Cocincina: Il vizio di perdere duro
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Perché di folli come lui è difficile trovarne. "Solo chi ha conosciuto davvero il tradimento capisce da cosa nasce la necessità di giocare violento, giocare a perdere per far passare la notte, ammalarsi di vizi pigri per poter poi disporre di quell'uscita ripostiglio che è la dichiarazione pubblica di nuova vita". Con questa sorta di vademecum sgangherato a tinte esistenziali siamo di fronte a un tipo di narrativa difficilmente imbrigliabile nei canoni di un genere letterario specifico – sia esso un romanzo o un racconto breve – né tantomeno nella trama razionale e coerente di una storia dotata di un inizio, di uno sviluppo e di una fine catartica, o peggio ancora, retorica.
Chi legge capirà ben presto di non avere scampo; sarà costretto a cambiare più volte strada, barcamenandosi tra sterzate repentine verso dialoghi surreali con personaggi improbabili e alle volte osceni. Non riuscirà a svoltare l'angolo senza essere catapultato in salti temporali iperbolici – per non dire anacronismi voluti – degni dei più sordidi diari intimi e impronunciabili di un impenitente non immune alle uniche malattie che l'abbiano mai afflitto: i dischi, il basso elettrico e quella ipnotica concatenazione di impulsi e vibrazioni chiamata musica.
I 25 capitoli del libro sono racconti tra di loro slegati solo in apparenza; chiunque è chiamato infatti a maneggiarli come pezzi di un puzzle privo di una immagine definita. Essi scorrono come fotogrammi sparsi di un flusso di coscienza interrotto solo dalla vita rincorsa senza compromessi da un uomo che rifiuta di sottoporsi a qualsiasi anestesia. Un affamato di glorie mancate votato a difendere strenuamente ogni barlume di coscienza e lucidità perennemente fraintese, in un gioco votato al massacro.
Daniele Malvestiti è sì un perdente, ma solo a patto di seguire le sue di regole, anche se in una città come Napoli che già detta le proprie e senza alcuna pietà. Arrivato quasi ai cinquanta e privo di un'occupazione fissa, quest'uomo dall'anima sospesa, senza tempo, percorre il mondo e le sue occasionali geografie affettive con addosso l'adrenalina del rischio e il gusto della sconfitta. La sua veemente necessità di essere messo alla prova si traduce nel suo amore per l'heavy metal degli anni ottanta, nelle sue diramazioni minori e meno generaliste. I dischi di quell'epoca diventano così obiettivi di momentanea redenzione; intervalli in un percorso costellato di difficoltà pratiche; fraintendimenti relazionali, voglie spietate e condotte di sponda, in una onesta vocazione a perdere che si richiama al cinema esistenziale e invernale di Valerio Zurlini come all'estetica da loser selvaggio di un Lemmy Kilmister dalle apparenze ripulite.
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Anteprima del libro
Cocincina - Luca De Pasquale
Luca De Pasquale
COCINCINA
IL VIZIO DI PERDERE DURO
Racconti di fughe, ossessioni musicali e memorie dei luoghi dell’abbandono senza tempo.
Dedicato a Martin Eric Ain, che il ghiaccio celtico ti sia lieve.
Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento.
Beppe Fenoglio
I
L’odore dei negozi di dischi metal negli anni ottanta
All’inizio degli anni ottanta trovare un negozio di dischi specializzato in metal a Napoli era quasi un’impresa titanica. Una chimera.
Io muovevo i miei primi passi musicali, perso dietro una religione ancora confusa, fatta di pomeriggi trascorsi ad ascoltare massivamente Judas Priest, Iron Maiden, Saxon, i primi Scorpions, Ozzy, Motörhead, Accept e Kiss.
Al ginnasio, nella mia classe c’era solo un ragazzo che ascoltava heavy metal come me. Lui, però, era decisamente più fortunato: poteva infatti contare su una paghetta mille volte più lauta della mia. Per non parlare di suo fratello maggiore, un fighettone dall’aspetto svedese, bassista in una band.
Così, finì che il compagno di classe iniziò a vendermi delle cassette registrate (ricordo ancora: delle Maxell 90 bianche e blu) che mi spacciava per rarissimi bootleg. Mi feci proprio spennare per bene. Ero sprovveduto, ingenuo e voglioso di conoscere. E poi non avrei mai potuto immaginare che un ricco volesse fottere un povero: ne avevo di strada da fare, in questo senso.
