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Mrs Grace
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E-book219 pagine2 ore

Mrs Grace

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Info su questo ebook

Grace ha settant’anni e possiede la più potente società finanziaria degli Stati Uniti. Nelle pieghe del suo passato, un segreto mai rivelato. Dopo la morte del marito, torna a New York per vendicare una violenza subita negli anni del college. Parte con due certezze: un indirizzo e il ricordo di un quadro. Troverà una città profondamente cambiata, ma il lampione all’angolo della 122ma strada, dove fu stuprata da giovane, è ancora lì. Per ottenere il suo scopo Grace sfrutterà tutte le armi a disposizione: soldi, astuzia, contatti con la malavita dell’Harlem spagnola. In un intreccio di strategie, negoziazioni, violenze e amori, il tempo presente sarà inclemente come quello passato e chiuderà il cerchio con un unico, potente interrogativo: fino a che punto può spingersi il desiderio di vendetta?
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2018
ISBN9788893331050
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    Anteprima del libro

    Mrs Grace - Chiara Briani

    © Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2018

    Collana: Spettri

    i edizione digitale: gennaio 2018

    ISBN: 978-88-9333-105-0

    Progetto grafico di copertina: Luca Verduchi

    www.alteregoedizioni.it

    A Marco, dell’AT delle 13.15

    e del tertium non datur.

    A Luca, per la bellezza e il Dolore.

    A P./, comunque.

    A NY, soprattutto.

    "Scrivere un romanzo

    vuol dire portare dentro di sé un segreto enorme.

    Provare a disfarsene parlandone non serve a niente.

    Il mondo diventa conoscibile solo dopo la scrittura.

    L’unico modo per liberarci del peso del segreto è scriverlo.

    Fino ad allora, è impossibile da condividere.

    Tutto ciò che non è il romanzo è incapace di comunicarlo".

    (J.L. Peixoto)

    1

    La campana aveva appena smesso di suonare quando Mrs Grace appoggiò il bastone a una delle panchine di Riverside Park e si sedette a guardare. La riva oltre l’Hudson aveva cambiato fisionomia: erano sorte nuove costruzioni e si intravedeva il profilo di un ponte che non ricordava.

    La tomba del generale Grant, sebbene maestosa, era invecchiata come lei: l’intonaco si era crepato e la bandiera a stelle e strisce non riusciva a mascherare il degrado del tempo. Molte abitazioni non c’erano più, alcune avevano cambiato tinteggiatura, un intero palazzo era stato abbattuto e il negozio di alimentari era diventato un supermercato a cinque piani. Papyrus, la libreria del vecchio John, coi libri rari e le cartoline sbiadite, era stata soppiantata da un asettico locale sushi da asporto.

    Le sole cose rimaste uguali erano gli alberi, gli scoiattoli e le scale antincendio.

    Guardava fisso di fronte a sé, Mrs Grace Smith, con la curiosità e il timore di chi cerca di ricostruire un puzzle senza sapere se troverà tutte le tessere.

    La chiesa c’era, il monumento a Grant pure, il fiume e gli scoiattoli anche.

    Solo dopo dieci minuti si fece coraggio e provò a voltarsi, lentamente, a sinistra.

    Vacillò, quando lo vide.

    In una città in cui tutto cambia più velocemente delle foglie che cadono, il lampione all’angolo della 122ma strada era ancora lì.

    Vicino, un raccoglitore di rifiuti. Per terra, un preservativo usato e una lattina vuota di birra.

    Addosso a quel lampione, cinquant’anni prima, la vita di Grace era cambiata.

    Facendo leva sul bastone si alzò piano e, con passo incerto, iniziò a camminare schivata dagli appassionati di jogging che affollavano il parco. Raggiunto il lampione, si fermò a osservarlo. Era color verde scuro, forse dipinto di recente, ma già tappezzato di offerte di camere per gli studenti del periodo estivo.

    Mrs Grace gli girò intorno più volte, in senso orario e antiorario, quindi allungò la mano e, riluttante, lo toccò, mentre il battito accelerava. Rivendicazione mista a rabbia, questo sentiva dentro di sé.

    Non ci fosse stato quel palo, forse non si sarebbe conclusa così la festa al college nel giugno di quel lontano 1967. Sentiva ancora l’alito ubriaco di Bruce, il freddo del metallo sulla schiena, la consistenza vischiosa dello sperma lungo l’inguine, il disgusto e l’urlo rimasto in gola.

