io sarò presente, così come nelle docce. Credi che farai mai più una doccia rilassante fino a quando uscirai da qui? Beh, scordatelo. Ci saranno guardie e altri detenuti, e preparati a prese in giro, minacce, maltrattamenti e anche avance.» Scott sbiancò, il cuore a mille. «So come ti senti,» aggiunse ancora, e anche se aveva l’espressione burbera, il suo tono si ammorbidì. «Ti do un paio di consigli: non arrivare mai in ritardo, neanche di un secondo, ai conteggi; nelle docce cerca di non incrociare lo sguardo di nessuno, ma se qualcuno dovesse infastidirti rispondi a tono, senza però renderti provocatorio, così dimostrerai che non sei un pappamolle e nessuno potrà approfittare di te. Lo stesso vale per la mensa e qualsiasi altro luogo in cui non sarai solo. E non fidarti mai, mai, di una guardia. Chiaro?»

    Scott rimase sorpreso da tutti quei consigli. Dal tono e dall’espressione, di solito l’uomo non sembrava essere molto socievole, tantomeno gentile. Annuì e rispose: «Grazie.»

    Doc, però, si irrigidì. Il suo sguardo divenne ancora più freddo e la sua espressione, prima semplicemente disinteressata, ora era arrogante. «Lo faccio perché dividiamo la cella e non voglio casini, intesi? Seguimi, più sai come funzionano le cose qui, meglio sarà per me.» Era tornato al suo atteggiamento brusco e sgradevole.

    Ma che diavolo?

    Scott scosse la testa, dopodiché si avvicinò all’orinatoio, con non poco imbarazzo. Doc aveva ragione: quella sarebbe stata la sua vita d’ora in avanti e avrebbe fatto meglio ad accettarla il prima possibile.

    C’era una strana regola che riguardava la mensa e, a quanto sembrava, la prigione in generale. Ad alcuni tavoli, tutti da dieci posti e messi in fila, i cosiddetti novellini non potevano neanche avvicinarsi. Questione di gerarchia, rispetto e leadership, gli aveva detto il suo compagno di cella. A un tavolo non molto lontano dall’ingresso, Scott vide suo padre e gli altri membri del clan che erano stati arrestati alla villa. Notò Kyle e Sean, tutti con i segni della lotta della sera prima, fissarlo con odio. Sean aveva il naso steccato ‒ Scott ricordava bene la testata che Liam gli aveva dato per liberarsi dalla sua stretta ‒ Kyle, invece, aveva il braccio in un sostegno legato alla spalla ‒ conseguenza della coltellata rifilatagli da Liam ‒ e suo padre aveva una medicazione alla tempia.

    «Merda,» sussurrò, sentendo il peso di un macigno sul petto. Inghiottì a vuoto e strinse i pugni, cercando di placare il panico che lo stava assalendo.

    Doc, che non aveva lasciato il suo fianco neanche per un secondo da quando erano usciti dalla cella, lo guardò con occhi assottigliati. Poi seguì il suo sguardo e capì. «Sono del clan?» gli chiese osservandoli e lui annuì. «Scommetto che non sono molto felici di rivederti.»

    «Sono sicuro che mi ucciderebbero ora, se potessero,» rispose lui distogliendo lo sguardo da suo padre, che lo stava osservando con disprezzo. L’avrebbe fatto davvero? O si sarebbe limitato a fargli del male con uno schiaffone, come aveva fatto quando era ragazzino? Come aveva fatto quando dei cinesi nemici avevano rubato il loro carico di droga? Beh, ora non aveva semplicemente fallito un affare. Lo aveva tradito, lo aveva fatto arrestare. Aveva ucciso il suo boss, il suo più caro amico.

    «Un bel casino,» commentò Doc. Poi tornò a guardare Scott e, dopo un attimo di esitazione, aggiunse, con il suo solito tono aspro: «Senti, vieni a sederti con me.»

    «Con te?» gli chiese Scott sorpreso.

    «Ho una certa reputazione. Nessuno ti farà del male né ti darà problemi.»

    Lo guardò sconcertato, ma quando l’altro inarcò un sopracciglio, in attesa di una risposta, lui iniziò a mordersi l’interno guancia. Quel tizio era così strano. Da come lo stava guardando, Scott era convinto che lo avrebbe dato volentieri in pasto ai leoni o, in quel caso, a suo padre, eppure continuava a stargli accanto.