Poi, a un tratto, capii che quel ragazzo mi stava gabbando alla grande, reo di arricchire con i miei soldi – sudatissimi e frutto di varie ramanzine paterne – il suo già invidiabile patrimonio di vinili metal.
Un giorno andai da lui e glielo dissi: «Tu mi stai fottendo».
Lui negò. Ma non me ne diedi per inteso, e ci mandammo reciprocamente affanculo.
Così presi a girare da solo, in cerca di negozi specializzati; e ne trovai uno a Via Crispi, per puro caso, accompagnando mio padre al lavoro.
Ci andai con un certo entusiasmo, tanto da chiedere a un mio compagno defender di allora, di venire con me. Ma persino in quell’occasione non mi fu risparmiata qualche delusione di troppo. Non ero certo un metallaro nell’aspetto, io, che sfoggiavo incurante un capello riccio senza tempo (né senso), un giubbotto evidentemente scelto dai miei genitori, dal gusto elegante, antiquato. Non esibivo nessuna toppa, nessuna maglietta con mostri, demoni, valchirie dotate di lame e tombe etrusche stilizzate. Non ero assolutamente metal nel modo di presentarmi, a tal punto che le mie evidenti lacune formali
mi attirarono contro la saccente stigmatizzazione del mio accompagnatore/mentore, il quale prima di entrare da Godzilla, senza indugiare in perifrasi, mi intimò: «Non dire cose che non sai, non emettere giudizi, non tentare comparazioni. Fai parlare me».
Penso sia stata l’ultima volta in assoluto che abbia mai permesso a qualcuno di parlarmi in quel modo. Ma il mio silenzio aveva poco a che fare con l’assenso. Lo dimostrai immediatamente quando una volta nel negozio, ignorando le raccomandazioni dell’ingenuo compagnuccio, osai dire che mi piacevano più gli Attacker degli Exciter. Non solo. Mi azzardai perfino a sostenere che Blackie Lawless degli W.A.S.P. era un grande bassista, come del resto Mel Sanchez degli Abattoir. Alle mie esternazioni, a dir poco imprudenti, Auro replicò con uno sguardo palesemente carico di odio, supponenza e spocchia in anticipo sui tempi.
Il risultato ovvio fu che persi tanto la sua compagnia quanto un po’ del mio iniziale entusiasmo, non tanto verso la musica dura – ero troppo preso per farmi scoraggiare anche su quello – ma sull’idea di poter contare su una frangia di amici con i miei stessi gusti musicali. Tornai altre volte a via Crispi, l’ultima in assoluto per seguire un’altra mia fissa minoritaria, quella per i Lääz Rockit. Sin d’allora – sindrome trasversale che non mi ha più abbandonato – non mi contentavo dei nomi più gettonati e in vista.
In seguito, con un colpo di fortuna insperato, stavolta accompagnando mia madre a cambiare delle scarpe, scovai un negozio che si trovava al Vomero. Non era specializzato in hard’n’heavy, ma ben fornito. Trovai gli Slayer, scoprii gli Armored Saint – che sono tuttora un mio punto fermo – con Quartz, Jaguar e Samson mi battezzai di NWOBHM – che in tutta evidenza legavo solo ai Maiden – poi comprai i canadesi Sword, gli svedesi 220 Volt, un vinile dei Paganini, Live In Canada dei mitici Starz, i francesi H-Bomb. Acquisti confusi, che però, in una logica stramba per quanto efficace, diedero il via ad approfondimenti più lucidi e canonici. Dopo due anni di caotiche sbandate e qualche perdonabile cantonata, presi la mia strada. Mi resi conto che giravo attorno a speed, power e thrash metal. Gli Slayer diventarono la mia band chiave, e per lungo tempo dominarono il mio cuore, prima dell’avvento dei Queensrÿche, i quali, come ho avuto più volte modo di ammettere, mi sconvolsero profondamente.
Ricordo quel periodo con grande nostalgia.