    A settant’anni, dopo cinquanta di silenzio, Grace era tornata a quel lampione.

    2

    La suite dell’hotel a cinque stelle si affacciava su Central Park.

    Quella vista le donava serenità: c’erano i bambini, le famiglie che facevano picnic, i venditori di hot dog, i giocatori di baseball, il lago e soprattutto il verde, quella macchia di colore rettangolare che squarciava Manhattan come uno strappo in mezzo ai grattacieli.

    Dalla valigia estrasse la cartellina di pelle a soffietto in cui teneva parte del suo diario e ritagli di vecchi giornali. Sfilò una pagina piegata in quattro del New York Times del giugno 1967. L’inchiostro era sbiadito, ma il titolo della colonna in decima pagina si leggeva ancora nitido: Rape in Columbia University. Nel testo comparivano le sue iniziali, G.S., e un solo nome: José Serrano. In calce una foto della festa di fine anno e poche righe di cronaca:

    Ignote le cause della violenza, ignoto pure il colpevole.

    Grace si sedette al tavolino della suite, prese un foglio di carta intestata dell’albergo e scrisse, con grafia tremante ma chiara:

    Dopo molti anni sono tornata e mi farebbe piacere incontrarla. Cari saluti.

    Sulla busta, in stampatello: José Serrano, 521 East, 125th Street, New York.

    Poi lasciò la camera, uscì dall’hotel e raggiunse l’ufficio postale in Columbus Avenue. Comprò il francobollo e, nell’imbucare la lettera, ebbe la percezione fisica di innescare una svolta. Come quando si carica la pistola nell’atto prima di sparare e l’energia potenziale ferma nel grilletto dona una sensazione di onnipotenza.

    Con questo sentimento indefinibile, Grace si incamminò verso il Lincoln Center, che accoglieva molti turisti e tanti ricordi. La fontana spruzzava schizzi d’acqua rotondi regalando un sottofondo sonoro che, a occhi chiusi, ricordava i ruscelli del Maine.

    I personaggi di Chagall nella vetrata della Metropolitan Opera sembravano guardarla: Grace si sentiva osservata. Loro erano immodificati come ogni opera d’arte e, chissà per quale motivo, Grace fantasticò che fossero depositari del suo segreto.

    Nonostante il bastone, camminò molto riconquistando spazi, perdonando luoghi che non avevano colpe, affrontando lo smog e il vento, osservando i grattacieli trasparenti e grigi, i mendicanti e i senzatetto, amando per strada – come una donna che si concede – la città cui ancora, dopo moltissimi anni, sentiva di appartenere.

    Il tramonto la colse a Times Square quando le luci iniziavano a impadronirsi della città e i riflessi a rincorrere il cielo, senza arrivarci. La stanchezza, la concentrazione di persone e i bagliori dei neon lampeggianti le trasmisero però una sensazione di malessere. Entrò nel teatro più vicino, comprò il biglietto senza nemmeno guardare lo spettacolo in programma e si sedette in poltrona, esausta. All’inizio seguì attentamente la trama, rise alle battute assieme al pubblico, poi a poco a poco si lasciò avvolgere dalla musica, chiuse gli occhi e sognò la spiaggia di Long Island, la gita domenicale negli anni del college, il sole, l’orizzonte, Karen che la prendeva in giro, Bruce che flirtava con Tracy ma che, di nascosto, si girava lanciandole un bacio, la riva, l’acqua fredda e poi l’onda che le aveva bagnato il costume.

    Si svegliò al suono degli applausi, quando le luci erano già accese e lo spettacolo era terminato. Lasciò il teatro e uscì nel caleidoscopio vivente di Times Square, dove i colori sfacciati facevano di quella città insonne un carnevale ubriaco.

    3

    Si svegliò solo quando la cameriera bussò per la terza volta.

    Dopo un «Avanti» ancora assonnato di Grace, l’inserviente entrò e, scusandosi, appoggiò il vassoio sul comodino.

    Grace represse uno sbadiglio mentre chiedeva: «Il toast è ben cotto?».

    «Certo, signora. Ha riposato bene?» rispose la ragazza, mentre con un’occhiata notava il flaconcino di sonnifero vuoto accanto alla lampada.

