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Anima da spremere
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E-book476 pagine7 ore

Anima da spremere

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Info su questo ebook

I Red Hot Chili Peppers nella loro carriera si sono af?dati all'estro di una decina di chitarristi, ma solo di uno ne hanno atteso il ritorno per ben due volte: John Frusciante. Un performer atipico, che ha fatto della sua innocente curiosità una ragione di vita artistica, trainante per la sua carriera e per quella dell'intera band, che ne fu condizionata anche nei periodi in cui il musicista era assente. Il libro racconta dettagliatamente il percorso individuale dell'artista, ma anche le ragioni che hanno reso speciale uno dei sodalizi più importanti degli ultimi quarant'anni della storia del rock. Le alchimie, le incomprensioni gli album e i concerti che hanno segnato la vita artistica di Frusciante, sia come solista sia come componente della formazione californiana.

 
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2021
ISBN9791280133588
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    Anteprima del libro

    Anima da spremere - Federico Francesco Falco

    T-shirt]

    Prefazione

    Jack Frusciante è uscito dal gruppo fu (ed è tuttora) uno straordinario bestseller del 1994 a firma di Enrico Brizzi, uno scrittore esordiente di vent’anni che, in poco più di centocinquanta pagine, racchiuse pensieri, inquietudini e speranze di una generazione intera. Quel Jack era un nome fittizio per evitare problemi con i diritti d’autore, in realtà il riferimento era a John, a quello che il chitarrista dei Red Hot Chili Peppers aveva fatto una mattina di maggio di un paio di anni prima. Fermando una giostra mediatica che gli imponeva un sogno di esibirsi ogni sera dinnanzi a diecimila o più spettatori: a tutto ciò aveva preferito un salto fuori dal cerchio, appunto. Le vicende di tutto il libro di Brizzi inseguono questa morale, la voglia e la paura di uscire fuori da schemi che sembrano predefiniti. È buffo pensare che un libro che racchiude la filosofia di vita del chitarrista sia però diventato, per anni e forse anche oggi, la maggiore causa per cui spesso il suo nome viene storpiato nella nostra penisola. In Italia la popolarità di Jack (ovvero di tale romanzo) a volte ha scavalcato la notorietà di John (il chitarrista), generando non di rado confusioni tra addetti ai lavori e non. Probabilmente senza drammi per Frusciante, che non ha mai usato la popolarità come fine ultimo, anzi, semmai a volte se n’è sentito schiavo. Al punto da negarsi anche più di una volta a quei riflettori. Questo atteggiamento ha influenzato in maniera marcata l’intera carriera dei Red Hot Chili Peppers, la band che adorava da adolescente e in cui riuscì ad entrare in maniera rocambolesca. Qualcuno definirebbe già questo evento come il coronamento di una favola ideale, il film perfetto che ogni musicista agli esordi si augura. Quello che accadde dopo, però, ha pochi eguali nella storia della musica. È un rapporto imprevedibile, fatto di colpi di scena e momenti musicali intensi. Un cammino che arricchirà la discografia di entrambi, nelle maniere che cercherò di dimostrare attraverso lo scorrere delle pagine.

    È importante specificare che non intendo assolutamente definire questo volume una biografia completa ed esaustiva, anzi uno dei principi fondamentali alla base di questa ricerca, durata otto anni, è che sia impossibile stabilire con certezza quale sia la realtà oggettiva. Quando tentiamo di ricostruire il passato di eventi, ci si trova facilmente di fronte a una raccolta di versioni di verità: personali e a volte in contraddizione tra loro. In quel caso la cosa più giusta da fare è riportare la ricostruzione più plausibile, traendola dalle fonti più affidabili a nostra disposizione e facendo in modo che il lettore si possa formare la propria opinione senza indurlo dove vuole l’autore. La narrazione, inoltre, propende in maniera decisa verso l’analisi della musica e delle riflessioni concepite dal chitarrista nella sua carriera ultratrentennale, a scapito di dettagli della vita privata o familiare che non avrebbe senso riportare in queste righe. In parole povere, la percentuale di gossip presente in questo volume è davvero scarsa, persino i dettagli in merito ai suoi periodi più bui sono per lo più frutto di dichiarazioni rilasciate dai suoi stretti conoscenti in interviste o libri editi per lo più fuori dal territorio italiano, smitizzando alcune leggende metropolitane a riguardo e tenendosi alla larga da percorsi che non contestualizzano la sua produzione musicale di tale periodo. Allo stesso modo, questo volume tratta ampiamente la musica e la storia dei Red Hot Chili Peppers, ma si focalizza soprattutto sugli eventi precedenti e contemporanei alla presenza di John Frusciante nel nucleo. Perché il libro ha lui e il suo rapporto con la band come tema principale e così si comporta durante la narrazione dei punti di vista delle vicende, songwriting delle canzoni e specifici dettagli sui momenti che hanno segnato la storia del rock. Logicamente vengono discussi anche gli eventi che hanno portato alla realizzazione di One Hot Minute, così come viene descritta la decade con Josh Klinghoffer, ma le nozioni sono state un po’ sintetizzate, al fine di non perdere di vista gli scopi del volume.