Quei piccoli negozi metal avevano un odore particolarissimo, diverso dagli altri negozi di dischi. Il profumo del vinile misto a quel giusto di muffa e umidità; l’atmosfera da cripta iniziatica, da abbazia sconsacrata, ma anche la solidarietà cameratesca tra appassionati alla quale non ebbi accesso per un deciso individualismo e per il naturale compimento di uno spirito solitario. Quelle caratteristiche erano uniche.
Prendevi in mano un vinile impolverato dei Cirith Ungol e ti sentivi una specie di eroe dei due mondi, un individuo unico e illuminato. Non bastavano i compagnucci sapientissimi a farti tornare quello che eri fino a poco tempo prima, e cioè un volenteroso adolescente alle prime schermaglie cognitive. L’istinto della ricerca sarebbe prevalso per sempre.
In un pomeriggio di pioggia acquistai Keeper of the seven keys degli Helloween e, finalmente, Hell awaits degli Slayer. Forse era il 1987. Quell’album sarebbe diventato rapidamente uno dei miei dischi ossessione. Era potentissimo, esoterico ed energetico oltre ogni livello.
Mi sentii felice quel pomeriggio. A scuola andavo malissimo, mi salvava sempre e solo l’italiano, ma avevo iniziato a fumare, a darmi arie da grande. Dedicavo idealmente alle ragazze le rare ballate dei miei gruppi metal. Ero pronto a innamorarmi. I miei genitori stavano bene. Le ristrettezze economiche erano solo uno spauracchio lontano, perché vivevamo a fitto bloccato in un bell’appartamento, vecchiotto ma affascinante. Cominciavo a scrivere i miei primi racconti, che risentivano di suggestioni caotiche, da Powerslave dei Maiden a Bukowski, da Strindberg al neoclassicismo virtuosistico di Malmsteen. Avevo deciso: sarei diventato uno scrittore.
Come la storia ha poi certificato, sono diventato un venditore di dischi.
Quando ho iniziato la professione, ero quasi trentenne e la mia conoscenza del rock e del metal era ormai consolidata, però mi dissi che non potevo ricalcare i comportamenti di persone come Auro, quel tipo di sapientoni convinti di aver creato un magistero intoccabile e incontestabile di nozioni ed esperienze in materia.
E così, se e quando un ragazzino mi entrava in negozio e mi sparava la sentenza John Petrucci è il più grande chitarrista di ogni tempo ed era
, io mi limitavo a sorridere. E poi decidevo, sempre con buona grazia e fare paterno, se era il caso di introdurgli Randy Rhoads, Ritchie Blackmore, Chris DeGarmo o Michael Schenker. A seconda delle sue inclinazioni, che era mio compito intercettare. Senza smontarlo, senza demolire le sue scarne e autoreferenziali certezze, tipiche dell’età.
Purtroppo, noto che anche nel giornalismo musicale specializzato sono ancora presenti fenomeni di vero e proprio superomismo nozionistico, che non portano a nulla di concreto, né di utile. Un incazzoso mentore che si tira arie da onnisciente avrà pure i suoi discepoli, ma saranno in parecchi gli adolescenti che sapranno fare a meno di lui e delle sue arie da Weimar o Iperuranio del metal. Sembra sia davvero difficile uscire dall’acquitrino sempre ridondante di sentenze e liste di proscrizione. E con l’età spesso si finisce per peggiorare pure.
Mi mancano quei pomeriggi piovosi, zeppi di luci al neon e di pioggia del sud, trascorsi a scartabellare nevroticamente vinili che non avrei mai trovato in un negozio normale
. Mi manca la spensieratezza di quegli anni, la follia consapevole di spendersi l’intera paghetta in dischi. Mi manca addirittura il confronto pretestuoso e un po’ inquietante con i supponenti/supposti confratelli di ascolto.
Mi manca quella suggestione chiara, costituita dall’odore dei vinili, dall’insegna del negozio accesa alle prime luci della sera e io costretto a scegliere tra quattro LP con ore e ore di indecisioni e inversioni di parere. Mi manca il ritorno a casa con la busta contenente il prezioso disco e parte dei miei sogni, destinati, come quegli anni, a scomporsi nel magma distraente della crescita involontaria.
Ho dovuto più volte vendere, per stati di necessità improvvisi, le mie collezioni di vinili e cd metal. Cerco di non pensarci spesso, come del resto a molte situazioni simili. Purtroppo le mie capacità mnemoniche mi impediscono di rimuovere i preziosi 7’’