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Vi salverò
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E-book340 pagine4 ore

Vi salverò

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Info su questo ebook

1944. Rhys Gravenor, veterano di guerra, non vede suo figlio Owain da cinque anni, dopo la tremenda lite che ha incrinato il loro rapporto. Ma ora vuole riconciliarsi con lui, e così lascia il suo allevamento di pecore in Galles per andarlo a cercare in Francia, dove i nazisti tentano di resistere agli alleati che avanzano sempre di più. Una volta lì, però, Rhys capisce che ritrovare Owain non sarà per niente facile. Infatti, pare che il giovane sia rimasto invischiato in qualcosa più grande di lui, un’operazione pericolosa che gli ha attirato le ire di molti nemici. Adesso, con l’aiuto della misteriosa Charlotte, Rhys dovrà dare fondo a tutte le proprie risorse, in una corsa contro il tempo per ritrovare Owain vivo e riportarlo finalmente a casa.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2020
ISBN9788892966048
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    Anteprima del libro

    Vi salverò - Meghan Holloway

    ORME

    fr

    Meghan Holloway

    Vi salverò

    ISBN 978-88-9296-604-8

    © 2020 Leone Editore, Milano

    Titolo originale: Once more unto the breach

    © 2019 Meghan Holloway

    Traduzione: Gaia Giaccone

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A Michael,

    per aver piantato il seme,

    avermi accompagnato in questa impresa,

    e avermi sostenuto a ogni ostacolo del cammino.

    A E.A.D.,

    per avermi raccontato delle storie.

    A L.O.C.,

    un uomo che ho conosciuto soltanto attraverso le storie.

    A Aidan e in memoria di J.J.,

    i miei adorati Otto.

    Agli uomini e alle donne della Greatest Generation,

    per aver condotto vite di onore, sacrificio e dedizione.

    E per mia nonna,

    che era tanto orgogliosa che io fossi una scrittrice

    e tanto entusiasta di questa storia,

    ma non è mai riuscita a leggerla.

    6 aprile 1940

    Caro nhad,

    oggi sono arrivato a Parigi. Qui c’è un’aria di allarme e tensione.

    Come se la città stesse trattenendo il respiro. Come se fosse in attesa.

    Owain

    1

    Rhys

    Una volta ancora alla breccia, cari amici, anche una volta;

    vincetela d’assalto, o empitela di morti.

    Durante la pace niente si addice meglio all’uomo

    che una modesta dolcezza;

    ma allorché la tempesta della guerra rugge ai nostri orecchi,

    allora bello diviene il furore della tigre.

    Enrico V, Atto 3, Scena 1

    27 agosto 1944

    Odiavo Parigi quanto qualsiasi altra città, con i suoi palazzi che sembravano le sbarre di una gabbia e l’eterno ingorgo di gente a dare la sensazione che l’aria fosse razionata. E non l’avevo mai odiata tanto come quando era piena di negozi sventrati, barricate fatte di sacchi e spire di filo spinato.

    Raggiunsi rue de Vaugirard che il sole non era ancora sorto sulle ciminiere.

    «Stai attento vicino al Palais du Luxembourg» mi aveva avvertito il vecchio «e al Panthéon. I combattimenti lì sono violenti con la Résistance.»

    Mi scrollai di dosso la nebbia dei ricordi e feci scorrere lo sguardo dalle strade ai tetti, mentre costeggiavo il palazzo. Le vie erano immerse in una calma inquietante e, anche se non riuscivo a vederne molto, sapevo che nei giardini sconfinati non c’era la Luftwaffe. Seguii la curva del terreno, facendo saettare lo sguardo intorno.

    Avevano rinforzato la sorveglianza e questo rischiava di farmi perdere decenni, quindi fu un sollievo quando un fischio acuto trafisse l’aria. Un nemico invisibile era sempre più pericoloso.

