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Ragazzi straordinari: Wunderkinder
Ragazzi straordinari: Wunderkinder
Ragazzi straordinari: Wunderkinder
E-book760 pagine11 ore

Ragazzi straordinari: Wunderkinder

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Info su questo ebook

In una città senza nome, sede del governo del Tragenstand settentrionale, ispirato alla Berlino Est della guerra fredda, un gruppo di ragazzi gestisce un traffico di clandestini oltrecortina.
Tra atmosfere espressionistiche e paesaggi metropolitani allucinati, complotti spionistici e affari internazionali si intrecciano alle vicende personali dei giovani protagonisti: Hans, un “turista a casa propria”; Hanna, una musicista proveniente dalla più lontana provincia; Darius, il “professorino” eterodosso e ideologo del gruppo, e i due fidanzati Beatrix e Conrad.
Quest’ultimo, pittore ed eroinomane, è un “adulterato”, un figlio di genitori misti, padre meridionale e madre del Tragenstand Nord. La sua ragazza, invece, è un’annoiata femme fatale, con modi e aspetto conturbanti, a nascondere un animo inquieto e nichilista: figlia viziata di un gerarca, è ribelle più per anticonformismo paterno che per vera vocazione libertaria. 
Ministri e prostitute, musicisti rock e intellettuali impegnati, doganieri corrotti e nobili clochard, e altri personaggi picareschi, ne seguiranno il cammino, alimentando domande e misteri: fino a che punto i cinque giovani sono disposti a sacrificarsi per la loro missione?
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2023
ISBN9788832783513
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    Anteprima del libro

    Ragazzi straordinari - Giancarlo Marino

    logogufo

    Dieci

    La selezione di narrativa italiana di Homo Scrivens.

    Dieci volumi ogni anno.

    Homo Scrivens

    Direttore di collana: Aldo Putignano

    Editing: Aldo Putignano

    Copertina: Ugo Ciaccio

    Autore: Giancarlo Marino

    Titolo: Ragazzi straordinari

    Wunderkinder

    ISBN 9788832783513

    I edizione Homo Scrivens, novembre 2016

    I edizione ebook, maggio 2023

    ©2022 Homo Scrivens s.r.l.

    via Santa Maria della Libera, 42

    80127 Napoli

    www.homoscrivens.it

    Riproduzione vietata ai sensi di legge

    (art. 171 della legge 22 aprile del 1941, n. 633)

    Giancarlo Marino

    Ragazzi straordinari

    Wunderkinder

    logofrontespizio

    A mia madre, in ricordo.

    Chi arriva troppo tardi viene punito dalla vita.

    (Michail Gorbaĉëv)

    PARTE I

    AL BAUERHAUS

    CAPITOLO I

    11 mesi e 3 giorni alla Caduta, ore 19:00

    Di solito non si svegliava così presto. Erano passate due ore buone da quando era scesa dall’albero, aveva percorso le decine di migliaia di leghe che separavano la giungla dell’inconscio dalla sua stanza, s’era infilata attraverso la finestra e, prima che potesse accorgersene, gl’era entrata dentro. Cattiva. Gli prendeva spesso così, con tutte quelle pulci e i gridolini che gli urlavano nella testa. Conrad aveva letto da qualche parte che era simile a una scimmia: una bertuccia rognosa e ululante che ti scalpita nelle budella fino a salirti su nella gola, e poi rimane lì appesa alla glottide, senza risolversi a uscire fuori oppure a tornar giù. Quando era piccolo suo padre lo portava spesso allo zoo, già allora le scimmie non gli piacevano. I gorilla di montagna invece sì, neri, grossi, potenti. Per il piccolo Conrad, i veri re della foresta erano loro, molto più di certi gattoni teneroni, buoni per la pubblicità della carta igienica. I gorilla erano più che animali, erano l’anello di congiunzione tra l’uomo e Dio.

    Conrad Fischer allora credeva ancora in dio. Aveva litigato con la maestra, sostenendo in un tema che gli uomini non discendessero dai primati, bensì fossero lo scarto genetico degli stessi. Non avrebbe potuto immaginare che un paio di decenni dopo teorie simili avrebbero condannato suo padre, uomo grosso e peloso, con il viso rubizzo abbrustolito, alla graticola del Sud. Quanto s’era arrabbiata sua madre, quella volta che, a neppure cinque anni, aveva ritratto il genitore in forma di primate: una caricatura del padre, abbarbicato sulla finestrella della propria edicola eretta a mo’ di capanna, intento a sbucciare il quotidiano di regime come fosse una banana. Suo padre c’aveva riso di gusto, avrebbe sempre voluto avere gl’occhi di una tonalità più scura, d’un blu tendente al nero; sua madre, invece, gli aveva sequestrato i giornaletti per una settimana.

    Ma Kitty, così aveva deciso di chiamarla oggi (ogni volta che faceva ritorno era solito ribattezzarla con un nome differente), non era un ponderoso scimmione con il petto battente e le arcate sopraccigliari aggettanti; la sua intima scimmietta era piccina, ma aveva i denti aguzzi e le dita abbarbicate al suo stomaco. La sera tardi, più spesso in piena notte, si risvegliava e ciondolava tra la bocca e le viscere trastullandosi nell’alveo dei suoi spasmi. Allora a Conrad non restava che levarsi dal divano letto, facendo scricchiolare osso per ossicino, costola per vertebra, falange per falangetta.