    Per favorire una qualità di dati più ricca, mi sono avvalso di interviste e dichiarazioni specifiche rilasciate da alcuni collaboratori di Frusciante: dai musicisti di alcuni suoi album fino a registi o designer di artwork che hanno un po’ contribuito a definire la sua immagine mediatica negli anni. Allo stesso tempo però, non ho cercato espressamente contatti diretti con lo stesso John: chi già conosce abbastanza bene l’atteggiamento che il musicista ha con certe situazioni mediatiche avrà già capito il motivo; agli altri basterà proseguire nella lettura di queste pagine.

    Oltre all’intensa attività coi Red Hot Chili Peppers, troverete una generosa porzione di libro dedicata al percorso solista di Frusciante, alle vagonate di collaborazioni (ufficiali e meno) e alle rarità donate a costo zero ai fan che, a volte, superavano per qualità alcuni prodotti che finivano nello scaffale del negozio. Un approccio di analisi di questo tipo non ha mai ricevuto una pubblicazione approfondita, né in Italia (ricordo però uno special de Il Mucchio di una quindicina di pagine nel 2004, con tanto di copertina dedicata) né tantomeno all’estero. Considerando inoltre che, nella nostra penisola, l’ultima biografia sulla band è stata tradotta oltre sedici anni fa, c’è una porzione del cammino artistico del periodo con John che non è mai stato analizzato nel dettaglio in nessun tomo. Per quanto oggi si faccia molto affidamento all’informazione online, il rovescio della medaglia è che molte delle fonti tendono a sparire: i siti web chiudono e le community emigrano in nuovi social network. Durante questi anni in cui ho lavorato al libro, ne ho avuto la dimostrazione pratica: vedendo dissolversi alcune fonti storiche sull’artista che credevo oramai immortali. E credo sia importante preservare un simile e prezioso bagaglio di informazioni che un giorno potrebbero trovarsi sepolte da un 404 file not found.

    Questo libro è anche per chi ora si sta domandando se il musicista abbia letto quel libro di Brizzi oppure no, la risposta è nascosta all’interno di queste pagine. Mi auguro in generale che tutte queste righe possano soddisfare diversi altri quesiti che da anni vengono formulati a proposito dell’artista, ma che ve ne faccia porre anche di nuovi a cui questo inchiostro non saprà rispondere (almeno direttamente). Perché, a mio parere, il bello dell’espressione artistica risiede anche nell’incognita, in un qualcosa che non dai mai completamente per scontato, che ti spinge a rimettere quel vinile sul piatto dopo vent’anni e ti fa imparare qualcosa che ti era precedentemente sfuggito. E ciò nei dischi dell’artista capita ancora spesso, ed è forse anche per questo che alcuni sono venduti da collezionisti a cifre esorbitanti.

    Questo libro è sui Red Hot Chili Peppers e Frusciante, sia che voi lo chiamiate ancora Jack, o già John.

    Capitolo 1

    I primi passi di John

    (1970-1988)

    Sono entrato nello showbiz che avevo diciotto anni, non ho mai avuto un lavoro che non fosse falciare l’erba per mio nonno, spazzare i ciottoli dal marciapiede e dare da mangiare ai cavalli o cose così. Questi sono stati i miei unici impieghi prima di entrare nei Red Hot Chili Peppers.

    (John Frusciante. Vice, Aprile 2016)

    Il primo ricordo musicale di John junior è un brano di Cat Stevens che ascoltò per caso nel soggiorno dei vicini di casa a luce soffusa. Capì subito che la musica era qualcosa di speciale, capace di cambiare l’atmosfera che lo circondava, rilassandogli l’anima.

    John Anthony Frusciante Jr. discendeva da una famiglia di italiani emigrati in America, a New York, in cerca di fortuna negli anni della grande guerra. Il suo bisnonno Generoso Frusciante veniva da Apice, in provincia di Benevento, e iniziò esibendosi con mandolino e violino nei ristoranti. Una tradizione musicale che sembrava scorrere nelle vene da generazioni: il padre di John, laureato in legge, aveva studiato pianoforte alla Julliard School of Music di Manhattan e si era esibito per qualche anno come concertista con un repertorio che variava da Chopin a Beethoven, ma problemi di salute lo indussero a lasciare i concerti e a dedicarsi all’attività di avvocato. Visse nel quartiere Queens, il più multietnico di New York, assieme alla moglie Gail. Anche lei musicista, si accontentò di cantare nel coro della chiesa per essere più vicina alle esigenze e alle cure della famiglia che successivamente si trasferì a Tuscon, in Arizona. Aveva sei anni John quando gli regalarono una compilation di rock and roll anni Cinquanta. Conteneva Louie Louie nella versione dei The Kingsmen. E lui si scatenava con i suoi genitori ogni volta che l’ascoltava. Una svolta.

    Quello stesso anno però i genitori divorziarono e John si trasferì a Santa Monica con la madre.

    Non dichiarerà mai, nonostante questo, di avere avuto un’infanzia triste ma semplicemente di aver accumulato piccole dosi di disagio in momenti isolati.