    Guardai di fronte a me proprio mentre il sole colpiva la forma curva, simile a quella di una campana, di un maestoso palazzo di pietra in fondo a una strada lunga e larga. Quindi mi girai per fronteggiare gli uomini che uscivano allo scoperto dalla copertura del fogliame e dei vicoli in ombra.

    «Eh! Qui es-tu?»

    «Où vas-tu?»

    I sette uomini si avvicinavano con fare aggressivo, due di loro avevano le fasce dei fucili intorno al petto, uno un bastone spesso e contorto appoggiato contro la spalla. Avevano ricevuto degli ordini e io avevo invaso il loro territorio al momento sbagliato. Come facevo spesso, li fronteggiai impettito e avvertii subito il loro disagio perché mi guardarono in cagnesco e si disposero a ventaglio intorno a me.

    Avevano i volti contratti di fatica, fame e sospetto. Era quello il volto della resistenza.

    «Eh?» ripeté quello che aveva parlato per primo, sporgendo il mento verso di me. «Qui est-tu?»

    Erano tutti scompigliati e smagriti, sicuramente più giovani di quanto apparissero ma provati e induriti da quattro anni di combattimenti. Borbottarono tra loro e io colsi le parole carlingue e allemand.

    «Non parlo francese» dissi allargando le gambe e spostando il peso sui talloni. Tenni le braccia stese lungo i fianchi e le mani aperte. «Je ne parle pas français.» Quella frase mi tornò in mente d’improvviso e mi ricordai con sorprendente chiarezza il ragazzo che me l’aveva insegnata, quasi trent’anni prima. Era più giovane di me e mi stava prendendo in giro per la pronuncia stentata, quando un proiettile tedesco gli aveva forato l’elmetto fino al cranio. «Non capisco.»

    «Sei americano?» A parlare era stato il più basso dei sette e, anche se la sua statura sembrava suggerire che fosse giovane, i suoi occhi erano antichi come rocce.

    «No.» Quello con il bastone iniziò a girarmi intorno e io mi spostai in modo da averli tutti nel mio campo visivo. «Sono gallese.»

    «Gallese.» Il primo che aveva parlato era chiaramente il capo e adesso si mise a confabulare con gli altri emettendo una breve raffica di parole. Tornò a girarsi verso di me; aveva la faccia deformata da un ghigno. «Tu es anglais.»

    Anglais. Inglese. «No» dissi in tono duro quanto il suo. «Non sono inglese. Sono gallese.»

    Sputò per terra. «Les anglais sono codardi.» E concluse con un torrente di parole nella sua lingua.

    Non avevo bisogno di conoscere il francese per capire il suo tono e mi irrigidii. Mi aspettavo il colpo di bastone e sentii il sibilo nell’aria mentre quello si avvicinava alla mia testa.

    Avevo passato tutta la vita con un bastone da pastore in mano. Li conoscevo bene, abbastanza da saperli usare come arma. Afferrai il bastone prima che il colpo andasse a segno e, con una rapida contorsione e uno strattone, lo strappai dalla presa dell’uomo. Quello perse l’equilibrio, quindi mi risultò facilissimo mandarlo a gambe all’aria.

    Mi rigirai il bastone tra le mani e lo conficcai dal lato più sottile nello stomaco dell’uomo che correva verso di me. Cadde ansimando, mentre io ne colpivo un altro nella zona sensibile tra la gola e la spalla. L’uomo urlò, sapevo che il suo braccio destro era ormai fatalmente fuori uso.

    Poi il calcio di un fucile mi colpì alla tempia.

    Barcollai e crollai su un ginocchio. Mentre lottavo per rialzarmi in piedi, uno stivale mi colpì sulla mascella e il mondo si mise a oscillare.

    Lo capii non appena aprii la porta della sua stanza.

    Il letto era rifatto alla perfezione, con la coperta che Aelwyd aveva cucito prima che lui nascesse, liscia e ben tirata. Guardai la scrivania e la trovai vuota. Il cappotto e gli stivali erano spariti dal gancio e dal ripiano vicino alla porta.