    Si portò le mani alla vita tentando di sfilarsi una maglia che non c’era. Sudava e tremava allo stesso tempo, probabilmente aveva di nuovo la febbre. Si diresse verso la finestra semiaperta, e quasi inciampò in una piccola tela che giaceva sul pavimento ingombro di tubetti e pennelli. Si pulì la pianta del piede dalla vernice superflua e la esaminò: un collage con una piccola fotografia al centro del quadro ricoperto interamente di un marrone lucido. La foto, in bianco e nero, ritraeva se stesso che dipingeva il medesimo quadro marrone, ovviamente lasciando un piccolo spazio per la fotografia. Aveva il capo appena rivoltato all’indietro e un occhio, di sbieco, incontrava l’obiettivo. Conrad guardò se stesso che attendeva all’opera che gl’avrebbe consentito di guardare se stesso. Forse un solo sguardo è in grado di annullare il tempo, forse il passato e il presente a volte si contemplano l’un l’altro, forse il futuro è solo una bestia feroce che teme la sua stessa immagine, sprofondata nell’abisso.

    La scimmia aveva ripreso a schiamazzare, era da un secolo che non usava più la sua Template istantanea. Ripose il quadretto su uno dei sette cavalletti che puntellavano, attente sentinelle, la sua stanza e per raggiungere l’armadio dovette zigzagare tra i treppiedi. Barcollava. L’impresa, quasi sciistica, gli riportò alla mente i gorilla, quelli di montagna. Avrebbe voluto uscir fuori nudo e pettoruto come loro, ma considerò che il fisico non gliel’avrebbe consentito. Doveva essere in forma per potere placare gli sberleffi della scimmia. Così richiuse la finestra e prese dall’armadio una camicia lunga e bianca, bordata di rosso con un decoro geometrico. Indossò i sandali senza allacciarli: aveva i piedi gonfi per le punture e chiuderli gli sarebbe stato d’impaccio. Contemplò la possibilità di cambiarsi i pantaloni, ma d’altronde quando la mattina era andato a letto, non s’era premunito di indossare il pigiama. Guardò verso la porta del bagno, ma era già vestito, troppo tardi per fare la doccia, troppo pigro persino per sciacquarsi la faccia. Falena dalla bocca pastosa e con le ali avvizzite, fu attirato dal coacervo multicolore dei soprabiti sulla cassapanca. Scartabellò tra velluti a costine cachi e gilet cachemire, rigorosamente falsi, ritrovò persino il vecchio eskimo che piaceva così tanto a Darius. Ma poi la scimmia lo morse, dentro, nello stomaco. Aveva voglia di vomitare ed era in astinenza, e non necessariamente in quest’ordine. Gli saltò all’occhio il capo più vivace: fu abbacinato da un lembo giallo, rosso, nero, aranciato e persino un po’ verde seminascosto dalla tracolla di un tascapane con un motivo scozzese. Conrad lo disseppellì e si intabarrò nel greve poncho, stando ben accorto a non farsi accecare dalla variopinta tessitura, poi afferrò le poche banconote sulla mensola e uscì sbattendo la porta di legno dell’abbaino ricolmo di tele, pennelli e odore di vernice. Mancavano trecentotrentasette giorni alla Caduta, quando Conrad Fischer, pittore e dissidente del Tragenstand Nord uscì di casa in cerca di una dose di antiparassitari che uccidesse almeno una delle centomila pulci che tormentavano Kitty, la scimmia che viveva nella sua testa.

    Bianco, punteggiato da piccoli richiami brillanti d’un brillio giallo e splendente, laccato in oro. Un ampio spazio bianco fatto a gradoni, lievi terrazzamenti verso il centro della stanza, a sinistra una nota rosa a ingentilire gli appendini curvilinei e gigliati, a destra persino i recipienti per deiezioni, come li aveva definiti Conrad quella volta che i suoi partirono per la baita di Bocklinburg, erano in grado di annichilire nel loro lucore latteo qualsiasi impurità e vestigia umane. Sì, Conrad aveva definito quel bagno disumano, degno buen retiro di suo padre. Peccato che quei piccoli avvallamenti, quei pendii lievi che introducevano al dissolvimento delle incrostazioni quotidiane fossero a esclusivo appannaggio dei piedini screziati di rubino di Beatrix.

    Tra un balsamo al sandalo e una lozione alla mirra, aveva trascorso quel tempo del riposo in pensieri travagliati. Bea Riegler aveva solcato con lentezza gli scalini che introducevano al centro della sala da bagno ed era quasi un’ora che compiva le sue abluzioni. La relazione con Conrad le destava molte preoccupazioni, e non per la mancata approvazione della famiglia, quella in verità non l’aveva mai ricercata, indi anche se avessero voluto accordargliela, non avrebbero potuto farlo: ignoravano, o fingevano di ignorare, qualsiasi suo rapporto con quel pittore dal viso nazareno, i modi gentili di ordinanza e un adorabile sadismo innato, che l’aveva fatta innamorare già quasi tre anni prima. Ma piuttosto era la politica a dividerli: anche se avesse voluto sottrarsi dall’avere persino opinioni, se non proprio una condotta, partigiana, per non dire faziosa, come avrebbe potuto farlo, date le sue ascendenze?

    La figlia del ministro Erich Riegler. Il plenipotenziario per la sicurezza di tutto il Tragenstand Nord. Si badi bene: non il solito genitore burbero, insensibile, distante, che tutti i giovani figli avrebbero amato odiare. No, no, Herr Riegler era un padre affettuoso, ma mai premuroso; gioviale, ma mai veramente allegro; partecipativo, ma mai davvero presente. In fondo, sua figlia Bea ammirava la carriera del proprio padre, così specchiata negli alamari della divisa ufficiale e nel riflesso laminato della croce d’onore dell’Ordine di Brebeff. Anche se era contenta di tutto quel successo che le aveva consentito una vita agiata, non era mai stata un’accanita sostenitrice del Partito, beninteso non perché avesse qualche idea sovversiva o chissà che cosa d’altro: semplicemente per lei la politica del disgelo era quella che, attuandosi ogni primavera, le consentiva di fare qualche tuffo nel laghetto non più ghiacciato; e quella del rigore, la condotta che le avrebbe consentito di superare la prova costume.