    A sette anni, ascoltando alcuni LP collezionati dai genitori, iniziò ad appassionarsi al progressive rock. Due album principalmente catturarono la sua attenzione: Trilogy degli Emerson, Lake & Palmer e Fragile degli Yes. Non sapeva come inquadrarli, ma sentiva che quella musica era veramente diversa da tutto quello che aveva ascoltato fino a quel momento. Toccò poi ai King Crimson, Pink Floyd e Genesis.

    Non era solo il fascino della musica inglese a suggestionarlo, ma il fatto che il progressive rappresentasse un elemento di rottura dagli schemi del sound del decennio precedente. Nonostante il suo primo disco acquistato sarà Alive dei Kiss, non sorprende che la successiva infatuazione giovanile riguardò il punk e l’hardcore, anche per i valori etico-morali che quei generi incarnavano e che lui condivideva. Nei Ramones e The Clash trovò quella integrità musicale che stava cercando, considerando oramai i suoi vecchi amori musicali come venduti all’industria. La radio di Los Angeles Krqq trasmetteva un programma condotto da Rodney Bingenheimer: Rodney on the Roq. L’obiettivo del programma era svecchiare il panorama musicale americano e promuovere le ultime novità punk rock come la nascente new wave e il glam rock. Bingenheimer divenne una sorta di talent scout di band dell’airplay nazionale. Sul suo piatto passavano persino demo-tape. Non importava che materiale avesse a disposizione la band che voleva presentare, lui l’avrebbe mandato in onda ugualmente e il piccolo John sarebbe stato pronto a catturare su audiocassetta i brani che più lo colpivano, eludendo anche la sorveglianza della madre che lo voleva a letto a una certa ora. Il Dj fu anche il primo a passare gruppi poi divenuti veri mostri sacri come B-52, Devo e Ramones.

    Nell’intervista bonus sulla versione giapponese del documentario Too Tough to Die: a Tribute to Johnny Ramone, Frusciante racconta di aver sentito per la prima volta la loro Beat on the Brat quando aveva nove anni e di averla trovata speciale, divertente, semplice e molto figa. Narra poi di essersi recato in un negozio di dischi di Santa Monica con un barattolo di monete tra le mani: conteneva i tre dollari e novantanove cent messi da parte per acquistare l’album che conteneva quella canzone. È sicuramente buffo immaginare questo ragazzino, che probabilmente non arrivava al bancone del negozio, farsi strada tra freak e punkettoni e portarsi a casa Leave Home, il secondo disco dei Ramones. Successivamente cercò anche l’omonimo album della band, senza successo, e ripiegò così su Rocket to Russia, End Of Century e così via. Questa fu probabilmente la sua prima vera infatuazione discografica.

    Sempre alla stessa età, inizia ad assistere ad alcuni concerti. Il primo, quasi per caso, è quello di Martha and the Muffins al Whiskey a Go Go a West Hollywood, in bagno incrocia un punk con la pettinatura da moicano e inizia a essere affascinato da quell’estetica così sfrontata, così diversa dall’ordinario. Mesi dopo convincerà i parenti ad andare a vedere i The B-52s, ma il vero secondo passo verso coordinate musicali un po’ ispide, ma più accessibili tecnicamente, furono i The Germs. La formazione losangelina, che attraversò la storia della musica come una meteora per appena tre anni, fu quella che scosse la creatività di John. Il loro era un hardcore seminale e assai grezzo ma aveva l’effetto di rilassarlo. Prima di ascoltare la loro musica, Frusciante sentiva un insieme di confusione e rabbia che non sapeva gestire. Il loro album (Gi) creò una sorta di connessione con la parte più sensibile della sua personalità. Tentò di farlo ascoltare ai suoi amici, ma non piacque a nessuno, anzi alcuni si allontanarono inorriditi. Una reazione che Frusciante non riusciva a comprendere perché quell’album, per lui, era dotato di una marcata sensibilità e una spiccata femminilità. Leggeva quei testi come fossero poesie.

    Appena trasferitosi in California, dove gli avevano regalato una chitarra acustica che era appartenuta al nonno, ebbe la possibilità di ammirare dal vivo i suoi miti d’infanzia: Led Zeppelin, Kiss e Aerosmith. Guardando il palco provava la sensazione che quei musicisti fossero degli dei, non persone umane. Il complesso stile di Jimmy Page tendeva a scoraggiare i suoi primi tentativi alla chitarra. Aveva la sensazione di essere distante anni luce da quel traguardo fatto di assoli tecnici e riff monumentali.

    Già all’età di otto anni si rendeva conto di avere una musica nella sua mente, sonorità che non riusciva a riprodurre per mancanza di mezzi, però già era lì per lui, in attesa che imparasse. Prese anche le prime lezioni di chitarra, restando però sempre un po’ inibito per le ragioni appena dette e aggravate dal fatto che il suo maestro non fu in grado di spiegargli l’assolo di Starway To Heaven. Decise quindi di fermarsi e riprese seriamente solo verso gli undici anni, attraverso la semplicità dei brani a tre accordi che stava imparando ad amare ascoltando Krqq.

