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La Morte in pantofole: racconti brevi
La Morte in pantofole: racconti brevi
La Morte in pantofole: racconti brevi
E-book121 pagine1 ora

La Morte in pantofole: racconti brevi

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Info su questo ebook

Nel panorama piuttosto uniforme della narrativa italiana, per lo più oscillante tra rappresentazione del vero, voli di fantasia e sperimentazione, il nome del troppo poco conosciuto Enrico Morovich (Fiume 1906-Lavagna 1994) spicca per una sua indiscussa originalità come autore di racconti brevi giocati tra l’ironico e il macabro. Con le sue brevi prose, dove i protagonisti sono spesso oggetti animati o animali parlanti, aveva conosciuto un periodo di grande successo negli anni Trenta, quando la sua firma appariva frequentemente su numerosi quotidiani e settimanali di grande diffusione. Il massimo riconoscimento le ebbe da uno dei maggiori critici italiani, Gianfranco Contini, che nella sua antologia di racconti surreali (Italie magique, 1946 poi tradotta nel 1988) lo inserì affianco a narratori di grande successo come Bontempelli, Palazzeschi e Moravia...
LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2023
ISBN9791280649225
La Morte in pantofole: racconti brevi

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    La Morte in pantofole - Enrico Morovich

    COVER_la-morte-in-pantofole.jpg

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2023 Gammarò edizioni

    Oltre S.r.l., via Torino 1 – 16039 Sestri Levante (Ge)

    www.librioltre.it

    ISBN 9791280649225

    isbn_9791280649225.jpg

    Titolo originale dell’opera:

    La Morte in pantofole – racconti brevi di Enrico Morovich

    Collana I Classici

    prima edizione cartacea: ottobre 2021 con ISBN 9791280649003

    Enrico Morovich,

    il racconto breve e il sogno surreale

    Prefazione di Francesco De Nicola

    1. I rapporti tra la stampa periodica e la letteratura sin dall’Ottocento, dal tempo del feuilleton, sono stati stretti e costruttivi per reciproche ragioni di interesse: al prestigio di giornali e settimanali giovava contare sulle firme di noti scrittori e a questi era utile potersi proporre a un pubblico più numeroso di quello dei propri libri che magari così si sarebbe potuto allargare. Ospite interessato della stampa periodica, il narratore ne ha sempre dovuto accettare le esigenze, la prima delle quali era di incoraggiare i lettori a leggere i suoi racconti, ma ancor più i romanzi a puntate (sapientemente interrotte sul più bello, come le future telenovelas), per far comprare il quotidiano anche il giorno dopo, con vicende e personaggi non cerebrali, ma di facile comprensione e di immediata partecipazione emotiva. E così, come aveva osservato Umberto Eco, i protagonisti dei feuilletons, per essere graditi al pubblico borghese dei lettori di giornali, dovevano essere eroi non problematici e che agivano in un mondo elementarmente diviso in buoni e cattivi, con inevitabile vittoria del bene che rappresentava la morale corrente e l’ideologia allora dominante, il tutto condito da qualche particolare per allora moderatamente piccante.

    Era nato così in Francia il romanzo d’appendice che dopo la metà Ottocento si diffuse rapidamente anche nell’Italia in via di acculturamento con esiti spesso fortunatissimi, affrontando per lo più argomenti patriottico-amorosi, ma senza disdegnare moralistici ritratti della nobiltà decadente e del popolo onesto come nell’ancor oggi godibile Il cappello del prete (1887) di Emilio De Marchi, pubblicato anonimo nel timore fosse un insuccesso e invece subito esaurito prima sul giornale milanese L’Italia, poi ripreso dal Corriere del mattino di Napoli e quindi l’anno seguente divenuto libro non più anonimo presso Treves, allora il maggior editore italiano. Ma bastava poco perché le cose non andassero bene e ne diede prova nientemeno che Luigi Pirandello che sulla neonata Fiera Letteraria pubblicò a puntate, tra il dicembre del 1925 e il giugno del 1926, il suo romanzo Uno, nessuno, centomila: il protagonista era troppo complicato per attirare numerosi lettori.

    Intanto però, per ribadire il rapporto tra i giornali e gli scrittori, era nata la terza pagina, apparsa la prima volta l’11 dicembre 1901 sul quotidiano di Roma Il Giornale d’Italia di Alberto Bergamini e divenuta nel giro di pochi anni una stabile istituzione della stampa quotidiana, aperta alle arti in genere e, in particolare, alla letteratura, rappresentata per lo più da un brano in prosa generalmente collocato nelle prime due colonne a sinistra che spesso venivano stampate, per distinguerle dagli altri articoli, con un carattere tipografico diverso che, chiamandosi elzeviro, finì per dare lo stesso nome alla prosa che riportava. Come già accaduto per il romanzo d’appendice, anche per l’elzeviro vennero stabiliti criteri generali più o meno espliciti e più o meno codificati che gli scrittori dovevano seguire, dando così vita ad un nuovo genere letterario, l’elzeviro appunto, che vivrà a lungo sulle pagine dei giornali italiani, con buon gradimento da parte dei lettori, soprattutto quando non si limitava, come accaduto al tempo della Ronda, a risultare un mero esercizio di bella scrittura. Si richiedeva agli autori degli elzeviri la capacità di scrivere una prosa vivace e non formale per raccontare una vicenda coinvolgente, commisurata all’esiguo spazio concesso dalla terza pagina e ai gusti dei lettori.