    Eppure, tutto ciò non faceva affatto di Bea una persona superficiale, désengagé. Bea Riegler era semplicemente scettica. Non credeva alla grande utopia del Nord e neppure alla concretezza libertaria e diseguale del Tragenstand Sud. Ma l’acqua cominciava a farsi fredda e il suo ritardo eccessivo.

    Piantò le caviglie corpose nel liquido che principiava a defluire lentamente, alla medesima guisa della marea dei suoi pensieri. Essi calavano al levarsi della luna tra le nuvole che si andavano via via dissipando nell’annuncio della serena notte del Nord. L’oscurità stentava a dare cambio al crepuscolo sonnacchioso come il gesto di Bea dalle ampie braccia sbadiglianti. Si tamponò il viso specchiandosi tra le mattonelle traslucide, le piaceva osservare il rossore degli zigomi dilatarsi sull’impiantito. No, decisamente non aveva alcuna voglia di uscire quella sera.

    Era da un giorno che non vedeva Conrad, avevano litigato.

    Bea era gelosa di Kitty: ogni giorno le pareva che al suo ragazzo importasse di più della frutta che del loro rapporto, della relazione: sì insomma di lei. Aveva tentato di capirlo meglio, di immedesimarsi nel suo desiderio di annullamento, nell’esaltazione conseguente al buco, nel riempimento che segue al risucchio, alla fagocitazione di un cristallo. Aveva provato la frutta, limitandosi a sniffarne qualche chicco, ma non l’era piaciuta; aveva visto la rota di Conrad e le aveva fatto schifo. Non era una questione moralistica, Bea fumava tre pacchetti di sigarette al giorno, solo che il trip non le piaceva perché l’eccitava o la avviliva, a seconda dell’inflorescenza gustata, troppo. Teneva maggiormente al suo stato di depressione media, di consapevole mestizia, che a qualsiasi esaltazione naturale, artificiale o lisergica che fosse. Conrad invece aveva iniziato molto piccolo, prima che si conoscessero, probabilmente, pensava Bea, per moda, per sentirsi giusto, alternativo al sistema borghese-totalitarista del Nord, ma anche a quello borghese-liberista del Sud. Bea pensava che Conrad si facesse perché non si sentiva al posto giusto da nessuna parte, lei lo riteneva sciocco perché gli sfuggiva semplicemente il fatto incontestabile che non fossero giusti, né luì né lei, ma neppure tutti gl’altri con cui avevano a che fare (pochi), e tanto meno tutti quegl’altri, cioè la stragrande maggioranza con cui dovevano avere a che fare. Nessuno, secondo Bea, era destinato a trovare il proprio posto, perché nessuno era a posto, né in se stesso, né nell’idea che aveva deciso di spararsi in vena o nel cervello. Se nessuno ha scelto di vivere, perché qualcuno dovrebbe essere adeguato alla vita? A qualsiasi vita.

    Queste considerazioni le costavano poco, nel rifletterle dal cervello allo sguardo che si posava sull’interno della cabina armadio, tra le mensole, le grucce e gli sterminati plotoni di abiti e accessori, nel pensare insomma, Bea non impiegava alcuno sforzo. Poteva passare da una sinapsi a un’autoreggente, da un déjà vu a una gonna in pelle senza interrompere il flusso della mente, né il gas nebulizzato dal deodorante per interni. Quando guardava giù dalla finestra della sua stanza, che dava direttamente sullo stagno della tenuta dei Riegler, immaginava sempre di buttarsi di sotto, tuffandosi nello specchio d’acqua per poi risalirne mutata nella immagine di un cigno oppure magari di un pesce, come aveva letto chissà dove, chissà quanto tempo prima. Ci pensava ogni volta che apriva la scarpiera sotto al davanzale, ma poi vedeva le scarpe rosse, quelle con il tacco basso e la punta squadrata, e pensava che prima di morire avrebbe dovuto indossarle ancora almeno un’altra volta.

    Bea prese un paio di stivali neri lucidi, rifletté sull’opportunità di indossare o meno un bracciale etnico, di quelli di corda intrecciata, colorati, di quelli che non c’entravano nulla con la sua mìse giusta, ma di quelli che gl’aveva regalato Conrad quando si erano appena conosciuti tre anni prima. Tentennò, grattandosi il naso a scacciare un moschino che non c’era mai stato, lo fece arrossare fino a sentire dolore, poi si arrese alla stretta presenza di un cordino di canapa dipinta di blu, proprio lì, sul suo polso sinistro. Aprì la finestra e cercò di scorgere la famiglia di cigni che abitava lo stagno, si era sempre domandata dove avessero il nido: la sera non li vedeva mai, da bambina, quando c’erano già dei cigni, pensava che, nottetempo, si trasformassero in lucci o pesce gatti.

    Qualcosa si mosse tra il piccolo canneto nell’angolo più lontano dello stagno, ma i piccoli lampioni da giardino non le consentivano di discernere bene tra le piante acquatiche e la battigia. Ebbe freddo: le canne erano mosse da una piccola corrente che le solleticava il seno. Concluse che avrebbe dovuto indossare qualcos’altro oltre al braccialetto di Conrad. Tornò all’armadio e si sentì piccina piccina, di fronte alla distesa di abiti; Conrad le rimproverava spesso che ne aveva troppi, sembrava una ragazza del Sud; lei era angustiata dal fatto che non avrebbe mai avuto modo di indossarli tutti a sufficienza, di sfruttarli a sufficienza, di logorarli. Le piacevano gl’abiti consunti, o almeno le andavano a genio in quella primavera: aveva letto in una rivista (presumibilmente una rivista del Sud, probabilmente un webmagazine sfuggito al controllo della censura, oppure un abbonamento clandestino a uso e consumo della figlia di Herr Riegler, chissà!) che era tornato di moda il vintage.