    «Fa’ come ti pare,» disse alla fine Doc, che iniziò a camminare. Lui non se lo fece ripetere una seconda volta e lo affiancò.

    Quando raggiunsero un tavolo, entrambi con le mani occupate da un vassoio con piatti di plastica e una bottiglietta d’acqua, un uomo sulla cinquantina disse: «Non voglio un traditore qui.» Scott non lo riconobbe, ma poteva essere un vecchio collaboratore di John o un membro di un altro clan oppure, semplicemente, qualcuno che non tollerava il tradimento verso il clan d’appartenenza. Altri annuirono.

    Scott non riuscì a trattenersi. «Come diavolo fate a sapere tutti chi sono?»

    «Non sei l’unico che è stato arrestato,» lo derise un altro tizio, più giovane. Aveva un dente scheggiato e una medicazione sulla guancia.

    «Doc, non può restare qui,» insisté il primo guardandolo con ostinazione.

    Lui emise un suono che sembrò un ringhio. In tutta la sua possenza fece quasi paura quando si allungò sul tavolo verso l’uomo. «Invece sì, perché l’ho deciso io. È il mio compagno di cella e resterà qui. Se non volete essere sbattuti voi via, chiudete la vostra cazzo di bocca.»

    Scott guardò nuovamente Doc, incredulo. Nessuno si azzardò a dire altro e la colazione proseguì in modo abbastanza tranquillo. Lui restò in silenzio tutto il tempo, con lo sguardo basso, sentendosi completamente a disagio e fuori luogo, ma lanciava qualche occhiata di sottecchi al suo compagno di cella. Intorno a lui aleggiava un alone di autorità. Come mai aveva così tanto potere? Sembrava che tutti facessero ciò che ordinava. Era uno di quegli stronzi da cui lui stesso lo aveva messo in guardia? Se fosse stato così, però, non gli avrebbe fatto quel discorso. In ogni caso, si disse che avrebbe dovuto fare molta attenzione a non farlo mai innervosire.

    Nella sala risuonava un assordante chiacchiericcio e i secondini camminavano tra i tavoli, una mano sul manganello che tenevano nella cintura. Non aveva idea di quanto tempo passò prima che la campanella suonasse.

    «Prendi il vassoio e i contenitori,» lo istruì Doc alzandosi in piedi. «Devi gettarli nella pattumiera. Il vassoio, invece, va sul bancone.»

    «Lo so. Mi hanno fatto leggere il regolamento,» rispose e l’altro annuì.

    «Ora puoi andare direttamente a lavorare, oppure puoi prima andare a farti una doccia. Puoi farla quando ti pare. A me piace farla una volta svegliato, quindi io vado ora.»

    Gli avevano fatto fare la doccia la sera prima, ma si sentiva comunque sporco. Probabilmente, si sarebbe sentito così fino a quando non fosse tornato libero.

    «Vorrei fare la doccia.»

    Doc annuì. «Seguimi, allora. Dobbiamo prima andare a prendere le nostre cose. Anche nelle docce, resta per conto tuo, ok? Non fissare lo sguardo su nessuno. Entra in un box, lavati, esci. In questo modo è probabile che nessuno ti darà fastidio.»

    Non voglio casini gli aveva detto l’uomo in cella, ma Scott non sapeva se credergli o meno. Sì, era freddo, distaccato e anche scontroso, ma quella era gentilezza. Non poteva negare che lo stesse assistendo.

    «Perché mi stai aiutando?» gli chiese allora, curioso. «Non fraintendermi, ne sono grato. Non puoi neanche immaginare quanto. È solo che…» Strinse le labbra, indeciso se continuare oppure no. L’altro lo guardava con attenzione, una strana luce negli occhi nocciola che lo incentivò a continuare. «Hai un atteggiamento, beh, scostante e brusco, ma sei gentile, ora. Almeno con me. Vorrei solo capire.»

    «Senti, Hale,» rispose l’altro con gli occhi assottigliati, «non farti pensieri sbagliati, chiaro? Non ti sto aiutando perché sono gentile o quello che cazzo credi. So come funzionano le cose qui dentro e so che fine fanno i ragazzini come te, ed è una cosa che non tollero.»

    Scott strabuzzò gli occhi.

    Ragazzini come me? Che diavolo vuol dire?

    Beh, era meglio non chiederlo. Il suo tono era così freddo, arrogante e sembrava infastidito. Alzò le mani e disse: «Scusa, ho solo capito male.»