    «Sì, grazie. Appoggi pure la colazione sul tavolo e, per cortesia, tiri la tenda».

    La giovane di colore, i capelli crespi raccolti in uno chignon fermato da una crestina bianca, spostò la cortina di velluto lasciando entrare la luce tersa di New York, poi si chinò a raccogliere il quotidiano del giorno prima e abbandonò la stanza.

    Grace indugiò a letto ancora qualche minuto, quindi iniziò lentamente ad alzarsi.

    La gamba destra si irrigidiva sempre durante la notte e il risveglio era il momento più difficile della giornata. Quella mattina più di altre. Il giorno prima aveva camminato troppo e ora le sembrava di avere un palo di cemento attaccato al corpo. A piccoli passi si avvicinò al tavolino e guardò fuori dalla finestra nella speranza che la città in movimento le infondesse energia.

    I venditori ambulanti, i taxi gialli, il viavai della gente alla metro, il sottofondo delle sirene a dispetto dei vetri insonorizzati, la fretta dei passanti, i neon lampeggianti anche in piena mattina: dall’alto sembrava di assistere a una corsa verso un treno in partenza la cui destinazione cambiava di continuo.

    Mise un po’ di musica di sottofondo e si sedette a fare colazione.

    Mentre imburrava il toast, lo sguardo cadde su una busta di fianco alla teiera.

    Appoggiò il coltello sul piattino di Limoges e la aprì. Era da parte del direttore dell’hotel che chiedeva cortesemente di poter incontrare l’illustrissima ospite, appena Le fosse stato possibile.

    Grace non dette molto peso a quel biglietto, aveva già pagato in anticipo due mesi di soggiorno e non aveva di che preoccuparsi.

    Quella mattina sarebbe andata al MOMA, il Museo di Arte Moderna, e poi si sarebbe trattenuta fuori per il brunch. Voleva riappropriarsi poco a poco della città, ripercorrere strade dimenticate, riscoprire i musei, andare al mercatino delle pulci di Columbus Avenue come alle aste di Sotheby’s, cenare nei locali più lussuosi, ma anche mangiare i bagel dei rivenditori ebrei per strada.

    Lei, una delle donne più potenti d’America, voleva vivere a fondo la schizofrenia della città che aveva amato e alla quale era tornata per riscuotere il suo credito.

    Era immersa in questi pensieri quando, allungando il braccio, urtò la tazza e il tè si rovesciò sul New York Times ancora intonso. Irritata, strappò le pagine bagnate e suonò il campanello per avere una seconda copia del quotidiano.

    Sulla prima pagina rimasta asciutta, si stagliava un titolo a caratteri cubitali: Columbia University a rischio di bancarotta, si cercano finanziamenti.

    Quando la cameriera entrò, Grace era intenta a leggere l’articolo.

    «Lo porto via?» chiese la ragazza, indicando il quotidiano fradicio.

    «No, grazie, sto per finire. Lasci pure lì l’altra copia» rispose Grace, che subito aggiunse stizzita: «Mi sorprende la modesta qualità del caviale. Comunichi allo chef che se domani non ci sarà l’Almas protesterò con la direzione affinché prenda provvedimenti». La cameriera, imbarazzata, cercò di ribattere qualcosa, ma Grace la interruppe con un perentorio: «Grazie di tutto, si può congedare» indicando la porta e continuando a leggere.

    In serie difficoltà finanziarie, la Columbia University versa nella crisi più grave dell’ultimo secolo. Non si possono garantire tutte le attività. Il nome e il prestigio dell’università sono in serio pericolo. Per questo motivo, il rettore ha indetto una riunione straordinaria convocando i presidi di tutte le facoltà, i fiduciari….

    Grace rifletté. L’università sarebbe stata un ottimo investimento. La sua compagnia avrebbe potuto pagare i debiti e in cambio consentirle di diventare l’azionista principale. La Columbia, che le aveva dato una laurea e un master in Economia e Finanza, sarebbe ora potuta dipendere da lei.

    Eccitata da questa prospettiva, si avvicinò alla cabina armadio per scegliere cosa indossare.

    Sul comodino, dalla sera prima, c’era ancora la parure di rubini, così si infilò un abito di seta color amaranto che le cadeva morbido, segnando lievemente la silhouette longilinea, nonostante l’età. Si mise una goccia di profumo dietro i lobi, abbinò il foulard e uscì, appoggiata al bastone.