    La pendola del soggiorno al piano di sotto, quella dal suono cupo e rimbombante, quella così incombente sul suo piccolo corpo di bambina, così insopportabile nelle sue orecchie da adolescente, così immutabilmente eguale a se stessa ai suoi occhi immoti di giovane donna, risuonò attraverso il soffitto e poi nel telaio e su fino al pavimento, dentro ai tacchi e sotto ai talloni di Bea Riegler. Era sufficientemente in ritardo.

    No, no, Bea non era certo il tipo di ragazza che amava darsi un tono arrivando tardi agli appuntamenti, è che aveva fatto da tappezzeria tra i parati del BauerHaus troppe volte per non aver mandato a memoria i 317 buchi sulla parete tra il bancone del bar e l’entrata dei cessi. Da quando li aveva contati, una volta che Conrad le aveva dato buca perché il buco gli aveva preso male ed era rimasto a computare le ore che mancavano allo spegnimento del sole, non aveva più preso una birra al Bauer, perché l’era rimasta in zucca l’idea che i tarli avessero bucato anche la spillatrice di birra e che passassero dalla birra al cesso e dal cesso alla birra. Però Bea non ricordava che quella volta, siccome Conrad non arrivava, si era calata un acido e non le aveva preso propriamente bene. Da allora aveva deciso che non voleva più farsi perché non voleva più tirarsi troppo su né troppo giù.

    Bea si sentiva troppo pigra per litigare, soprattutto poi con Conrad, e aveva lasciato perdere. Litigare con un flippato come Conrad: così lo definiva, tra sé e sé, quando lo pensava con astio, il che accadeva sempre più spesso da quando non facevano quasi più l’amore perché lui era troppo fatto per riuscirci. Chissà: forse quella volta si era calata un acido per non fare un pompino a Gustav, il barista del Bauer.

    In casa, al più avrebbe potuto rubare un po’ di vodka o whisky del padre, gliene mandavano sempre una cassa dal Sud a ogni festività comandata, civile o religiosa che fosse. Ma poi, pensò che iniziare a bere prima ancora di uscire sarebbe stato stupido, perché voleva dare un’ultima occhiata ai cigni e godersela. A dire il vero, l’ultima volta che aveva osservato i cigni da ubriaca si era tuffata con tutti i vestiti nel laghetto e la madre l’aveva fatta punire dalla cameriera, ne portava ancora i segni.

    Scese le scale e arrivò in soggiorno dove la cameriera stava guardando un documentario sulle ascendenze medievali del regime di Tragenstand Nord. Non capiva come Marie, questo era il nome della grassa domestica, riuscisse ad appassionarsi a certe trasmissioni. Probabilmente si trattava di una qualche forma di romanticheria, ma tra le scintillanti corazze dell’antico Tragenstand unificato e le moderne, austere e impolverate divise dei funzionari del Partito, c’era una differenza che avrebbe dovuto scorarla. E invece, la bassa e tracagnotta collaboratrice domestica, come, aveva letto, certa stampa filo-sudista aveva rinominato la servitù, trovava un inopinabile parallelismo tra il kaiser Wilhelm e il Presidentissimo Schweig, forse per il comune prognatismo.

    Bea prese dall’appendiabiti un boa di pelliccia bianco e nero e aprì la porta a vetri che dava sulla larga veranda. Mieow disse «Mieow!». Bea si voltò e salutò il suo onomatopeico felino che si trastullava le parti basse con la lingua rasposa. La padroncina ebbe la tentazione di accoccolarsi sul dondolo della veranda e accarezzare il micione, ma poi si decise a incamminarsi a lunghi passi verso lo stagno. Mieow rimase spiazzato dalla fuga della padrona, e dubbioso, computò i vantaggi che avrebbe conseguito seguendola: forse avrebbe potuto cacciare un paio di lucciole, lì vicino allo stagno, ma probabilmente non valeva la pena affannarsi così tanto, meglio restare sul dondolo e dedicarsi alle pulizie serali, al fresco della veranda.

    Bea, invece, si stringeva nel boa approssimandosi alla sponda del laghetto. Il lampioncino sferico le consentiva di distinguere qualche pesciolino rosso, ma non la famigliola di cigni: papà cigno, mamma cigno e la coppia di brutti anatroccoli si rifugiavano in qualche andito tra le canne che circondavano le sponde dello specchio d’acqua; nottetempo, era impossibile scorgerli. Bea avrebbe voluto essere uno di quei pesciolini. Rossi ovviamente, proprio come i suoi capelli così mossi e gonfi che le punte si intrecciavano con i peli del boa, formando tanti batuffolini che venivano via con difficoltà quando tentava di levarsi il collare di pelliccia.

    Voleva essere un pesce per andar giù, sotto l’acqua imputridita e scovare tra gli scogli e le piante acquatiche, magari all’ombra di una ninfea, uno degli anatroccoli e giocarci assieme, come nulla le importasse al di sopra di quell’acqua intorbidata da terriccio misto a rametti e poi ancora gocce di rugiada o magari di pioggia o persino di grandine, quando faceva freddo, o addirittura, di neve quand’era inverno e stare lì sotto, a giocare con i piccoli cigni, lasciandosi cullare dalle correnti sotterranee, ché in superficie di certo non se ne poteva trovare una che fosse degna di carezzarle le scaglie rosse come i suoi capelli, sì giocare sott’acqua, chiudere gl’occhi, le branchie, il respiro e poi più nulla.

    Ma s’era fatto davvero tardi per continuare a pensare al niente, e così Bea Riegler, dopo aver lanciato un sassolino nell’acqua e aver guardato il PLUF! circolare che aveva provocato, iniziò a camminare nel vialetto, lenta, non immaginando mai che vi fosse qualcuno ad aspettarla al BauerHaus.

    Il rumore gli martellava le tempie: pistoni, due pistoni che pigiavano ai lati del cranio rendendolo tutt’uno con la macchina: l’Idea che dalla sua testa passava per l’apparecchio, nei circuiti, attraverso l’incessante getto d’inchiostro, edificandosi sulla tabula rasa dei fogli.