    Mi precipitai in cortile, mi misi le mani a coppa intorno alla bocca e gridai il suo nome verso le colline. Mi rispose soltanto l’eco.

    I miei piedi sguazzavano nel fango della strada mentre camminavo verso la cima a sud di casa nostra. Da sopra la collina, vedevo la ferrovia serpeggiare nella vallata. I poggi erano marroni nella stretta dell’inverno, il cielo del colore di un mare gelato. Il sentiero era una cicatrice che seguiva le curve del terreno irregolare, pieno di dossi e picchi simili a onde continue. Le pecore al pascolo erano coperte di fango e puzzavano di brughiera.

    Era un deserto fin dove arrivava il mio sguardo, e io barcollai quando la consapevolezza mi colpì con violenza.

    Era andato via.

    Un calcio tra le costole mi riportò bruscamente in me, mentre i quattro uomini illesi mi trascinavano nel vicolo più vicino. Un secondo calcio mi raggiunse alla schiena e io gemetti. Il vicolo vorticava tutto intorno a me, ma io riuscii a parare lo stivale che si abbatteva sulla mia faccia, facendo cadere il suo proprietario.

    «Arrêtez! Arrêtez!»

    La voce non riuscì a sovrastare i colpi finché uno sparo non riecheggiò per il vicolo e il coccio di un mattone mi colpì sulla guancia.

    Ripiegai un gomito sotto di me mentre gli uomini battevano in ritirata allontanandosi. All’imbocco del vicolo c’era una donna. Puntò una pistola alle teste degli uomini, poi la spostò su quella dell’uomo più vicino a lei. «Arrêtez. Ou le prochain sera dans votre tête.»

    Scoppiò una colluttazione e le voci rabbiose mi martellarono in testa come l’incudine di un fabbro. Mi si rivoltò lo stomaco quando mi sforzai di mettermi in ginocchio e mi appoggiai al muro di mattoni, strisciando e trascinandomi. Puntellai i gomiti sulle ginocchia piegate e affondai la testa tra le mani.

    Non mi resi conto di stare perdendo conoscenza finché un tocco delicato sulla spalla non mi fece sobbalzare.

    «Signore?» Era la donna. Aveva una voce dolce e dal forte accento, ma non era un’inflessione francese. «Sta bene?»

    Sollevai la testa rapidamente e guardai dietro di lei, accorgendomi di averla afferrata per il gomito e trascinata giù al mio fianco soltanto quando lei emise uno strillo di sorpresa. Il vicolo era vuoto.

    «Sono andati via. Adesso è al sicuro.»

    Mi si annebbiò la vista quando mi girai verso di lei. Anche con quella visuale confusa, notai i suoi occhi. Avevano il colore del cielo gallese prima della tempesta, così torbidi e turbolenti da essere più vicini al grigio che al blu. Mi studiava con grande interesse.

    Si chinò verso di me, mi mise le mani fredde intorno al volto e mi scrutò dritto negli occhi aggrottando le sopracciglia. «Ha bisogno di cure mediche, non possiamo restare qui. Qualcuno avrà sentito lo sparo ed è meglio non essere catturati, di questi tempi. Riesce ad alzarsi?»

    Americana. Aveva la voce bassa e vellutata, ma anche sincera e diretta. Doveva essere americana.

    «Aye, riesco ad alzarmi.»

    Si raddrizzò e mi porse la mano. Era ricoperta di sangue, così come il braccio dal gomito in su e l’orlo della manica del vestito tutto macchiato.

    «Sta sanguinando.»

    Sbatté le palpebre. «È sangue suo.»

    Mi guardai la mano e vidi che era tutta rossa. Mi sentivo la faccia umida. Mi toccai la tempia destra e sobbalzai trovando un rivoletto che mi scendeva lungo la guancia.

    «Fermo. Peggiora la situazione.»