    John raccontò a Brendan Mullen di essersi orientato verso band come X, Circle of Jerks, Wasted Youth e Adolescents proprio in questo periodo (L’hardcore della west coast era la musica fatta e destinata a noi teenager). Riprese a suonare come valvola di sfogo. Scrisse, per esempio, in una sola volta una trentina di composizioni di scherno in quarantacinque minuti di audiocassetta, per sfogare le sue frustrazioni in ambito sportivo. La prima si chiamava Fuck You José ed era dedicata al suo coach, reo di averlo trattato male. Altri brani erano contro due compagni di scuola. Passò unʼintera finale di baseball da esterno destro, continuando a creare canzoncine di sfottò su quanto fosse odioso il lanciatore che aveva di fronte. John amava le attività sportive, ma, non possedendo spirito di competizione, giocava per divertirsi. I tornei scolastici lo mettevano però solo di fronte a gare agonistiche, in cui puntualmente falliva. La frustrazione che ne derivava riusciva a incanalarla scrivendo canzoni. In questo iniziava a sentirsi compreso, come se stesse sviluppando una maniera di comunicare attraverso la musica concetti e sensazioni che non avevano equivalenti nel dizionario.

    Fino all’età di undici anni vedeva per sé un futuro da skateboarder professionista, si recava ogni weekend al Marina Skate Park di Santa Monica, sia per esercitarsi che per ascoltare i ragazzi più grandi parlare di musica e prendere nota delle band che ancora non conosceva, finché non chiusero la pista. A rincuorarlo ci furono i primi amici con gusti musicali simili, incontrati in uno dei negozi della catena alimentari Mrs Gooch. Finalmente c’era qualcuno che non lo considerava un alieno quando faceva ascoltare certi album, nonostante tutti questi nuovi amici avessero quasi il doppio della sua età e lui fosse impossibilitato ad andare ai concerti punk assieme a loro ("saltare in mezzo al pogo, perdere le inibizioni e ballare mi sembrava qualcosa di figo, ma a mia madre un po’ meno").

    Un altro paio di episodi simili fecero comprendere alla sua famiglia quanto la sua strada artistica si stava lentamente disegnando. Un giorno, recandosi al centro commerciale, il ragazzo restò affascinato da una rivista che ritraeva i musicisti dei Sex Pistols Johnny Rotten e Sid Vicious seduti sulla pedana di una batteria, con il secondo a torso nudo e imbrattato di sangue. A quel punto chiese alla nonna che era con lui il dollaro e venticinque necessari per acquistarla, lasciandola visibilmente perplessa. Nello stesso periodo, provò a convincere i suoi parenti a comprargli una chitarra elettrica, suonando per intero il loro Never mind the Bullocks con la sua vecchia acustica. Verso gli undici anni ebbe il primo e rudimentale approccio con una band attraverso un suo compagno di scuola di nome Mandi. Iniziò quindi a esibirsi per amici, senza troppe pressioni, mangiando sandwich nelle pause.

    Eseguivano sempre un repertorio che guardava all’hardcore/punk, soprattutto ai Black Flag, altra sua cotta adolescenziale. Il primo suo tentativo di assolo lo si deve alla versione live di Revenge (dalla colonna sonora di Decline of Western Civilization). Risultato deludente per le difficoltà insite in quell’esecuzione piuttosto noise, che si avvaleva di un uso delle distorsioni piuttosto massiccio. Intanto le ore che passava con quello strumento a sei corde aumentavano in maniera esponenziale.

    A dodici anni si trasferì a Valley (San Francisco). Un posto tranquillo, forse fin troppo per la curiosità e le sue aspirazioni, ma che sfruttò per approfondire il suo studio della chitarra, suonando anche per quindici ore al giorno e diversificando il suo stile. La musica piano piano inglobò il tempo che fino a quel periodo dedicava a tutti gli altri hobby: i videogames, il cinema (amava registi come David Lynch, Woody Allen, John Waters e Stanley Kubrick) e i libri di filosofia (era interessato a Schopenhauer). Conoscendolo, non è difficile figurarselo rintanato nella sua cameretta ad ascoltare musica, riprodurla con un registratore a quattro piste comprato in quel periodo e mangiare qualche caramella Lemonhead, di cui era goloso.

    In questo periodo due figure assumono un ruolo importante per la sua maturità.

    Il suo patrigno Laurence Berkley, che aveva sposato la madre nel 1979, era una figura brillante che, in quell’ambiente un po’ ottuso e freddo, svolgeva una funzione simile a una valvola di sfogo. Soprattutto a scuola, dove i compagni lo prendevano in giro per i suoi gusti musicali o i professori reprimevano la sua vena artistica censurando persino una sua recensione de L’Anticristo di Nietzsche.

    L’altra figura di riferimento fu Amed Hughes, un severo ma divertente professore che in eigth grade¹ lo incoraggiò a esprimersi.

    Frusciante raccontò a Guy Oseary per il suo libro² un aneddoto su questo insegnante. In un periodo in cui ancora era insicuro delle sue capacità, il professore lo mandò a chiamare: "Quando arrivai mi disse ‘John, voglio che tu ti sieda qui e scriva una lettera spiegando cosa pensi di me come professore, e poi firmarla, così quando sarai famoso potrò mostrarla ai miei studenti’. Mi fece sentire bene. Avevo sempre pensato che avrei fatto il musicista per vivere, ma nessun altro credeva in me. Magari altri ragazzi sì, una volta che mi sentivano suonare, ma non a quel punto della mia vita. Mr. Hughes invece lo stava affermando anche solo basandosi sulla mia attitudine riguardante la musica e su ciò che vedeva dai miei occhi. E lo apprezzai tanto". C’è davvero da augurarsi che il professore abbia davvero conservato quella lettera.