    Darius Weber si ripromise di metter mano ai soldi della borsa, quelli che teneva da parte per i giorni peggiori, quelli in cui l’Idea sarebbe stata conculcata dall’Ideologia del Nord oppure prostituita nel Libero Mercato del Sud. Avrebbe dovuto attingere ai pochi risparmi tenuti in serbo per l’Avvenire, sì quel gruzzoletto resecato, se non proprio dimidiato dalla generosità verso i Sodali meno fortunati, o, semplicemente, meno desuefatti. Sì, avrebbe dovuto farlo e poi comprarsi una stampante laser.

    Guardò l’orologio grigio con le lancette nere che incombeva su una parete del suo studio, proprio a fianco alla grande libreria. Lo trovò austero, gli piaceva il suono di quella parola. Darius amava eleggere certi lemmi a parole della giornata, così da informarne quell’intero lasso della propria esistenza. Potevano darsi giornate solenni e altre frivole, ma anche anodine e caduche oppure addirittura esiziali. Aveva passato tutta la mattinata a leggere Lufter, un filosofo originario del Tragenstand Nord, che poi era stato esule al Sud, ma che era stato osteggiato anche laggiù e così se n’era andato un po’ più a Ovest, ma, aveva letto nella quarta di copertina, probabilmente si sarebbe presto trasferito a Sud-Est, non senza prima esser passato per Nord-Ovest. Tutto questo se non fosse già morto da almeno un ventennio.

    A Darius Weber provocavano una certa ilarità tutti quegl’esodi politico-culturali, ma, probabilmente ne rideva perché a lui e a tanti come lui, giovani intellettuali, non proprio più giovanissimi, e se proprio intellettuali, di certo non rampanti, ma neppure proni ai poteri dell’Università, dello Stato, e alle varie stratificazioni di comando e controllo che ottundevano il libero pensiero e lo sviluppo dell’Idea, a tutti loro non era concesso di circolare liberamente neanche nel Sud della Città.

    Darius Weber aveva letto e studiato tutto il giorno, aveva soltanto mangiato un’insalata e del formaggio, però si era concesso una bottiglia di vino del Sud, e poi aveva ripreso a lavorare alle sue Tesi sul Lufter, che avrebbe esposto a un seminario al Centro Culturale Giovanile del Partito, sì, perché lui, nonostante l’avessero espulso due volte, si era sempre riscritto al Partito. I manifestini in A6 che il suo vecchio macchinario aveva, tra un singulto e l’altro, rigurgitato dalle proprie fauci, erano proprio materiale di propaganda dei seminari. Il carattere comune, e la totale mancanza di indulgenze a grassetto, maiuscoletto e arabeschi tipografici di sorta, era del tutto conforme con la cifra stilistica delle ore precedenti: l’austerità. Seminario di approfondimento sulle opere e le tesi para-Werfectiane, luogo, orario, ma neppure un indirizzo mail per i contatti.

    La dicitura sibillina era un piccolo stratagemma per ovviare alla censura del Partito: Erwin Werfect era il padre dell’Ideologia del partito del Tragenstand Nord, Osvald Lufter in gioventù era stato un suo allievo, ma man mano se n’era distaccato, incappando nella tagliola uticense delle autorità. Così, da allora, era concesso discutere delle posizioni eterodosse (appunto para e mai anti), solo allo scopo di confutarle. Weber si riconosceva un certo talento nel barcamenarsi sul filo spinato dell’ambiguità, per quanto si negasse un’antitesi, il mero riconoscimento dell’esistenza della stessa poteva servire a incrinare la tesi. Per quanto riguardava la relativa sintesi, Weber poteva far poco, il più era lasciato alle menti dei giovani uditori. Il dottor Darius Weber confidava molto nelle nuove generazioni per il futuro del Tragenstand, che esse si sviluppassero lì al Nord, o magari, da un’altra parte.

    Il volume dei fogli s’era fatto copioso, Darius li infilzava nel tascapane di pelle ma disperava di riuscire a impinzarli tutti. D’altronde, le sue lunghe ma gracili braccia, per non parlare della sua cervicale, avrebbero avuto una certa difficoltà a trasportare fino al BauerHaus un carico così ponderoso. Avrebbe avuto bisogno di una mano. Pensò di chiedere a Conrad di passare da lui ad aiutarlo, ma, come s’era detto poc’anzi, non era ancora venuto il momento di attentare ulteriormente alla salute dei suoi risparmi, e di certo, la parete dietro lo scrittoio a saracinesca era abbastanza stufa di ospitare quei quadretti, ormai sempre più piccoli schizzi, a volte mere macchie di colore, ma così sgargianti: già, così estranee all’austero leitmotiv di quella giornata.

    Darius guardò di nuovo l’orologio e andò in bagno. Si abbassò i pantaloni e iniziò a urinare. Con la coda dell’occhio sbirciò nel lungo specchio a muro e si guardò il sedere e pensò che era tutto a posto. Forse non era sufficientemente austero, ma con i pantaloni di velluto a coste neri avrebbe ovviato allo scopo. Certo, probabilmente avrebbe sentito caldo, in quella tiepida serata di primavera, ma d’altronde non avrebbe mai rinunciato a un sembiante severo. Così, quando ebbe finito, non prima di un’ultima occhiata speranzosa al posteriore, si rialzò la patta, si sciacquò le mani e, dopo averle asciugate con meticolosità tramite l’ausilio di un asciugamano fiorito, indossò una giacca altrettanto scura e similmente vellutata. Poi si guardò di nuovo allo specchio, stavolta sul davanti e si mise a giocherellare con i naselli degli occhiali dorati. Una parte di sé gli diceva che era tardi, doveva andare, che l’Idea non aspetta, bisognava recarsi con premura al BauerHaus e propagandare il pensiero libertario; ma un’altra parte, lo costringeva a indugiare, giocherellando con gl’occhiali, dalla punta del naso alla fronte, dalla fronte alla punta del naso. Il dilemma che lo affliggeva era il seguente: recintare le lenti lungo le iridi, in modo tale da avere una messa a fuoco migliore, in osservanza al pragmatismo proprio di un degno servitore dell’Idea, oppure, no, lasciarli lì, scivolati in su la punta, un po’ sghembi, rilassati, casual. Era proprio un gran bel dilemma! Forse la soluzione sarebbe stata stringere i naselli. Darius fece spallucce, spense la luce e ritornò nello studiolo.