    Doc riprese, il tono severo e un dito puntato verso di lui: «Inoltre, se crei casini ci finisco dentro anche io.» Scott non capiva il perché, ma annuì comunque. «Andiamo, prima che le guardie ci puniscano per aver ritardato al lavoro,» gli ordinò Doc con fare burbero.

    Quando Scott entrò nelle docce, con un asciugamano in spalla e la sacca con il sapone in una mano, fu preso da un forte senso di nausea, e non solo perché era nudo davanti a tanti altri uomini, giovani e anziani. In molti iniziarono a fissarlo, qualcuno ghignò, diabolico, qualcun altro lo ignorò.

    «Muoviti,» sentì dire da Doc dietro le sue spalle. Lui sussultò ma gli diede ascolto. Almeno fino a quando, qualche box più avanti, si trovò faccia a faccia con suo padre. Aveva i capelli brizzolati bagnati e un asciugamano intorno alla vita, lo sguardo assottigliato e furibondo, la mascella contratta. I suoi occhi lampeggiavano di una luce che Scott aveva già visto diverse volte, ma allora lo sguardo era rivolto verso membri del clan che non avevano fatto un buon lavoro. Si pietrificò in mezzo al corridoio. Lo scroscio dell’acqua, il vociare dei detenuti, gli ammonimenti dei secondini, tutto sparì. Gli sembrò di essere nuovamente un ragazzino di quattordici anni alle prime mediocri esperienze con un’arma da fuoco o quando, durante un allenamento di boxe, veniva battuto da Gabe. Non aveva idea di cosa fare, se dire qualcosa o ignorarlo. Ci pensò suo padre, comunque. Senza mai smettere di guardarlo negli occhi, gli si avvicinò lentamente e si fermò a pochi passi da lui.

    «Come avete potuto?» ringhiò in un sussurro. Scott strinse le labbra, non sapendo cosa rispondere. Quando distolse lo sguardo, suo padre continuò: «Sai cosa spetta ai traditori. Tu non sei diverso da uno qualunque di loro.» Detto ciò, lo sorpassò e andò via, seguito da Sean e Kyle. Sean non mancò di dargli una spallata, prima. Solo quando si allontanarono, tornò a respirare. Sì, sapeva cosa lo aspettava. Una punizione. Di che tipo, però, non lo immaginava. Si sarebbe limitato a picchiarlo? O lo avrebbe ucciso, come John aveva cercato di fare con suo figlio? Non era un segreto che gli uomini in carcere venivano ammazzati da altri detenuti. C’erano tante guardie corrotte, nelle prigioni. Il clan Turner lo sapeva bene.

    Doc, ora al suo fianco, lo chiamò. «Non pensarci ora,» gli disse asciutto. «Non è il momento adatto.»

    «Ehi, guardate! Ecco uno dei nuovi arrivati! Che dite, ci si può divertire con un novellino così carino, no?» gridò un tizio da lontano. Non era molto alto, ma era abbastanza corpulento. Doc aveva ragione. Quello non era il momento adatto per lasciarsi sopraffare dalle emozioni. Doveva ignorare i commenti che gli uomini più vicini gli rivolgevano. Gli sembrava di stare, in un certo senso, nello spogliatoio della palestra che aveva frequentato qualche anno prima, dove gli amici si scambiavano delle battute un po’ sconce, lanciavano frecciatine, con l’unica differenza che in prigione il tono non era affatto giocoso. Lì sembravano più degli avvertimenti. Delle vere e proprie minacce. E più ne sentiva, più il suo petto sembrava stringersi in una morsa d’acciaio.

    Cristo, era stato così stupido. Cosa cazzo gli aveva detto la testa, in quel maledetto garage? Come aveva potuto lui, quello che calmava gli animi e sempre con i nervi saldi, cedere al rancore, al dolore, al desiderio di vendetta? Aveva temuto di morire, che John sparasse di nuovo a Liam o che uccidesse Connor, ma se non fosse stato così furioso e così addolorato forse non avrebbe mai premuto quel grilletto. Probabilmente si sarebbe limitato a gettare Connor sul pavimento, o avrebbe sparato in un punto non vitale.

    In quel momento avrebbe voluto essere morto insieme a suo fratello piuttosto che stare in quella maledetta prigione. Chiuse gli occhi e abbassò la testa, lasciando che l’acqua gli scorresse sul corpo scosso dai brividi mentre iniziava a lavarsi il più velocemente possibile.