    Tornando al racconto della crescita artistica di Frusciante, in quel periodo cominciò a studiare alcuni tra i chitarristi che avevano fatto la storia degli anni Sessanta: Elmore James, Willie Dixon, Johnny Guitar Watson, Lightnin’ Hopkins, ma soprattutto Jimi Hendrix, il cui stile incendiario tra blues e rock e il gusto per jam lisergiche saranno tra le coordinate più importanti di quella mappa che lo porterà a perfezionare uno stile che lo renderà celebre. Mentre Electric Ladyland gli entra nella pelle in maniera inesorabile, un’altra fascinazione si fa strada nella sua giovane vita: è quella per il jazzista Eric Dolphy, interprete di memorabili registrazioni con Charles Mingus e John Coltrane, ricche di quel sano groove bebop che lo contraddistingueva. Ma è la performance di Andrew Hill, nel disco Point of Departure, a renderlo veramente conscio di quanto in una registrazione possa contare la sinergia tra quattro musicisti.

    A tredici anni, registrò le sue prime canzoni e anni dopo citerà Water Music come una di quelle composizioni giovanili. Continuando a cercare un insegnante di chitarra che potesse trasmettergli qualcosa che andasse al di là delle semplici note parcheggiate in fila, sperava di trovare qualcuno che potesse spiegargli anche come ottenere i suoni che ammirava nei dischi. Tra appassionati di jazz con non troppe simpatie per il rock, fan degli Yes che però non erano abbastanza onnivori da potersi godere anche della sana musica punk, il ragazzo trovò in Mark Metcalf un provvisorio mentore. In arte Mark Nine, da polistrumentista aveva suonato in passato nella band di Nina Hegen degli esordi e collaborato con il chitarrista dei Germs, Pat Smear. In quel periodo, Mark era membro di una formazione sperimentale dal nome Underworld. Fu lui a portare per la prima volta l’appena quattordicenne John Frusciante su un vero palco per suonare dal vivo Mr Blue. Un pezzo tra l’ambient e momenti più concitati, in cui il discepolo era impegnato a eseguire diversi feedbacks. Un piccolo momento di gloria al culmine di un biennio passato finalmente a imparare ciò che davvero voleva, da un interprete abbastanza aperto musicalmente. Le lezioni, con il passare dei mesi, aumentarono di prezzo e sua madre si trovò nella posizione di non poterle più pagare. Nel frattempo però era palese che oramai John stesse definendo il suo suono e il suo stile: mancavano ancora due tasselli fondamentali che sarebbero arrivati pochi mesi più tardi.

    Il primo tassello fu Frank Zappa: John si innamorò della sua natura irriverente e delle costruzioni intricate e folli come compositore³.

    A quattordici anni si impegnò ad acquistare l’intera discografia di Zappa, nonostante in quegli anni fosse un’impresa ardua: i dischi non solo erano tanti, ma diversi erano già fuori catalogo. Dichiarò che "Ognuno di essi, una volta trovato, sembrava essere un perfetto microcosmo di sentimenti per me. Dall’odore della stampa, la copertina, il booklet e specialmente la musica che era pura magia nella mia mente". Iniziò a chiamare la linea telefonica del fan club dell’artista per reperire il materiale e, un anno dopo, riuscì persino nell’impresa di ottenere ogni registrazione realizzata da Frank Zappa fino a quel momento e passò circa il 70% del suo tempo studiando quelle preziose note. Imparò anche a leggere la musica grazie al The Frank Zappa Guitar book e quei poliritmi che erano stati trascritti da Steve Vai. Avrebbe potuto intrattenere un ipotetico pubblico con oltre novanta minuti di intricate canzoni dal suo catalogo, un tipo di esercizio che fece crescere l’autostima verso il suo strumento: perché, riuscendo in quello, si sentiva in grado di poter fare qualsiasi altra cosa.

    Il secondo amore di riferimento, invece, furono i The Red Hot Chili Peppers. Nei mesi precedenti, proprio Mark Nine gli aveva confessato di aver fatto, senza successo, un provino per loro. Ma fu una notizia che, al periodo, il giovane accolse senza darci troppo peso, rimanendo persino convinto che l’audizione fosse per un posto da bassista e senza curarsi granché di approfondire la questione. Tutto cambiò il 16 marzo del 1984, li vide ospiti al Thicke of the Night, un talk show notturno prodotto dalla MGM Television e condotto dal songwriter e attore Alan Thicke. Lo show era nato con lo scopo di contrastare il format rivale The Tonight Show di Johnny Carson. Un confronto impari che durò una sola stagione televisiva. Alan cercò, senza successo, audience con contenuti poco politically correct e ospitando musicisti alternativi. Quella sera toccava ai Red Hot Chili Peppers, una band ancora agli esordi che, in un altro contesto, probabilmente non avrebbe mai ottenuto così tanto spazio. In quello show di una decina di minuti, imbastirono una performance di martellante funk rock, proponendo True Men Don’t Kill Coyotes e Get up And Jump, intervallate da una breve intervista in cui il frontman e il bassista mostravano una energica esuberanza, oltre a una non ancora perfetta esperienza su come muoversi davanti alle telecamere. Senza saperlo, quei due funkadelici arlecchini, quella sera si erano guadagnati un fan veramente prezioso per il prosieguo della loro avventura musicale.