    Le cinghie della borsa faticavano a stringersi: troppi volantini. Ne prese alcuni e poi richiuse il tascapane, stando ben attento a spolverarlo con la mano. Darius era convinto che non bisognasse mai andare di fretta quando si trattava dell’Idea. Due giorni prima aveva conosciuto una studentessa del Conservatorio, tale Hanna, che gli aveva parlato delle sinfonie. Darius, che non era certo portato per la musica, era rimasto colpito dal concetto di sinfonia, con tutti quei temi sviluppati, interrotti e poi ripresi, i motivi che si intrecciavano e si dispiegavano, dagl’archi ai timpani, dai legni agl’ottoni. L’Idea, se avesse avuto una forma percepibile al di là della contemplazione nel pensiero, sarebbe stata una sinfonia. Una di quelle che iniziavano piano, magari pianissimo e poi vanno in crescendo, fino ad assumere tonalità trionfali. Quella giovane pianista, Hanna, aveva riso, era stata maliziosamente divertita dalla similitudine tra l’Idea e una marcetta da fanfara, così l’aveva definita, svilendo tutta la costruzione di pensiero del dottor Darius Weber. Ne era rimasto molto contrariato, ma, pensò mentre abbracciava il tascapane, e prendeva sotto la lunga ala e longilinea il resto dei volantini, forse in quella ragazza c’era qualcosa che potesse venir buono all’Idea. D’altronde gli aveva fatto venire lei in mente il concetto di Sinfonia ideale, così l’aveva ribattezzata quella sorta di Fenomenologia in Musica, e d’altronde, quand’era bambino non gl’era stato forse insegnato, quando ancora si professavano certi miti proto-partitici, che proprio gl’ultimi avrebbero riso per primi? Ecco magari quella Hanna Schmied ieri aveva riso di lui e per la sua Idea, ma magari un giorno, molto presto, avrebbe riso con lui.

    Questi erano i pensieri del dottor Darius Weber, assistente di Storia dell’Ideologia presso l’Università ideologica del Tragenstand Nord, mentre si incamminava verso il Corso Schnell, fuoriuscendo dal dedalo di Kwaipp, il quartiere universitario dove aveva sede il suo piccolo appartamento-studio. Weber tentava di sopperire allo sforzo dovuto ai faldoni che lo oberavano come una bestia da soma, fischiettando un motivetto allegro, che aveva imparato da bambino quand’era chierichetto. Il fiatone gli mostrava il respiro che esalava fino a perdersi nella brezza primaverile. Un fiato che ascende fino alle vette della Speranza, da una bocca insignificante di un insignificante professorucolo, l’Idea prendeva forma e saliva fino al cielo, lì dove la luna, sconfitte le nuvole oscurantiste, faceva ormai capolino. L’Idea si stagliava in alto grandiosa e suadente, come una marcetta fischiettata, al suono dei suoi passi faticosi sull’acciottolato. Muovendo a piccoli ma pervicaci balzi, al ritmo incalzante della Rivoluzione.

    Quanti risolini, insopportabili risolini e pettegoli. Hanna aveva dovuto patirli fin dalla mattinata, ma forse si trattava di settimane, se non mesi, anni. Decisamente non aveva legato con le colleghe del Conservatorio, troppo altezzose, ipocrite, cittadine. Per lei, venuta dalla campagna, adusa a risate sincere e strette vigorose, certi bizantinismi risultavano insopportabili.

    Chi si accattivava le simpatie del Maestro violoncellista con un filo d’ombretto in più, chi si aggiustava la gonna blu della divisa alzandola qualche centimetro di troppo, chi sorrideva agli oboisti mettendo in mostra la bocca carminio di fuori ma marcia di dentro. No, decisamente non sopportava più il Conservatorio. Ormai era in città da quasi quattro anni, ma non era riuscita a fare un’amicizia degna di questo nome. All’inizio ne aveva sofferto moltissimo, arrivando a dubitare che quello fosse davvero il posto per lei. Ma il Conservatorio di Madbergstrasse era il miglior posto per imparare, fare e vivere la musica, se non si voleva lasciare il Tragenstand Nord.

    Già, volere non era davvero il verbo più adatto a una giovane della Betia, la provincia più a Nord dell’intero Stato. Non aveva voluto nascere in un posto famoso solo per le chiese di legno, oramai in decadenza, tarlate e decrepite, da quando il Partito aveva sconsigliato qualsivoglia forma di culto che esulasse dalla liturgia civica dell’Ideologia; così come non aveva voluto che suo fratello Andreas morisse quando lei aveva poco più di diciassette anni, per un brutto male, che i più maligni volevano legato a certe controversie con i funzionari a capo della locale industria chimica statale; così come non aveva voluto crescere con la sola compagnia di una nonna troppo anziana e troppo stanca per potere attendere all’ampio appezzamento su cui cresceva la fattoria, che poi si sarebbe fatto negli anni sempre più piccolo, in proporzione inversa all’avanzare dell’industria chimica ideologica; certo non avrebbe potuto desiderare migliore compagna della musica. Sua madre era stata maestra di coro e insegnante di pianoforte, e le aveva inculcato l’amore per Tersicore, così amava immaginare la sua migliore amica, reificandola in una prosopopea fonica, mentre doveva ringraziare suo padre, per quelle dita lunghe come rebbi di forcone che le avevano consentito di fare della sua suadente amica immaginaria una possibilità concreta di fuga dalla Betia.

