Ricordo di Corrado Vivanti
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Con saggi di Luciano Canfora, Walter Barberis, Gabriele Pedullà, Luigi-Alberto Sanchi.
Corrado Vivanti è stato tra i fondatori della Scuola Superiore di Studi Storici e uno dei suoi più attivi collaboratori. Questo volume ricorda la figura dell’insigne storico, e rende omaggio allo studioso di Machiavelli, della storiografia di età moderna, nonché profondo interprete della storia d’Italia.
«Ed è la penna di Vivanti a scrivere che compito dello storico è illuminare continuità e fratture se vuole che la sua opera valga a mostrare il reale spessore e significato delle lotte presenti. Ovvero, riprendendo il Machiavelli delle Istorie fiorentine: se ogni esemplo di repubblica muove, quelli che si leggono della propria muovono molto più e molto più sono utili» (W. Barberis).
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Anteprima del libro
Ricordo di Corrado Vivanti - Paolo Butti de Lima
Marino
Quando Vivanti aveva dieci anni
di Luciano Canfora
In questo volume ci sono gli interventi di studiosi e amici di Corrado Vivanti, i quali ne hanno efficacemente descritto l'opera di storico e di organizzatore culturale, ma anche il tratto umano impeccabile e arguto. Non credo sia superfluo riportare qui, in apertura, una parte, molto significativa, della sua testimonianza autobiografica, apparsa nel periodico «Mediterranea» (anno IV, aprile 2007), intitolata Un ragazzo negli anni del razzismo fascista[1]. Si tratta delle pagine che rie- vocano l'effetto su di un ragazzo di dieci anni – Corrado appunto – della cacciata degli ebrei dalle scuole italiane a seguito delle leggi razziali.
L'autore descrive senza retorica e con grande schiettezza la scossa – lui la chiama «la doccia gelata» – che colpì un ambiente, quello suo familiare, in cui l'adesione al fascismo e alle sue imprese guerresche in terra d'Africa (meno in Spagna) era ben radicata, come del resto in tanti altri ambienti. Ma lasciamo la parola a Vivanti:
[…] Proprio quel giorno ci fu la «Grande Adunata», e nel pomeriggio, in divisa di «figlio della lupa», mi ritrovai con i miei compagni e tutte le scolaresche mantovane nel cortile dell'Opera Nazionale Balilla (dove adesso si apre via Bonomi) per ascoltare il discorso del duce che annunciava l'attacco in Abissinia. L'educazione ricevuta a scuola aveva fatto di me e di mio fratello (allora al ginnasio) due convinti fascisti. È vero che al settimanale «il Balilla», spesso distribuito a scuola, preferivamo il «Corriere dei piccoli», che compravamo regolarmente per seguire le avventure di Bibì e Bibò, del signor Bonaventura e dell'assai poco marziale soldato Marmittone, mentre ci annoiavano le eroiche gesta dei personaggi illustrate dal «giornalino» ufficiale. Ma «la conquista dell'Impero» ci appassionò come di dovere, e ne seguimmo con entusiasmo le varie fasi su una carta geografica dell'Etiopia, che appendemmo in camera nostra, segnando con bandierine tricolori l'avanzata. A scuola – ero ormai in terza elementare – il maestro Zampieri ci insegnava gli inni del momento. Ne ricordo uno, non so se di sua creazione: «Su Italia, sorgi è l'ora, / Galliano aspetta l'alba dall'Endertà. / Di sangue gronda, divien bandiera, / e di quel sangue rosseggia Macallé. / Campane a stormo, sirene urlanti al ciel: / la Grande Voce sorpassa i monti e i mar; / il duce chiama la giovinezza, / ne fa spada, l'aratro per l'avvenir». A casa si rideva all'idea che noi fossimo una spada o un aratro, ma lo si metteva in conto alla non eccelsa vena lirica dell'autore. Esultammo nel maggio del ‘36 nell'ascoltare il discorso del duce in cui annunziava che il maresciallo Badoglio aveva telegrafato di essere entrato in Addis Abeba, e da allora, a scuola, fu un'orgia di temi sull'Impero che rinasceva sui colli fatali di Roma. Invece la guerra di Spagna, cominciata nell'autunno successivo, lasciò freddo mio fratello e (per conseguenza) me: comprammo, forse all'inizio del 1937, una carta della Spagna, l'appendemmo al posto di quella dell'Etiopia, ci procurammo le bandierine falangiste, e poi lasciammo tutto lì. Per quale ragione non saprei dire. Di lì a poco i nostri sentimenti fascisti avrebbero ricevuto una doccia gelata. Fino all'estate del 1938 non ricordo che in casa si parlasse della situazione che andava abbuiandosi per la campagna antiebraica iniziata qualche mese prima. Come tutti gli anni precedenti, si pensava di passare due o tre settimane fra luglio e agosto in villeggiatura e quell'anno si era deciso di andare a Moena, in val di Fassa. Fissammo le stanze in una pensione, dove sarebbe venuto anche lo zio Giorgio; papà invece non ci avrebbe accompagnato: il suo lavoro non gli consentiva prolungate assenze e del resto si allontanava malvolentieri da casa. Già all'indomani del nostro arrivo a Moena sentii la mamma discutere nervosamente con lo zio Giorgio, ma non riuscii a capire di che cosa si trattasse. Poi, un pomeriggio, nella