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La storia di Montesacro: Dalla Preistoria ai giorni nostri
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E-book395 pagine3 ore

La storia di Montesacro: Dalla Preistoria ai giorni nostri

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La Storia di Montesacro ripercorre tutte le epoche in un itinerario che incrocia figure e avvenimenti storici attraverso le pagine e le immagini originali che corredano il testo. Si parte dall’antico Ponte Nomentano, per poi incontrare i resti di epoche remote, la via Nomentana, l’Aniene, la torre Salaria.
Tra le numerose scoperte legate al quartiere: l’Uomo di Saccopastore, il più antico Neanderthal d’Europa, il primo “romano” abitante di Montesacro. Ma i secoli sono disseminati di storie molto particolari, come quella legata al nome Mons Sacer, la collinetta sulla riva destra dell’Aniene sulla quale si ritirò il popolo romano in quello che è considerato il primo sciopero della storia.
Un territorio, questo, segnato da molti passaggi cruciali della Storia nazionale. Montesacro ha rappresentato un avamposto importante per la Resistenza, 14 furono le vittime dei nazifascisti, quattro avevano meno di 20 anni. E poi la storia recente con il sequestro del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere a opera della banda della Magliana avvenuto in via della Marcigliana.
Qui, hanno vissuto nomi illustri del mondo dell’arte e dello spettacolo: Ennio Flaiano, Rino Gaetano, Peppino De Filippo e molti altri.
Il volume racconta momenti bui e luminosi della zona, e anche le pagine più difficili della nostra contemporaneità segnate dalla pandemia da Coronavirus.
Il libro è una passeggiata affascinante e sorprendente dalla preistoria a oggi tra le vicende e i protagonisti che, nei secoli, hanno segnato i luoghi che ritroviamo nella nostra vita quotidiana.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2021
ISBN9788836260553
La storia di Montesacro: Dalla Preistoria ai giorni nostri

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    Anteprima del libro

    La storia di Montesacro - Sara Fabrizi

    quotidiana.

    L’autore

    Sara Fabrizi (1992) vive a Roma. È laureata all’Università La Sapienza in Filologia Moderna. Ha lavorato come redattrice e coordinatrice editoriale per diverse case editrici. Ha collaborato all’organizzazione di molti festival letterari tra cui Parole in cammino. Festival della lingua italiana. Collabora con Typimedia dal 2017 e ha curato alcuni volumi di successo della collana La Storia di Roma: Appio-San Giovanni, Aurelio, Centocelle, Esquilino, Flaminio, Marconi-San Paolo, Montesacro, Monteverde, Nomentano, Ostia, Parioli, Prati, Tiburtino, Trieste-Salario, Tuscolano. È autrice del volume La Storia del Coronavirus a Roma, il racconto puntuale della pandemia nella Capitale e di come l’abbiamo affrontata. Con Matteo Pucciarelli ha scritto anche Comunisti d’Italia. 100 patrioti rossi che hanno costruito la democrazia.

    Prefazione

    Nel quadrante settentrionale di Roma, quello di Montesacro è certamente uno dei quartieri dove è necessario andare oltre le apparenze. Bisogna assolutamente farlo per capire quanta storia, e quanta umanità, siano passate da qui attraverso vicende che si perdono letteralmente nei tempi, fino a quelli più remoti da cui si origina l’appassionante racconto della nostra società. Un racconto che – superando snodi noti ma anche molto controversi – arriva fino ai giorni nostri.

    A chi vi capita per la prima volta, Montesacro dà quasi l’idea di un’altra città. Come un centro a sé, popoloso e frenetico, in cui zone fortemente disomogenee nell’architettura e nell’organizzazione urbanistica restituiscono un fragoroso, affascinante contrasto, e dove nei decenni passati la mano dell’uomo sembra aver seguito correnti di pensiero molto diverse tra loro, talvolta con risultati positivamente sorprendenti, altre volte con effetti meno memorabili, ma che – certamente – sotto il profilo della storia si portano dietro significati di non poco rilievo.

    Così, nell’attraversare questo grande centro urbano di oltre duecentomila abitanti (gli stessi di Trieste, qualcosa in più di Taranto o di Parma), la nostra passeggiata storica tra i quartieri della capitale ha conosciuto un’altra particolarissima realtà, con la conferma che Roma è realmente una galassia metropolitana di tanti pianeti diversi, ciascuno a suo modo unico e speciale. Una percezione, questa, che è ben più del risultato di sensazioni, bensì il prodotto di informazioni ed esperienze suffragate da dati e circostanze, e da pagine di meticolosa ricerca tra fatti, luoghi e – soprattutto – personaggi, molti dei quali davvero straordinari.