    Mi alzai barcollando e mi appoggiai al muro, il suolo oscillava sotto i miei piedi.

    Prima che potessi protestare, la donna si posizionò al mio fianco e si portò il mio braccio sulla spalla. «Presto. Si appoggi a me.» La sua testa color miele non superava il taschino della mia giacca, ma aveva una presa vigorosa.

    «Ne arriveranno altri?»

    «È possibile, ma non probabile. Si è fatto valere, a quanto vedo.» Alzò la testa per guardarmi e sorrise, e io mi sentii come se fossi a casa a guardare il sole che penetrava attraverso la densa bruma mattutina che ricopriva le colline.

    «La pistola…» Non la vedevo da nessuna parte.

    «Ci penso io, alla pistola. Lei pensi solo a camminare. Ha un posto sicuro dove andare?»

    Mi bloccai incespicando e quasi facendo perdere l’equilibrio anche a lei, quindi mi frugai nelle tasche e mi tranquillizzai solo quando le mie dita toccarono gli angoli arricciati di una lettera. La testa mi pulsava allo stesso ritmo del cuore. La donna mi guardava, con il volto invaso dalla curiosità.

    «Devo andare a rue Tournefort 27.»

    «Tournefort… La conosco. Ma è lontana almeno un chilometro, e lei ha bisogno di cure.»

    «Devo…»

    «Riesce a malapena a stare in piedi. Una mia amica abita qui vicino, è un’infermiera.» Tentò di spingermi a proseguire, ma io opposi resistenza. «Per favore. Lavoro nelle ambulanze da campo. Riconosco una ferita grave quando la vedo. Se adesso viene con me, dopo che Dionne le medicherà la testa la porterò personalmente in rue Tournefort.»

    Avevo la sensazione che lo stomaco volesse risalirmi in gola, quindi acconsentii. «Grazie, signorina.»

    «Mi chiamo Charlie.»

    «Charlie?»

    Non rispose subito, stava perlustrando l’imboccatura del vicolo. «Da questa parte.»

    «Lo zaino.» Giaceva al centro della strada. Lei si allontanò per raccoglierlo e metterselo sulle spalle, lasciandomi in bilico sui miei piedi, poi tornò al mio fianco.

    Mi condusse sulla strada lunga e larga. Ora il sole indorava la cupola dell’edificio di pietra di fronte a me e mi feriva gli occhi. Sbattei le palpebre per proteggermi, con gli occhi che mi lacrimavano, poi, al primo isolato, lei girò verso nord in un angusto vicoletto secondario.

    «Mi chiamo Charlotte Dubois, ma tutti mi chiamano Charlie.»

    Un mio compagno di scuola si chiamava Charlie. Aveva l’aspetto e il carattere di un cinghiale selvatico. Era un dim gwerth rhech dafad. «Charlotte. Rhys Gravenor.»

    «È gallese. Dicevano che era inglese.»

    «Io gli avevo detto che sono gallese.»

    «Peccato che non le abbiano creduto.» Girò per entrare sotto un portico. «Siamo arrivati.» Prese una chiave dalla tasca del vestito e la infilò nella serratura. Con uno scricchiolio metallico, la porta si aprì su un ingresso con la moquette e una scala sinuosa che saliva a spirale intorno a un ascensore. La mia preoccupazione doveva essere palese, perché Charlotte gettò lo sguardo sulla scatola di legno e vetro. «Non funziona da anni. Cammini piano, adesso. L’appartamento di Dionne è all’ultimo piano.»

    Quella salita ripida e circolare mi fece venire il capogiro e, quando raggiungemmo il sesto piano, barcollavo vistosamente.

    «Attento, attento» mormorò lei, guidandomi all’ultima porta in fondo al corridoio. Bussò e pochi secondi dopo ci aprì una donna con i capelli scuri.