    Era stato un pomeriggio lungo, trascorso a sfogliare il suo diario, ormai giunto al sesto taccuino, dove appuntava pedissequamente ciò che le era accaduto fin da quando era salita sul treno, allora molto lento, che l’aveva portata fino alla Città, quasi quattro anni prima. Aveva letto su dei libri di suo fratello, anche lui musicista, piccola gloria locale del paesino betiano, che un tempo la capitale aveva un nome. Molti decenni prima, quando non c’era stata ancora la guerra e il Tragenstand non era stato ancora diviso in due parti. Al tempo in cui anche la Città era unita.

    Aveva dei ricordi vaghissimi di Jamal, un bambino del Sud, non Tragenstand Sud, ma di un Paese molto più a mezzogiorno, un frugoletto marroncino, magro come uno spillo, con una risata grassa e sguaiata, contagiosa, troppo grande e troppo piena per la sua stazza da soldo di cacio. E dire che anche lei era una bambina piuttosto minuta, ben diversa dalle sue colleghe aspiranti maestrine d’orchestra. Jamal era in vacanza con i genitori. Allora in Betia si poteva andare ancora a far una bella villeggiatura: oltre alla campagna, con dei boschi pieni d’uccelli e cespugli colmi di fragole e lamponi, che nulla avevano a che fare con certi prodotti coltivati artificialmente che si potevano trovare sulle tavole del Sud, la Betia era anche ricca di corsi d’acqua in superficie, ma, soprattutto, sotterranei, tant’è che era stata un vero e proprio centro termale. Tutto questo prima che la guerra e l’impianto dell’industria chimica la trasformasse in una zona grigia, dai terreni inquinati, buoni a sfornare al massimo qualche tubero tignoso.

    Probabilmente ciò accadeva già da tempo, quando Hanna Schmied era bambina, e molto probabilmente, Jamal non era altro che il figlio dei tanti lavoratori stagionali che i suoi nonni assumevano, quando, invecchiati e con un figlio partito per la guerra, non erano più in grado di badare da soli alla fattoria. Eppure, nei suoi ricordi di bambina, velati dai sogni di giovane donna, Hanna considerava quel rametto abbrustolito il rampollo di qualche principato lontano, venuto fin lassù a farle la corte, portandole il dono più prezioso che esista: un dono che non si poteva né toccare, né vedere, incorporeo. Quando aveva conosciuto Jamal, sulla riva del torrente, per la verità poco più che un rigagnolo in secca, che lambiva la fattoria degli Schmied, il piccolo stava giocando con un xilofono. E come era bravo! Riusciva a sprigionare da quei listelli metallici melodie esotiche. Hanna aveva immaginato che le serpi si sentissero proprio come si sentiva lei in quel momento, allorché erano avvinte dal suono degli incantatori. Nella sua memoria arcana, ella stessa si mutava in una danzatrice vestita di sete arancioni, con gambe e braccia roteanti, i pollici e i medi uniti, e il collo zigzagante a imitazione del cobra reale.

    Jamal se n’era andato presto, Hanna non ricordava il loro saluto. Ma il piccolo xilofono faceva bella mostra di sé sulla piccola scrivania, poco più che un banco, in dotazione alla sua camera al convitto del Conservatorio.

    Richiuse il primo taccuino, quello in pelle rossa, che aveva utilizzato come depositario delle sue memorie cittadine, come aveva soprannominato il diario, quando, appena trasferitasi nella capitale, vedeva tutto ancora in un’ottica provinciale, betiana. Adesso, seppure la Città le andasse stretta, o meglio, non le fosse mai calzata per bene, di certo non aveva nostalgia di casa. Tramite la rete, si era informata su certe scuole di musica del Sud e una volta, smanettando l’antenna del piccolo televisore che aveva in stanza, era riuscita a sintonizzarsi persino sul canale di classica del Tragenstand Meridionale: era rimasta affascinata da un servizio sulle contaminazioni con l’elettronica. Un tempo, avrebbe inorridito a tali ibridazioni avventuristiche, adesso invece, qualsiasi novità l’interessava, qualsiasi elemento contribuisse a rimescolare l’aria paludata del Conservatorio, l’eccitava in maniera pazzesca.

    Un brivido le corse su per la schiena mentre soppesava tra le dita spoglie una pen drive bianca e blu: aveva raccolto alcuni mp3 con composizioni brevi e passaggi salienti delle sue opere classiche preferite. A volte le sembrava che la musica fosse l’unica cosa reale in quel mondo posticcio. Quella sera stessa avrebbe consegnato tutto a G-T, ovvero Georg Tannenbaum, il dj del BauerHaus. Valutò l’ipotesi di spalmarsi lo smalto sulle unghie. Lì, accanto allo xilofono, c’era una boccettina scura, color vinaccia. Chissà se sarebbe piaciuta a G-T. Hanna arrossì al pensiero di quel rosso cupo che si mescolava con il biondo cenere della capigliatura del dj. G-T era un tipo basso e magrissimo, fin dai tempi di Jamal le erano sempre piaciuti i tipi ossuti, ma incoronato da una capigliatura chiara e voluminosa, che le aveva subito ricordato un cartone che vedeva spesso da bambina: era ambientato in una foresta abitata da animali antropomorfi, tra i quali c’era ovviamente anche un leone, che assomigliava moltissimo al dj del BauerHaus. Doveva chiamarsi Gedeone o qualcosa del genere. Ripensò alla sua mano tra i capelli di G-T, le unghie rosse come le fauci del felino. Probabilmente non le sarebbe spiaciuto essere una gazzella, preda dilaniata da quel grosso micione con i piatti al posto degli artigli e le cuffie a mo’ di criniera.

    Hanna scacciò quel pensiero agitando la mazzuola dello xilofono. Solo un paio di mesi prima non avrebbe certo immaginato di trascorrere le serate al BauerHaus, o al Kunster, o al Dammepiece, tutti locali o discoteche che avevano un gran seguito di bella gente, come diceva Bea, lì nella parte di Città all’interno del Tragenstand Nord.