    4

    Il MOMA aveva cambiato sede e anche aspetto.

    Era un susseguirsi di spazi bianchi, geometrie e altezze che ospitavano una delle collezioni d’arte più rinomata al mondo.

    Grace apprezzò le scelte stilistiche dell’architetto giapponese che aveva rinnovato l’interno facendone uno spazio bianco dove i muri erano quasi invisibili e lo sguardo si posava dritto sul cromatismo dei dipinti alle pareti. Uno spazio che era diventato un non-spazio, un infinito racchiuso.

    Rivide i quadri che ricordava e che sempre l’avevano emozionata.

    Lei, che nella villa a Pittsburgh possedeva un Picasso, un Dalí e un Miró, non aveva mai vissuto le sensazioni che ora provava al MOMA, miste di ricordi, nostalgia e sorpresa. La nuova distribuzione museale l’aveva però spiazzata. Di tutti quei capolavori, ce n’era uno che voleva assolutamente rivedere, ma non sapeva in che sala fosse esposto.

    Attraversò con calma una stanza alla volta indugiando su ogni opera d’arte come se volesse rallentare l’arrivo di qualcosa che desiderava e temeva allo stesso tempo.

    Quando lo trovò, restò immobile a osservarlo per cinque minuti.

    Poi estrasse dalla borsa il seggiolino pieghevole che portava sempre con sé da quando aveva avuto l’incidente, e vi si sedette di fronte.

    L’orologio fuso e surreale segnava un tempo dilatato e immobile. Le formiche a fianco, brulicanti, erano in un moto perpetuo. Il poco sole acido e artificiale del quadro, il panorama deserto, il ramo rinsecchito che sosteneva un altro orologio liquefatto, il profilo deformato del pittore a terra: tutto contribuiva alla sensazione di caducità del tempo, al suo trascorrere ineluttabile.

    Dopo mezz’ora Grace si alzò, ripiegò il seggiolino e raccolse il bastone appoggiato a terra.

    Attraversò le altre sale e raggiunse il bookstore per acquistare una gigantografia del quadro, che ordinò di spedire in albergo.

    A dispetto degli anni, delle rughe e del bastone, c’era una certezza che sopravviveva a tutto e per la quale era tornata a New York: la persistenza della memoria. Costante e immutabile come il capolavoro di Dalí.

    Le lancette dell’orologio liquefatto si erano fermate, agli occhi di Grace, alle 23 di una sera estiva di cinquant’anni prima.

    5

    Il taxi la lasciò all’entrata dell’hotel. L’estate era già scoppiata, afosa e umida, e il passaggio dall’esterno alla hall dell’albergo implicava un’escursione termica di almeno quindici gradi.

    Appena Grace imboccò la porta girevole dell’ingresso, il personale della conciergerie fece un cenno d’intesa a un distinto signore di mezza età, vestito in completo blu, che si muoveva con la disinvoltura di chi, in quegli spazi, era di casa.

    Le si avvicinò con discrezione. «Mi scusi, è lei la signora Grace Allison Smith?».

    «Sì» rispose Grace un po’ turbata; solo una persona nella vita l’aveva chiamata col secondo nome.

    «Io sono Adam White, il direttore dell’hotel» si presentò lui, abbozzando un baciamano. «Le dispiace seguirmi un momento, se non le è di disturbo?».

    Tutto avrebbe fatto Grace pur di non andare a sbrigare pratiche di registrazione, ma pensò che forse la segretaria aveva commesso qualche errore, quindi annuì.

    Adam White iniziò a omaggiarla, facendola accomodare nel suo studio – cinquanta metri quadri stipati di computer, televisori al plasma e stampe d’epoca – esprimendo sentite condoglianze a nome del proprietario e di tutto il personale per il lutto recente, scusandosi di non averlo fatto prima, ma Grace si era registrata col cognome da nubile e lui non poteva sapere.

    «È una gravissima perdita per il mondo della finanza» disse lui, con sguardo partecipe. «Suo marito era una persona squisita, dormiva sempre nella suite numero cinque, vuole che la trasferiamo lì?».

    Grace vedeva il gesticolare continuo, le espressioni del volto, i sorrisi, gli inchini di Adam White come se stesse assistendo a un film con sonoro difettoso; la voce ovattata

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