    «Retour si tôt? Où…» Poi la donna mi vide, s’interruppe bruscamente e si lanciò in un rapido scambio in francese con Charlotte. Io mi sforzavo di non poggiarmi con tutto il peso sull’esile donna al mio fianco. La francese si fece da parte e aprì ancora di più la porta. «Andate alla finestra, dove c’è più luce.»

    L’appartamento era piccolo e dall’aspetto logoro e disordinato, per quanto fosse pulito e accogliente. Il soffitto era alquanto spiovente e, a mano a mano che ci avvicinavamo alla finestra, dovetti chinarmi per non sbattere la testa.

    Mi lasciai cadere pesantemente sulla sedia che mi aveva portato la francese, troppo disorientato per preoccuparmi di non rompere la struttura delicata. Feci una smorfia e lo sguardo acuto della donna non si lasciò sfuggire quell’espressione.

    «Charlie, porta dell’acqua e degli stracci. E la mia valigetta medica, oui?» Tornò a girarsi verso di me mentre Charlotte scompariva dietro l’unica porta oltre a quella di ingresso. La cucina era in un angolo della stanza e da una parte c’era un uscio nascosto da una tenda tirata, dietro la quale supposi ci fosse la camera da letto. «Si pieghi in avanti, s’il vous plaît. È stato colpito alla schiena?»

    Feci come mi diceva e mi appoggiai i gomiti sulle ginocchia. Lei mi tolse la camicia da dentro i pantaloni e me l’arrotolò sotto le braccia. «Un calcio. Sul rene destro.»

    Fece schioccare la lingua. «Oui, le rein. Si sta formando un livido.» Tastò il punto con le sue dita tiepide e, anche se il suo tocco era leggero, mi provocò una smorfia di dolore. «Le farà male e potrebbe anche uscirle sangue.»

    Annuii e mi raddrizzai, riabbassandomi la camicia sul torso quando Charlotte rientrò nella stanza.

    La francese si spostò per mettersi di fronte a me. «Anche la mascella si sta gonfiando e sta spuntando un livido. I denti le fanno male? Sono rotti?»

    Mi passai la lingua dietro l’arcata dei denti. «No.»

    «Bien. Charlie, puliscigli la testa mentre io preparo un impacco per la faccia e la schiena.» Scomparve dietro la tenda per riapparire pochi secondi dopo con una manciata di foglioline verdi in mano.

    «Consolida maggiore?»

    Charlotte sistemò un catino con dell’acqua sulle mie gambe e una valigetta medica a terra accanto ai miei piedi, poi trascinò fino a lì una sedia che era vicino a un tavolino per sedersi davanti a me. «Dionne dice sempre che è il rimedio migliore per curare le ferite, se la pelle non è lacerata.» Immerse uno straccio nell’acqua e mi lavò con cura il sangue dalla faccia e dal collo.

    «Anche mia madre lo dice.»

    La studiai. Aveva la pelle bianca con una lieve traccia di lentiggini sulle guance. I suoi occhi erano ipnotici. Nel vicolo buio, mi erano sembrati scuri e grigi. Adesso, con la luce mattutina che le illuminava la fronte e il naso, erano dello stesso blu di un cielo invernale. Aggrottò le sopracciglia e, quando mi si fece più vicina per immergere di nuovo lo straccio nell’acqua e tamponare la ferita sulla mia tempia, sentii un fresco aroma di menta.

    «È americana.»

    Lei fece saettare lo sguardo su di me e poi lo riabbassò subito su ciò che stava facendo. Sorrise e il suo volto si trasformò di nuovo, come illuminato da un sole interiore. «Proprio così.»

    Si scostò per studiare la mia faccia e poi si chinò per recuperare la valigetta. Dionne parlò di nuovo in francese e Charlotte tagliuzzò un quadrato di garza con un paio di forbici ritorte, per poi passare il resto all’altra donna. Estrasse un tampone da una scatola di tinture, stappò la boccetta e ne versò il contenuto su un capo del cotton fioc. Mi tamponò con la tintura di iodio, mise il quadrato di garza sulla ferita e, con svelta precisione acquisita grazie alla pratica, strappò con i denti un pezzo di cerotto per fissare la garza. Lisciò il cerotto e mi guardò nuovamente dritto negli occhi. «Ci vede bene?»