    Questo volume, curato come i precedenti (Trieste-Salario e Prati) da Sara Fabrizi con il coordinamento editoriale di Simona Dolce e con le immagini di Giada Patrizi, racconta quest’area di Roma che in buona parte oggi coincide con il III Municipio, ma che per ovvie ragioni socio-economiche, culturali e antropologiche si connette strettamente anche ad altre zone del quadrante settentrionale. Il dato di fondo è proprio quello di aver rappresentato nei secoli il fianco della capitale esposto a chi arrivava da nord, il che significa aver dovuto subire per primo molte delle invasioni e delle scorribande di nemici e aggressori che nei secoli si sono succeduti nel progetto di prendersi la Città Eterna.

    I resti preistorici rinvenuti sia a Montesacro che nel Trieste-Salario ci restituiscono immagini da Jurassic Park davvero emozionanti, e il primo capitolo meriterebbe probabilmente una ricostruzione filmica alla Spielberg, ma è dal periodo trattato successivamente – quindi dall’età romana in poi – che la storia si fa realmente… Storia.

    La vicenda di Nerone, con il suo suicidio nella villa di Faonte, in questa parte dell’allora centro dell’Impero, dà un’idea di quanto – già a quel tempo – quest’area romana entrasse nella Storia dall’ingresso principale, e più ancora un altro episodio che segnerà Montesacro come luogo planetario dei più alti ideali libertari: parliamo di quello sciopero della plebe che nei secoli successivi influenzerà il pensiero e le decisioni di uomini politici e d’azione come, per esempio, Simón Bolívar, il quale proprio sulla piccola sommità di Montesacro verrà a fare il suo solenne giuramento di liberare l’America Latina.

    Dieci capitoli che si leggono d’un fiato per ripercorrere la storia di un quartiere che tutti conoscono ma che a oggi è ancora fuori dai maggiori tradizionali tour culturali e turistici, ovviamente calamitati dalle classiche attrazioni artistiche, archeologiche di aree romane di indiscutibile valore e di altrettanta indiscutibile fama. Eppure, dalla preistoria ai giorni nostri, Montesacro è in grado di raccontare la sua specialissima versione della Storia, fatta di episodi spesso drammatici e talvolta illuminanti di determinati periodi della nostra società. Un quartiere da scoprire e da riscoprire, in quella che ci piace definire una passeggiata storica che dalla prima all’ultima pagina non smette mai di sorprendere.

    Luigi Carletti

    RESTI DI MAMMUTH SCOPERTI VICINO A ROMA, 1959. All’alba dei tempi a Montesacro si aggirano creature incredibili come elefanti preistorici, ippopotami, uri, rinoceronti, leoni. © Touring Club Italiano/Gestione Archivi Alinari

    CAPITOLO 1

    Il primo romano abitante di Montesacro

    1.1 Elefanti e ippopotami a bagno nell’Aniene e una tigre ai Prati Fiscali

    Montesacro: la frenesia contemporanea copre il passato e lo nasconde alla vista. Ma qui, tra villini e palazzi che sembrano parlare solo della Storia più recente, si traccia un itinerario che ha inizio quasi alle origini del mondo.

    Si viaggia indietro nel tempo fino a 250mila anni fa quando, tra via dei Prati Fiscali e le anse dell’Aniene, pascolavano elefanti e rinoceronti. Per tornare a quell’epoca lontana ci si inoltra nella Riserva naturale della Valle dell’Aniene, alla ricerca di paesaggi ormai cancellati e dimenticati. In questo luogo, passeggiando tra gli alberi, ascoltando il rumore dell’acqua che scorre, si può immaginare di ritrovarsi nella preistoria.

    VIA DEI PRATI FISCALI. Ai Prati Fiscali viene ritrovato parte del teschio di una panthera pardus, un leopardo preistorico che si aggirava anticamente per questa campagna.