    Per capire chi fossero i Peppers e per comprendere come mai quei due musicisti avessero un atteggiamento così esuberante, in completa antitesi con gli altri due componenti del gruppo, rispettivamente il chitarrista e il batterista, nel prossimo capitolo faremo un piccolo passo indietro nella storia della band.

    1 L’equivalente della nostra terza media.

    2 On the Record: Over 150 of the most talented people in music share the secrets of their success (2004).

    3 Nel 2007, John ebbe l’onore di scrivere nel booklet di The Dub Room Special! (The Album), un disco postumo del musicista di Baltimora, raccontando quanto fosse legato alla discografia di Frank e di quanti soldi avesse speso nella sua fan-line telefonica.

    Capitolo 2

    La nascita dei Red Hot Chili Peppers

    (1982-1988)

    Erano una band davvero originale, con un approccio alla musica diverso da qualsiasi altra che conoscevo. Equilibravano bene ingenuità e sicurezza. Ed è la cosa che più me li fece piacere

    (John Frusciante. Cousin Creep Show Radio, 2000)

    La genesi dei Red Hot Chili Peppers rientra nel più tipico degli stereotipi rock: quattro sedicenni divenuti amici tra i banchi di scuola della Firefax High School che, dopo il rumore della campanella, si ritrovavano a suonare cover dei Kiss e qualche bozza di pezzi propri. Il chitarrista di origini israeliane Hillel Slovak, il batterista Jack Irons, il cantante Alain Johannes e Todd Strastman. Era il 1977 quando i quattro musicisti misero in piedi i Chain Reaction, divenuti poi Anthym appena la formazione riuscì a trovare i primi ingaggi in piccoli bar di Los Angeles, incoraggiati dal supporto della cerchia di amici che li seguiva in ogni data. Tra essi spiccano Michael Peter Balzary, più tardi Flea, ovvero pulce, per la sua corporatura minuta e l’atteggiamento vispo, e Anthony Kiedis. Entrambi i ragazzi erano arrivati a Los Angeles a causa di vicissitudini delle rispettive famiglie, il primo australiano e il secondo nato nel Michigan, ed erano diventati inseparabili. Trascorrevano le loro giornate scorrazzando per la città, tra scapestrati autostop, tuffi in piscine da altezze impensabili e tentativi di rimorchiare ragazze. Nutrendosi a vicenda delle sonorità con le quali erano cresciuti durante l’infanzia, Michael offriva ciò che aveva imparato dal patrigno jazzista, e Anthony ricambiava con tutto il rock di scuola classica di cui era rimasto carente il primo.

    All’inizio del 1978, Slovak diede delle lezioni di basso a Balzary, proponendogli di entrare nella band al posto del bassista, che aveva abbandonato la formazione per concentrarsi sulla sua carriera universitaria. Il ragazzo accettò con esuberanza, del resto la musica era sempre stata parte integrante della sua vita: fin da piccolo ascoltava jazz con il patrigno e si era avvicinato alla tromba come primo strumento di formazione. Dopo le prime lezioni al basso, Balzary continuò da autodidatta a esercitare il suo background sonoro alle quattro corde, acquisendo nel corso dei mesi un groove funky diseducato, che otteneva martellando il pollice sul suo pickup (il cosiddetto slap). L’innesto del nuovo elemento non fece vincere alla band nemmeno uno dei concorsi scolastici a cui si era iscritta; in compenso le sonorità si fecero più elaborate: passando a un rock dalle tinte un po’ metalliche, come testimoniano alcuni video, registrati con approccio amatoriale e presenti su YouTube.

    Anthony Kiedis, nel frattempo, seguiva le orme artistiche del padre Blackie, un attore sempre a caccia di comparsate nelle pellicole, sporadici corsi di recitazione e feste tra personaggi del mondo del cinema che ce l’avevano fatta. Non trascurava però il suo legame con gli Anthym, uscendo spesso con loro. Durante il 1980, Hillel Slovak involontariamente celebra il battesimo sia di Kiedis che di Balzary nel mondo del punk/hardcore, facendo ascoltare loro i dischi seminali della scena. Cerca persino di imbucare i suoi due amici ad assistere a quello che sarebbe stato l’ultimo show dei The Germs nella formazione storica allo Starwood. Purtroppo non riusciranno ad entrare. Quel periodo però cambiò totalmente la concezione che Balzary aveva di quella scena musicale, che aveva frettolosamente giudicato violenta e pericolosa dopo aver assistito al pestaggio di alcuni ragazzi durante un concerto dei Black Flag nella medesima location qualche mese prima.