    Alcune precise indicazioni sui requisiti ottimali richiesti per i racconti da terza pagina, soprattutto negli anni Venti e Trenta, venero esposti proprio da alcuni dei più noti scrittori del tempo. Antonio Baldini, su I libri del giorno del novembre 1924, aveva sottolineato la necessità di un finale alla brava, di un certo effettaccio, mentre Mario Puccini, sul Resto del Carlino del 3 marzo 1937, riconosceva che dal giorno in cui lavoriamo per il giornale, abbiamo dovuto imparare ad essere brevi. Più lungo e articolato l’intervento di Carlo Linati (su L’Ambrosiano del 9 dicembre 1939) che, deprecati i raccontini centrati sulle esperienze personali e lo sfoggio per la bella scrittura, rilevava che il pubblico legge sul giornale subito la politica, le notizie dall’estero, la cronaca e i necrologi (oggi aggiungeremmo, e non per ultimo, lo sport), rimandando la lettura della terza pagina ad un eventuale successivo ritaglio di tempo, esortando allora lo scrittore a manovrare quelle sue 1500 parole in modo rapido, leggero, divertente in modo da offrire al frettoloso lettore l’oasi che desiderava. Linati poi proponeva alcuni suggerimenti strategici: "In genere, dopo la prima colonna, l’emozione del lettore tende a esaurirsi e bisogna che lo scrittore al momento giusto abbia la scaltrezza di dare, per così dire, una sterzata all’articolo e trovi qualcosa d’impensato e di nuovo. I direttori di giornali preferiscono la novella che ha una grande fortuna, quella di saper tenere desta l’attenzione del lettore con l’ansia del come andrà a finire. Ma non tutti sanno scrivere una novella di 1500 parole". Questa era infatti la nuova esigenza applicata ad un genere narrativo, la novella appunto, che nella nostra letteratura aveva solide tradizioni che risalivano alle sue origini: dall’anonimo Novellino di fine Duecento al Decameron (metà del Trecento) del Boccaccio e via via fino alle Novelle della Pescara (1902) di d’Annunzio e alle Novelle per un anno (1922) di Pirandello. A Linati replicò Aldo Camerino (Corriere Padano, 20 gennaio 1940) difendendo la dignità della prosa di terza pagina sia nel contesto del giornale, sia in rapporto al presente storico che si profilava ormai inquietante e si rivolgeva agli scrittori così esortandoli: Fate che, dopo la razione necessaria di guerre e disastri, dopo le notizie politiche e i saggi commenti e le novità del giorno, il lettore trovi uno svago, una breve fuga nelle parole ben pensate e ben dette di un vero scrittore. La letteratura è un bisogno naturale quanto gli altri. Che ce ne sia, di qualità e nata apposta per il giornale, è un bellissimo, utilissimo fatto.

    2. Non erano però molti gli scrittori italiani, per lo più inclini a una prosa ampiamente diluita nelle descrizioni dei luoghi (Quel ramo del lago di Como...) e dei personaggi (Renzo era, fin dall’adolescenza rimasto privo di parenti ed esercitava la professione di filatore di seta...) per dar vita a lunghi intrecci articolati e non lineari, capaci di offrire ai lettori dei giornali un’avvincente novella di 1500 parole che riuscisse a farli evadere dai problemi propri e del loro tempo. Quella lezione di brevità perorata da Mario Puccini non era facile da mettere in pratica da parte di scrittori abituati a raccontare diffusamente, ma era proprio questa qualità che occorreva per scrivere brevi novelle, come aveva richiesto Camerino, di scherzi dolci o amari, incontri con la sorte espressi con un rigore, una pulizia, una novità, un senso del vero e del fantastico lucidi e del tutto odierni. E tra i pochi interpreti più originali ed efficaci di questo nuovo genere di narrativa era apprezzato negli anni Trenta un appartato scrittore fiumano, Enrico Morovich, che dopo l’esordio (31 marzo 1929) sulla Fiera Letteraria con il racconto Il leprotto, dallo stesso anno divenne collaboratore tra i più assidui della prestigiosa rivista Solaria e di altri periodici fiorentini (la città italiana nella quale, vivendo a Fiume, aveva i maggiori contatti letterari) non meno importanti quali La Riforma Letteraria, L’orto e Rivoluzione, ma soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta era sempre più presente sulle terze pagine di numerosi quotidiani (L’Ambrosiano, Il Piccolo della sera, Il Messaggero) e dei più diffusi settimanali (Omnibus, Il Bertoldo, Il Selvaggio,

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