    Si torna al Pleistocene, l’epoca geologica che si colloca tra 2,6 milioni di anni fa e 11mila anni fa. La natura regna incontrastata. Il Tevere e l’Aniene esistono già, anche se in forma preistorica, stretti tra i depositi vulcanici che, sedimentandosi, ostruiscono il passaggio e ne deviano il corso. I due fiumi devono scavarsi nuovi letti, trovare un’altra via per raggiungere il mare. Gli alberi crescono rigogliosi lungo le tante fonti d’acqua presenti: imponenti querce, frassini, carpini ma anche noccioli e agrifogli. Un paesaggio apparentemente ospitale, che cambia volto di continuo e nasconde i propri pericoli. Alla foresta talvolta si sostituiscono la steppa e i vasti paesaggi aperti, privi di vegetazione, frutto del clima arido dei periodi glaciali che si alternano lungo questo periodo. L’orizzonte è spesso oscurato dal fumo e dalla cenere che si sprigionano dai crateri dei Colli Albani e la lava si riversa copiosa lungo i fianchi dei vulcani. Forti terremoti scuotono la terra, in contemporanea alle eruzioni.

    RISERVA NATURALE VALLE DELL’ANIENE. La Riserva naturale dell’Aniene è il luogo perfetto per immergersi in una natura che possa rievocare paesaggi ormai perduti e dimenticati.

    Eppure, nonostante gli sconvolgimenti frequenti e l’instabilità di un mondo relativamente giovane, la vita fiorisce.

    Enormi elefanti si spostano in branco lungo le praterie circostanti e, all’ombra delle foreste che ricoprono la pianura, si contendono il cibo con gli altri erbivori che pullulano nell’area: cervi, buoi, rinoceronti. Hanno zanne lunghe fino a quattro metri, la testa è piccola e allungata, il corpo pesante spesso li condanna a una morte terribile: quando si inoltrano negli acquitrini per cercare i sali minerali, fondamentali per integrare la loro dieta, spesso rimangono impantanati e non riescono più a liberarsi. Nelle acque delle pozze e delle paludi che punteggiano il terreno si scorgono gli ippopotami, sprofondati nel fango, molto simili alle specie che vivono oggi nel continente africano. Nascosti tra l’erba, in agguato, leopardi dal manto maculato aspettano il momento propizio per aggredire le prede. Le iene attendono il proprio turno per cibarsi di quel che resta. Ci sono persino i bisonti con corna lunghe mezzo metro, pesanti diverse tonnellate, abituati a vivere in ampi spazi aperti. Sono gli stessi che compaiono in alcune pitture rupestri come quelle della grotta di Altamira, in Spagna. Sembra di fare un safari in Africa proprio qui dove scorre la quotidianità di molti, a due passi da quei luoghi che oggi si chiamano piazza Sempione e Ponte Nomentano.

    Tutte queste creature ormai estinte, di cui si conoscono, per ipotesi e ricostruzioni, le abitudini e l’aspetto, hanno lasciato tracce del proprio passaggio. Occorre soltanto sapere dove andarle a cercare. Una prima tappa è il Museo di Paleontologia della Sapienza, in piazzale Aldo Moro. Qui si conservano sotto vetro le risposte ad alcune domande sul passato di Montesacro. Tra i tanti reperti che affollano l’archivio si trova parte del cranio di una panthera pardus, un leopardo preistorico, etichettato sotto la dicitura Prati Fiscali: un’enorme zanna lascia presagire quanto potesse essere letale il proprietario di questa porzione di scheletro. Un maggior numero di tracce si trova, però, altrove.

    Quel che rimane della storia più remota di Montesacro va cercato anche in pieno centro a Roma, all’Istituto tecnico Leonardo Da Vinci di via Cavour 258. La scuola possiede una vasta collezione di reperti fossili, tra i quali ci si imbatte nella gigantesca difesa rinvenuta nella massa delle argille pleistoceniche del Monte Sacro a Roma. Quello che l’etichetta definisce, con linguaggio scientifico arcaico non del tutto comprensibile, non è altro che la lunghissima zanna di un elefante. Un antico abitante di Montesacro che condivide l’habitat naturale con un’altra creatura di cui, in questa raccolta, si trovano i resti: il bos primigenius o uro, il più antico antenato conosciuto dei tori e dei buoi odierni. Grandi corna ricurve in avanti, un corpo possente e di colore diverso a seconda del sesso: nero con una striscia più chiara lungo la spina dorsale, il maschio; di colore rossastro le femmine e i cuccioli. L’uro è una belva feroce, estremamente aggressiva, secondo le fonti. L’ultimo esemplare, una femmina, scomparirà in Polonia nel 1627, nonostante il tentativo di preservare la specie, limitando la caccia.