    «Un po’ sfocato.»

    «Capogiri? Sonnolenza?»

    Feci per annuire ma poi cambiai idea. «Aye

    Lei prese il catino pieno d’acqua, che aveva assunto una colorazione rosata a causa del sangue, e scomparve in bagno.

    Dionne mi si avvicinò con due impacchi e il medicamento di consolida maggiore spalmato su un pezzo di garza. «Regga questo.» Mi mise uno degli impacchi sulla mascella gonfia. «Si chini in avanti.» Mi arrotolò la camicia sulla schiena e mise il secondo impacco sul livido del rene, fissandolo con un cerotto.

    L’aroma fresco e pulito di consolida maggiore mi andò alla testa.

    «Che è successo stavolta?» Mia madre si raddrizzò dopo aver sistemato un impacco di consolida maggiore su un bernoccolo gonfio in fronte a Owain. Si pulì le mani sul grembiule.

    «A scuola Billy Hughes faceva la carogna con il ragazzo nuovo.»

    «Modera il linguaggio, Owain» disse mia madre.

    «Lo sai, che ho ragione, mamgu.»

    Mia madre incrociò il mio sguardo e la sua espressione diceva che, anche se lo rimproverava, era d’accordo con lui.

    Trattenni un sorriso. «E tu?»

    «E io l’ho fermato.»

    Guardai le sue nocche. Erano lisce e intatte. Mi grattai dietro il collo prendendo una sedia del tavolo e sedendomi accanto a lui. «Ti sei fatto picchiare di nuovo.»

    Inclinò la testa. «Non mi sono fatto picchiare.»

    «Ma non hai restituito il colpo.»

    «No» disse con voce fievole.

    Sospirai e mi sporsi in avanti, appoggiando i gomiti alle ginocchia. «Machgen i.»

    «Sono più grosso di tutti gli altri ragazzi, nhad. Devo stare attento.»

    «Lo so. Ma mettere a posto Billy quando se lo merita non sarebbe una cosa grave.»

    «Non voglio fare del male a nessuno.»

    Gli scompigliai i capelli e gli feci piegare la testa indietro per scrutarlo in faccia. A sedici anni, appariva vecchio e incredibilmente giovane allo stesso tempo. «Hai un cuore delicato, e sono orgoglioso che tu sia così buono.» Mi sorrise. «Ma non mi piace quando ti fai male.»

    «Va tutto bene, nhad. Non mi sono fatto male, è solo un po’ di sangue.»

    «Il riposo è la miglior medicina per una ferita.» La voce di Charlotte mi riportò bruscamente alla realtà.

    Mi massaggiai le tempie e mi strizzai l’attaccatura del naso. «Non posso più aspettare.»

    «Rue Tournefort ci sarà ancora domani.»

    Incrociai il suo sguardo. «Ho aspettato quasi cinque anni.»

    Camminavamo a rapide falcate, mantenendoci nelle stradine secondarie.

    «Fino a pochi giorni fa c’erano scontri violenti vicino al Panthéon» disse Charlotte a bassa voce. «Dobbiamo essere prudenti.»

    «Non è necessario che venga anche lei.»

    Rimase in silenzio mentre attraversavamo un vicolo sommerso dalle macerie. Si fermò per scrutare nella strada adiacente. «Lei non parla francese. Potrebbe avere bisogno di me.»

    La afferrai per il gomito. Si era ripulita il braccio dal mio sangue, ma la stoffa azzurra del vestito aveva ancora un alone color ruggine sulla manica. Notai distrattamente che le mie dita circondavano completamente il suo gomito. «Grazie.»