    Eventi come questi permettevano ai musicisti di assorbire le influenze sonore sempre più ruvide dell’underground losangelino, oltre che a cementare il rapporto tra loro e Anthony Kiedis, al punto che a quest’ultimo venne chiesto di collaborare più attivamente ai loro spettacoli: svolgendo un ruolo sia di guardia degli strumenti musicali incustoditi in scena che quello di scaldare il pubblico prima dell’arrivo dei musicisti. La parte dell’annunciatore svitato gli calzava a pennello: non era di certo un cantante, ma sapeva tenere il palco in maniera spigliata tra la recita di qualche poesia e qualche acrobazia atletica.

    Quando oramai il quartetto sembrava aver assunto una propria stabilità, il cantante Alan Johannes decise di cercare fortuna in territori new wave e suonare una sorta di versione accordata di Captain Beefheart. Il nome della band cambiò in What is this, mantenendo tutti gli interpreti tranne Balzary, che venne presto sostituito da Chris Hutchinson, e aggiungendo un tastierista. Senza più una formazione stabile in cui suonare, il bassista fece alcuni provini per grezze formazioni underground, tra cui Public Image ltd, James Chance e Fear. Nei primi due casi ottenne il prestigioso posto ma decise di rifiutare, nella terza realtà rimase alcune settimane prima di congedarsi. Esperienze che gli diedero la consapevolezza che, pur essendo ancora un principiante, avrebbe potuto essere un utile gregario in realtà musicali già avviate da anni, ma evidentemente non era ciò che voleva realmente. Il sogno di Balzary era quello di fondare un progetto tutto suo, con dei performer affiatati, un nucleo in cui identificarsi come fosse una tribù. La priorità era una figura come Kiedis, che nel frattempo aveva scoperto nel rap di Grandmaster Flash una sua possibile strada espressiva non per forza vincolata dalle doti canore. Forti ambedue di queste convinzioni, nel febbraio del 1983, nacquero i Tony Flow and the Majestic Masters of Mayhem. Con il primo al basso, Anthony da presentatore era stato promosso al ruolo di frontman vero e proprio, completavano il quadretto Jack Irons e Hillel Slovak, che però continuavano a suonare anche con i già citati What is This, alternando band a seconda delle serate d’ingaggio.

    Il primo concerto di questa nuova lineup arrivò poco dopo e in maniera del tutto casuale. Grazie alla sua fidanzata di allora, Anthony aveva conosciuto l’artista Gary Allen, che aveva fatto parte del pittoresco gruppo Neighbors Voices, e lo aveva invitato a qualche jam con i suoi amici. Settimane dopo Gary venne contattato di nuovo dal ragazzo a poche ore da un suo nuovo spettacolo che univa arti di cabaret, danza e pezzi cantati in playback. Continuava a ripetergli che aveva in serbo qualcosa di speciale. Non avevo tempo né voglia di star lì seduto a sentirlo, anche perché ero vestito con un abito da sposa sopra a dei meravigliosi pantaloni da equitazione, ma oggi sono felice di averlo fatto. Fu eccezionale e gli concessi di aprire la serata raccontò Allen quasi quarant’anni dopo a Weirdo Music Forever. Così Kiedis si guadagnò la chance di introdurre anche gli spettacoli del suo collega, duettando in un pezzo chiamato It’s a Po Mole. In uno degli show successivi di Gary al Rhythm Lounge, Balzary convinse il perplesso promoter Salomon Emquies a concedere a tutto il gruppo una chance; più che essere un gruppo spalla, si proponevano come un frizzante diversivo. L’affermazione era veritiera, i Tony Flow and the Majestic Masters of Mayhem avevano tra le mani poco più di un intermezzo, basato su una linea di basso un po’ plagiata ai Defunkt, abbinata a un poema che Anthony non aveva mai letto davanti a nessuno. Questa improvvisazione di appena un paio di minuti, e mai accennata nemmeno in sala prove, divenne Out in LA, il loro primo pezzo. Gary Allen aveva già avuto in apertura i cugini What is This e fece da garante per la band. L’esibizione andò bene, al punto che Salomon li richiamò qualche settimana dopo. Stavolta si presentarono con due canzoni e aumentò anche il loro cachet, passando in un paio di mesi da cinquanta dollari a duecento, in poco tempo erano diventati una delle più giovani e ambite formazioni dell’underground di Los Angeles.

    Dal terzo show del 5 marzo 1983, il primo ad avere una data precisa storicamente concordata da fonti certe, si presentarono con il nome definitivo: The Red Hot Chili Peppers⁴. Le performance miglioravano di volta in volta: abrasive, muscolari e provocatorie. Esattamente due mesi dopo, una di queste venne immortalata dal batterista dei Fear, Tim Leitch, in una demo-tape registrata in appena tre ore e trecento dollari di budget; presto la band avrebbe trovato anche in Lindy Goetz un valido supporto da manager. Ora aveva tutte le carte in regola per catturare l’interesse della Emi/Enigma, che le propose un contratto per ben sette dischi da realizzare.