    Eppure l’uro, oggi, è forse una delle specie preistoriche più famose, di cui si è parlato anche su riviste e giornali. Durante il periodo nazista, infatti, i gerarchi del Terzo Reich affidarono a due fratelli, Heinz e Luz Heck, il compito di ricreare questa creatura quasi mitica, una sorta di toro ariano che avrebbe dovuto ripopolare le pianure della Germania. Attraverso incroci e ricombinazioni i due diedero vita al cosiddetto uro di Heck, una specie che, in parte, recuperava i caratteri dell’antenato. I discendenti dei tori creati con quello strano esperimento sono stati acquistati da un allevatore inglese che, però, nel 2015 ha dovuto fare i conti con la caratteristica fondamentale di queste creature: l’aggressività. L’indole selvatica li ha portati a cercare ripetutamente di uccidere lo staff dell’allevatore inglese, Derek Gow, che si è visto costretto a mandare al macello metà dei capi di bestiame, come riporta un articolo del Corriere della Sera datato al 6 gennaio 2015.

    Ma la creatura più incredibile che ha trasformato Montesacro nella propria casa è un’altra: un essere umano.

    1.2 In via Valdinievole, dove visse e morì l’uomo di Saccopastore

    Uscendo dalla Riserva naturale della Valle dell’Aniene che ancora oggi rievoca in parte, con i suoi spazi aperti, la natura incontaminata delle origini, ci si dirige verso via Valdinievole, una strada che si incunea tra alberi e palazzi e racconta una storia più antica di quel che può sembrare all’apparenza. Proprio in questa strada, come ricorda una targa in marmo posta sul muro, sorge il luogo in cui a inizio Novecento è emerso un reperto unico, che riporta all’epoca in cui, tra elefanti, rinoceronti e leopardi, anche l’uomo cerca di sopravvivere. Un uomo che sa già lavorare la pietra e procurarsi il cibo con la caccia e che, come gli altri animali, ha trovato qui, dove l’acqua e la vegetazione abbondano, un habitat estremamente favorevole.

    VIA VALDINIEVOLE. Nel 1929 la cava di Saccopastore consegna alla Storia un reperto straordinario: il cranio di quello che sarà chiamato Uomo di Saccopastore.

    In quest’area, fino agli anni ’30, si estende la tenuta di Saccopastore, che l’archeologo Antonio Nibby descrive come una piccola proprietà che si trova tre miglia fuori di Porta Pia presso il Ponte Lamentano.... Un appezzamento di terra buono per farci pascolare le pecore, niente di più, in apparenza.

    Fino al 1886 la tenuta è gestita dalla ditta Meluzzi che ne ricava l’argilla per produrre mattoni. Dal 1890, dopo il fallimento dell’azienda, è diventata una cava per l’estrazione di ghiaia. Il proprietario è il duca Mario Grazioli che ne ha affidato la conduzione al signor Vincenzo Casorri, uomo pratico ma anche colto. Durante i lavori, quasi quotidianamente, gli operai della cava rinvengono ossa, frammenti d’avorio, denti di animali. Tutti reperti curiosi che trovano spazio in un capanno, una sorta di collezione in continua espansione grazie ai ritrovamenti che si susseguono. È stato Casorri stesso a dare indicazioni perché quello che viene fuori dalla terra venga conservato e non gettato via. Tra aprile e maggio del 1929, però, mentre si sta procedendo a impiantare una nuova vigna, la punta del piccone colpisce qualcosa di molto duro. Scavando per rimuovere quella che credono una pietra, gli operai vedono emergere la forma inconfondibile di un teschio. Duro più di una roccia, integro nonostante i colpi ricevuti per smuoverlo da dove si trovava.

    Dalla cava il cranio arriva direttamente al Collegio Romano, sede dell’Istituto di Antropologia, tra le mani dell’antropologo Sergio Sergi. Lo ha fatto recapitare il duca Grazioli, appassionato di archeologia, che, appena informato del ritrovamento, ha individuato nell’amico Sergi la persona più adatta a studiare questo reperto. Il 13 maggio 1929, quando l’antropologo apre l’involucro entro il quale è stato avvolto il teschio e lo osserva da vicino capisce che sta guardando in volto un Neanderthal.

    Questa convinzione trova spazio nell’annuncio fatto ai colleghi della Società romana di antropologia il primo giugno dello stesso anno: Benché ancora ricoperto della ghiaia in cui era stato ritrovato, io riconobbi facilmente fin dal primo istante i caratteri del tipo di Neanderthal.