    Indicò a destra con un cenno del capo. «Da questa parte.»

    Lasciai la presa dal suo braccio e la seguii per le strade inondate dalla luce del crepuscolo. Mi ero lasciato convincere dalle due donne a riposare per diverse ore mentre gli impacchi facevano effetto e il tintinnio che avevo in testa si era ridotto a una lieve pulsazione.

    Si fermò e indicò un cartello appeso sopra le nostre teste alla parete di pietra di un palazzo. Delle lettere bianche su sfondo blu annunciavano rue tournefort.

    Arrivammo alla fine della strada e poi ci mettemmo pochi minuti ad attraversare i due isolati che ci separavano dalla porta con il numero 27. Bussai forte, senza nemmeno provare a contenere la mia impazienza, e Charlotte mi toccò il braccio.

    «Devo sapere cosa dire se qualcuno ci apre. Perché siamo qui?»

    «Sto cercando una persona.» Deglutii. «Un ragazzo. Mio figlio.»

    Lei mi fissò in un silenzio opprimente mentre l’eco dei miei colpi e delle mie parole svaniva. Sobbalzammo entrambi quando la porta si aprì con un cigolio. Un’anziana signora sbirciò dallo spiraglio.

    «Bonjour, madame.» Charlotte le parlò per qualche minuto. Lo sguardo della donna guizzò sulla strada dietro di noi al nome di Owain, e lei evitò di guardarmi mentre scuoteva la testa.

    «Non, non, je suis désolée.» Fece per chiudere la porta, ma io la bloccai con la mano.

    «Rhys» sussurrò Charlotte.

    «Per favore.» Abbassai il capo per guardare negli occhi la vecchia. «Per favore. È mio figlio.» Tenendo una mano sulla porta per impedirle di chiudercela in faccia, estrassi la lettera dalla tasca con l’altra. «Era qui, due anni fa. Mi ha mandato questa lettera. Glielo dica, Charlotte. Le dica che sto cercando mio figlio.»

    Charlotte tradusse rapidamente e finalmente la vecchia mi guardò in faccia. Sbirciò in strada un’altra volta e poi aprì un po’ di più la porta per farci entrare. Quando fummo seduti al suo tavolo, la vecchia si mise a parlare rivolgendosi a Charlotte, ma teneva lo sguardo fisso su di me.

    «Suo nipote conosceva suo figlio» disse Charlotte. «Lavoravano insieme al caffè della zona e sono diventati amici. La pensavano allo stesso modo sulla guerra.»

    Andrai a combattere, dannazione, o non sarai più mio figlio! Non voglio un figlio codardo. Il ricordo delle parole che gli avevo urlato mi riecheggiò in mente e il martellare sulle tempie ricominciò. Mi sfregai la fronte.

    «Rhys?»

    «Vada avanti.»

    Charlotte esitò e poi proseguì. «È andato a vivere da lei dopo che suo nipote è rimasto ucciso nei bombardamenti. Dice che era come un figlio per lei.»

    Owain si era sempre preso cura di tutto ciò che era rotto o sofferente. Mi faceva male la gola. «Le chieda di continuare, per favore.»

    «Dice che ha incontrato una donna, una giovane francese che si chiama Sévèrine. Lui non gliel’ha mai detto perché voleva proteggerla, ma pensa che questa donna sia ebrea. E crede che suo figlio fosse coinvolto nella Resistenza.»

    «Dov’è adesso? Lo sa?»

    La vecchia parlò di nuovo. La voce di Charlotte diventava più acuta quando le rispondeva.

    «Che ha detto?»

    Charlotte si sedette e mi guardò negli occhi, esitante. «Dice che non vede suo figlio dal Vel’ d’Hiv.»

    «Il Vel’ d’Hiv?»

    «Rafle du Vélodrome d’Hiver» sussurrò la vecchia, allungandosi sopra il tavolo per afferrarmi il braccio con la sua mano contorta.

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