    L’imprevisto però era dietro l’angolo, e arrivò proprio dai due musicisti che mantenevano il piede in due staffe: i What is This avevano firmato con la Mca records e sia Hillel che Jack giudicarono quel percorso più stabile per le loro ambizioni musicali e abbandonarono il secondo progetto. Per Michael Balzary, che in questo periodo prese il nome d’arte Flea, e Kiedis fu solo la prima delle tante vicissitudini che avrebbero incontrato sul loro cammino. Per il momento ingaggiarono Cliff Martinez (ex batterista di Weirdos e Capitan Beefheart) alla batteria dietro le pelli. Mentre Dix Denney si offrì da traghettatore alla chitarra fino a che, nel periodo natalizio, non venne ingaggiato Jack Sherman, che era stato session man di diversi progetti minori, tra cui Tony and the Movers.

    John Frusciante li osservò nella trasmissione televisiva proprio in questo periodo, un mese prima che entrassero negli studi di registrazione per incidere il loro disco di esordio e orfani della metà dei membri fondatori. Per la produzione, i Red Hot Chili Peppers si affidarono ad Andy Gill, chitarrista dei Gang of Four, interpreti di un post punk graffiante a ritmi serrati funkettosi e testi discretamente politicizzati. La band voleva catturare su nastro proprio quello stile, avendo già metà dei brani in mano, rodati da tempo durante i concerti. Ad assistere in cabina di regia c’era anche Dave Jaden, in passato collaboratore anche di Talking Heads ed Eno e presente nel primo Ep con i What is This. Se i risultati non furono quelli sperati, le colpe maggiori sono da attribuire a un mancato accordo tra musicisti e addetti ai lavori sulla direzione del disco e sui rispettivi compiti in cabina di regia. Kiedis e Flea erano intenzionati a ricreare il punk funk selvaggio dei loro concerti di quegli anni e presto iniziarono a considerare il produttore una sorta di noiosa autorità da prendere in giro, mentre Andy finì per credere di avere a che fare con dei mocciosi teppistelli da plasmare verso un sound che strizzasse più l’occhio alle classifiche.

    Non di rado, nella storia della musica, le negatività diventano il sale di un prodotto estremamente interessante, ma non fu questo il caso. Il risultato fu invece un ibrido di intenti che scontentava un po’ tutti: un cucciolo di rock narcotizzato, sterilizzato sia da buona parte del suo vigore punk, ma anche privato di quei brani che avrebbero fatto davvero fortuna nelle classifiche. Paradossalmente risultano semmai più accattivanti le raspose demo⁵ registrate l’anno prima a basso budget. Tutto sommato un vero peccato, considerando i promettenti spunti ascoltabili nelle tracce. Dall’ottimo riff rock di Buckle Down, alla gravida linea di basso dell’inquietante Mommy where’s Daddy?. Tra gli elementi penalizzanti troviamo la produzione della batteria, sempre preda di un eccessivo riverbero, così come l’artificiosità del timbro di Kiedis, trattato con troppi filtri che diminuivano sì le imperfezioni vocali, ma rendevano un po’ goffe le melodie. Non aiutava nemmeno la scarsa coerenza di tracklist, che mischiava brani istantanei da Circle Jerks come You Always Sing The Same assieme all’oscura strumentale d’atmosfera Grand Pappy Du Plenty⁶.

    Ad Andy Gill va riconosciuto il merito di aver incoraggiato la band verso brani più complessi (la hendrixiana Green Heaven), mentre Kiedis e Flea pagavano l’inesperienza del mestiere. Non sembravano capire bene a cosa servisse un produttore; tanto più che l’approccio grezzo dei dischi dei Gang of Four, che loro tanto avevano apprezzato, risultava invece poco interessante a Gill. Quest’ultimo si sentiva più fiero di episodi più danzerecci e morbidi della sua discografia. Ed esortava la band a scrivere un singolo che avrebbe potuto far breccia nelle radio, che nel periodo erano ben disposte a promuovere trame di funk misto a pop di gente del calibro di Nile Rodgers, musicista degli Chic che si stava guadagnando ulteriore popolarità suonando e producendo anche gente come David Bowie, Madonna o Duran Duran. I Peperoncini però erano contrari a un approccio melodico e il potenziale singolo ruffiano, dal titolo Human Satellite, venne cestinato.

    Non riuscirono ad accordarsi nemmeno per il titolo dell’album: la band prima propose True Men Don’t Kill Coyotes (una delle migliori canzoni del lotto), poi venne bocciato anche There’s A Funkus Amongkus, infine ci si dovette accontentare del nome stesso della formazione. Circa ventuno anni dopo, Flea ammise al Rolling Stone che sarebbe stato più pertinente portare in studio Jack Irons e Hillel Slovak per incidere i pezzi scritti da loro e lasciare ai nuovi arrivati solo il compito di registrare quelli nati dopo il congedo dei due fondatori. Mentre Sherman, chiamato in causa sulla vicenda, ci tenne a precisare che, senza il contributo del produttore, si sarebbero probabilmente trovati tra le mani un disco che non avrebbe superato il quarto d’ora di durata.

    Basterebbero anche solo queste due dichiarazioni postume per riflettere sulle colpe di ognuno. Uscito l’11 agosto infatti, non solo il disco non convinse nessuno dei coinvolti, ma fallì di poco persino l’entrata nella top 200 di Billboard. Prevalsero i

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