    L’emozione di Sergi è presto spiegata: nessuno ha mai trovato, in Italia, il cranio di un Neanderthal. Spesso utensili, pietre scheggiate, qualche osso frammentario, mai un teschio. Il cranio di Saccopastore è eccezionale anche perché, in realtà, non è esattamente uguale all’uomo preistorico ritrovato 73 anni prima, nel 1856, nella valle di Neader (da cui Neanderthal), vicino a Düsseldorf, in Germania. Quello ritrovato nel 1929 è un uomo con caratteristiche tutte sue, alcune più primitive, come la ridotta capacità cranica, altre appartenenti a un grado evolutivo più avanzato, come la forma delle ossa del volto. Non è l’uomo di Neanderthal, ma l’Uomo di Saccopastore. O meglio, la donna, poiché si tratta di un esemplare femminile. Presto, però, verrà trovato anche il suo compagno.

    Nonostante la scoperta eccezionale, la cava di Saccopastore, cessate le attività estrattive, cade nel dimenticatoio. Le acque dell’Aniene invadono il fondo e sulle scarpate comincia a crescere una fitta vegetazione selvatica. Nessuno sembra ricordare che qui, a ridosso di Montesacro, è stato ritrovato il primo cranio neandertaliano d’Italia.

    Eppure la mattina del 16 luglio 1935 qualcuno si aggira per la cava. Si tratta di due uomini, che sanno perfettamente dove si trovano. A guidare la piccola escursione è il barone Alberto Carlo Blanc, giovane nobile di origine savoiarda che ha ereditato dal padre non solo il titolo ma anche la spiccata propensione per gli studi paletnologici. Dietro di lui c’è l’abate Henri Breuil, esperto di arte preistorica tanto da venir chiamato il papa della preistoria, che sarà uno dei primi a visitare le grotte di Lascaux, in Francia. I due si trovano nella cava per raccogliere qualche testimonianza fossile e osservare un luogo che, per i loro interessi e studi, rappresenta una sorta di santuario, un luogo sacro dell’archeologia. Ma proprio mentre Blanc sta raccontando al collega come, anni prima, qui sia riaffiorato il famoso cranio, nota qualcosa sulla parete di una scarpata. Così Blanc descrive quel momento nello studio I paleantropi di Saccopastore e del Circeo: Mentre eravamo intenti a raccogliere i molluschi terricoli fossili che abbondano in un livello di limo d’inondazione [...] avemmo la straordinaria ventura di scoprire un secondo cranio neandertaliano, a metà demolito, che affiorava, forse da mesi, sulla parete, ancora parzialmente incluso nel limo indurito e nella ghiaia.

    Il ritrovamento di due crani nello stesso sito fa sì che l’Istituto italiano di Paleontologia umana si interessi alla zona, avviando – nel 1936 – una campagna di scavi nell’area. Dallo stesso livello stratigrafico emergono i fossili di mammiferi estinti come l’asino europeo e l’uro, schegge di selce lavorata, resti di flora che permettono di farsi un’idea dell’antico ambiente in cui l’Uomo di Saccopastore è vissuto e poi scomparso: un paesaggio di boschi e pianure, con una vegetazione mista. Un tipo di natura molto simile a quella che si trova ancora oggi in Italia a circa 800 metri sopra il livello del mare.

    Ma anche l’interesse acceso dalla coppia di Saccopastore (Saccopastore I e Saccopastore II, secondo una classificazione che lascia ben poco all’immaginazione) si spegne presto.

    Il 9 gennaio 1942, un titolo di giornale richiama l’attenzione di chi ha sentito parlare di questa cava ai margini della città. Su Il Giornale d’Italia un articolo – Una zona che deve essere protetta. Saccopastore e la storia di tre crani vorrebbe spingere alla conservazione dell’area. Ma il valore storico e culturale del sito archeologico nulla può contro le esigenze dei tempi. Su Roma cadono le bombe della Seconda Guerra Mondiale, arriva l’occupazione nazista, poi la Resistenza, infine la Liberazione. Quando si lotta per sopravvivere, difficilmente il pensiero può andare a un paio di teschi preistorici. E quando, finalmente, si comincia a ricostruire, Saccopastore diventa un quartiere fatto di vie e palazzi, come altrove, dove l’unica eco del passato è in via Valdinievole: una targa, un labile spunto per ricostruire la storia dell’umanità.

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