    Gli mancava Liam, gli mancava Gabe, e la loro vita prima di quella maledetta sera, prima che John ordinasse a suo figlio di rapire il giovane Bailey.

    Ed era lì dentro da neanche ventiquattro ore.

    «Pulire i corridoi?» mormorò Scott mentre, poco più tardi, leggeva il foglio che una delle guardie aveva affisso al muro alla fine del corridoio dov’era la loro cella. Lavoro. Era tutto così surreale. «Mi spieghi a che serve?»

    «Serve, credimi. Fino a qualche anno fa le condizioni igieniche qui facevano davvero schifo e non solo quello,» rispose il suo compagno di cella. «Spesso mancava la luce e d’inverno faceva un freddo tremendo. Poi, dopo diverse morti per infezioni e bronchite non curate a dovere, avvocati e familiari dei detenuti hanno iniziato una protesta. Ora i detenuti, come avrai letto, sono responsabili dell’igiene.»

    «Le condizioni del carcere non sono una responsabilità dei detenuti, ma dello Stato. Soprattutto se si tratta di una prigione federale come questa!»

    «Certo, ma hanno trovato dei compromessi. Ora c’è una sala infermeria degna di questo nome e un medico e uno psicologo stabili, cose che prima mancavano.»

    «E tu eri già qui quando c’è stata la protesta?»

    Doc annuì. «Purtroppo sì. Ritieniti fortunato che ti fanno pulire i corridoi invece che le docce. Quelle non saranno mai davvero pulite.»

    Scott fece una smorfia di disgusto al solo pensiero. «Spero di non doverlo fare mai.»

    «Non ci contare troppo. I lavori ruotano per ogni detenuto. Oggi pulisci i corridoi, la settimana dopo potresti dover occuparti della mensa.»

    Scott annuì. «Non credevo che le cose in carcere funzionassero così. Credevo che i detenuti trascorressero tutto il tempo in cella.»

    «Nah,» fece Doc scuotendo leggermente la testa. «Tutte le prigioni hanno l’obbligo di organizzare delle attività per i reclusi, almeno per quelli che non sono in isolamento. Ci sono anche corsi per imparare nuovi lavori oltre che i laboratori, quello che chiamano reinserimento nella società, per chi sta per uscire, lezioni per chi non ha un diploma, corsi di inglese per gli stranieri. L’MDC è famoso per i corsi universitari.»

    «Oh. Wow. Non lo sapevo. Dovrebbe essere utile, no?»

    «Sì, forse.»

    Scott alzò lo sguardo verso il suo compagno di cella. «Non ne sembri convinto.»

    L’altro scrollò le spalle. «Non saprei. È presto per pensarci, ora.»

    «Quanto ancora devi stare qui?»

    «Se va come previsto, dieci anni.»

    «Ah. E ci sei da quanto?»

    «Quattro.»

    Chissà cosa ha fatto per beccarsi quattordici anni di carcere.

    Beh, per lui sarebbero stati ancora di più. Molti di più. Non aveva idea del motivo per cui Doc fosse lì, ma lui era stato accusato di omicidio. Omicidio volontario, con un’arma da fuoco. Il suo avvocato, d’ufficio ovviamente, gli aveva detto che gli era andata bene, considerando anche il suo passato. Fece un respiro profondo. Era inutile pensarci o autocommiserarsi. Lo dicevano sempre, lui, Liam e Gabe, che la loro fine sarebbe stata in galera o a causa di qualche pallottola. Ed era proprio quello che era accaduto a lui e a suo fratello. E Liam, invece? Quale sarebbe stato il suo destino? L’avrebbe raggiunto in carcere? Sperava… Sinceramente, non sapeva cosa sperare. Da un lato, rivedere Liam, averlo lì ogni giorno, lo avrebbe reso contento e sicuramente gli avrebbe alleggerito il peso che sentiva sul petto. Ma altrettanto se il suo amico fosse riuscito a evitare lo strazio della galera. Sperava per Liam una vita diversa, finalmente serena. Certo, anche lui aveva sofferto a far parte del clan Turner, ma non quanto il suo migliore amico. Lui non aveva mai avuto un padre che lo picchiava fino a farlo sanguinare, non aveva avuto il peso del futuro del clan sulle spalle, né le sue stesse responsabilità e, di certo, non aveva mai odiato la sua vita come aveva fatto Liam.

    Voglio davvero che il mio migliore amico finisca in carcere dopo tutto quello che ha dovuto sopportare?

    Perché non dovrebbe? Anche io ho dovuto vivere una vita a cui ero obbligato nonostante desiderassi tutt’altro.

    Cristo, devo smetterla di pensare.

    «Ehi, stai bene?» gli chiese Doc guardandolo con attenzione. Scott annuì, anche se era una menzogna. Non stava bene, perché suo fratello era morto, e forse anche il suo migliore amico; perché era in carcere e ci sarebbe rimasto per buona parte della sua vita. No, non stava affatto bene, perché da quando era nato non aveva mai potuto scegliere cosa fare della sua vita.

    2

    Mentre riordinava i libri in un carrello vicino l’ingresso della biblioteca, Doc lanciava sguardi furtivi al suo nuovo compagno di cella ogni volta che passava di lì per pulire il corridoio. Quando avevano letto il foglio su cui erano scritti i lavori di quella settimana, si era reso conto che qualcosa non andava. Hale gli aveva assicurato di stare bene, ma il suo viso era troppo espressivo per mentire, così come i suoi occhi castani, grandi e intensi. O, forse, era lui che comprendeva fin troppo bene quel ragazzo.

    Scott Hale era un assassino, un mafioso, o, almeno, così aveva sentito dire dagli altri detenuti. Sinceramente, quando lo aveva visto sulla soglia della loro cella, la sera prima, non gli era sembrato affatto un criminale incallito e tantomeno un assassino. Hale era un ragazzino. Aveva circa vent’anni, era snello, altezza media, tratti delicati ma non per questo meno… virili, sì. Era impossibile credere che avesse commesso un omicidio. Eppure era la verità.

    Appena lo aveva visto, pallido e sconvolto, gli era sembrato di vedere se stesso quando era finito in carcere. Come lui anni addietro, Hale sembrava totalmente fuori luogo in quella prigione, troppo fragile per un posto del genere. Da quando erano usciti dalla cella, quella mattina, si guardava continuamente intorno, disorientato e allarmato, forse alla ricerca di Hale senior e dei membri del clan per evitarli. Cercava di essere il più silenzioso possibile, di nascondersi in qualche modo, quasi volesse fondersi con le pareti per rendersi invisibile. Doc faceva davvero fatica a credere che quel ragazzo fosse lo Scott Hale di cui aveva sentito parlare e di cui aveva letto sul giornale appena arrivato in biblioteca. Il suo compagno di cella era davvero il giovane mafioso che aveva contribuito a metter fine a uno dei più potenti clan della criminalità organizzata di Brooklyn, sparando a sangue freddo al boss?

    Riprese il giornale e lesse l’articolo per la seconda volta, giusto per chiarirsi un po’ le idee.

    Grazie a una soffiata, dopo un mese circa dal suo rapimento, la polizia ha finalmente ritrovato il giovane Connor Bailey. Gli agenti si sono trovati davanti a una scena agghiacciante: diversi uomini feriti e svenuti e due corpi senza vita, uno dei quali quello di John Turner, ucciso con un colpo di pistola allo sterno da Scott Hale, figlio del braccio destro di Turner. Connor Bailey, ferito gravemente ma in condizioni stabili, ha raccontato agli agenti di essere stato portato a villa Turner per essere ucciso insieme a William Turner, che, dopo aver rapito il ragazzo, ha poi cercato di liberarlo. Non si è ancora scoperta la completa dinamica dei fatti, ma si dice che Hale abbia ucciso il boss del clan per difendere se stesso e il giovane Bailey. La polizia, invece, è convinta che il giovane abbia agito per puro desiderio di vendetta dopo che l’uomo ha assassinato Gabe Hale, fratello di Scott Hale, e sparato a William Turner, ora in condizioni gravi. Quale sarà la verità?

    Già, quale sarà la verità? Perché lo ha fatto?

    Soprattutto, cambierebbe qualcosa un motivo rispetto a un altro?

    Tutti, in quella città, conoscevano John Turner, anche solo di nome. Era un uomo senza scrupoli e lo aveva dimostrato cercando di uccidere il suo stesso figlio. Quasi si era pensato fosse immortale. Invece, un giovane ragazzo di vent’anni gli aveva ficcato una pallottola in petto e lo aveva ucciso.

    La sera prima Doc aveva sentito il ragazzo borbottare nel sonno. Ripeteva i

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