    Già, Bea, quando era arrivata nella capitale, proveniente dalla sperduta Betia, non avrebbe mai immaginato che, un giorno, una ragazza come lei, la figlia di un personaggio così in vista come Herr Riegler, quello che i giornali e le tv del Partito chiamavano semplicemente il Ministro, insomma l’erede di un pezzo grosso del governo e d’una ereditiera proveniente dalla famiglia proprietaria del maggior gruppo industriale nel settore petrolchimico del Paese, sarebbe divenuta la sua migliore amica. Certo, non aveva avuto grande concorrenza, si trattava, a dirla tutta, della sua unica amica, eccettuati gli sporadici contatti con alcune vecchie compagne di scuola rimaste in paese. Non aveva legato con quelle intriganti delle colleghe del Conservatorio, ed era troppo timida per socializzare con i ragazzi. Durante i primi anni di pianoforte, aveva intrattenuto una vivace corrispondenza, con un sax contralto del Sud, in occasione degli sporadici contatti culturali che il governo ammetteva tra i figli eletti dell’Ideologia; allora la musica era ancora tenuta in gran considerazione nelle alte sfere. Poi, un paio d’anni prima, era stata estesa anche all’egida di Tersicore la cosiddetta dottrina Riegler: il papà di Bea non doveva essere proprio un uomo malleabile, se aveva impedito pressoché ogni contatto con gli Stati non ottemperanti ai dettami dell’Ideologia. La censura doveva permeare ogni ganglio della società, aveva tuonato al congresso del Partito, un ostracismo che a detta di molti poteva suscitare eccessivo malcontento nella nazione, per non parlare delle pessime ricadute economiche che avrebbe comportato. Bea le aveva confidato che, dopo il discorso, suo padre era tornato a casa furibondo, perché aveva ricevuto una lavata di capo direttamente dal Presidentissimo Schweig, il quale si era sentito scavalcato dalla fuga in avanti, oppure indietro, l’amica non rammentava bene, di uno dei, ma forse persino il suo più stretto collaboratore. Ma tant’è che di lettere vivaci con il suo Simon, neppure a parlarne. Hanna, comunque, conservava una foto del giovanotto, un tipo moro moro, ma non quanto Jamal, e magro magro, forse persino più di lui, con un ciuffo arrotolato nella brillantina che le ricordava il protagonista di un fumetto di qualche Paese dell’Ovest. Simon stringeva il suo sax contralto e aveva le guance gonfie, piene piene di fiato. Indossava una maglietta rossa con il simbolo di una marca del Sud. Com’era strano vedere un musicista di Conservatorio suonare senza divisa o, quantomeno, non in abito scuro. Sembrava che in quella maglietta attillata, in quegl’occhi di un’oscurità scintillante, in quelle labbra dischiuse e la bocca atteggiata come un tubista che modella la pasta di un vetro variopinto, vi spirasse un anelito di libertà, un arpeggio di lieta speranza, magari di un amore sereno.

    Hanna Schmied rinserrò la foto tra le pagine del taccuino, cercando di rinchiudervi anche i suoi pensieri. La piccola sveglia che riprincipiava a ticchettare al riassopirsi della sua mente, le rammentò che avrebbe dovuto cominciare a prepararsi. Aprì l’unica anta del suo armadio di legno rovinato dai precedenti possessori, e scartabellò tra le grucce e gl’abiti non stirati. Quando rinvenne la piccola gonna bianca s’accertò con accuratezza che non fosse troppo sdrucita. Le aveva portato bene quel panno non più così candido: l’indossava il giorno in cui conobbe Bea.

    Passeggiava con un libro in mano, fingendo di fare esercizi di solfeggio. In realtà leggeva Towar, Emil Towar, un poeta dissidente che era nato al Nord e poi era morto al Sud. Suo fratello le aveva insegnato che tutti i migliori poeti nascono al Nord ma poi preferiscono morire al Sud. Tutto un fatto di clima: essere forgiati ai rigori settentrionali, per poi lasciarsi corrompere dalle mollezze allettanti del mezzogiorno. Ma quella era solo una delle Tesi di Werfect che si imparavano a memoria alle scuole elementari. Suo fratello diffidava da quelle Tesi, da Werfect, dalla scuola e, una volta, l’aveva esortata esplicitamente a non credere all’Ideologia. Lei, piccola adolescente che passava interi pomeriggi a esercitarsi al piano, come fosse la cosa più importante del mondo, gli aveva risposto che: «Hanna Schmied crede soltanto alla musica».

    I libri di Towar erano stati proibiti dopo l’entrata in vigore della dottrina Riegler, e chi era sorpreso in possesso di una di quelle piccole edizioni dalla copertina gialla con i numeri a piè di pagina evidenziati in rosso, poteva essere condannato a una pena dai sei mesi a un anno. Hanna non si riteneva di certo una dissidente, un’attivista politica e men che meno un’intellettuale, ma gli piacevano le poesie di Towar perché erano dedicate a una donna del Sud, non del Tragenstand Sud, ma una donna di colore, con la pelle d’ebano e le labbra grandi come a baciare tutto il mondo, così recitava uno di quei versi un po’ naif, certo, ma molto romantici nell’andatura prosastica. Così, non appena aveva un paio d’ore libere tra le lezioni del Conservatorio, andava a passeggiare al DivenPark, il cui ingresso era a pochi isolati dal Conservatorio. Camminava saltellando con il libro aperto tra le mani e la gonna che svolazzava, cercando di imitare lo sbatacchiare convulso ma comunque a suo modo di vedere aggraziato di alcune farfalle gialline. Tra un passo e un saltello andava solfeggiando a voce sommessa, ma sufficientemente udibile da coloro che incrociava nell’avanzare sulla ghiaia del vialetto che si incuneava tra i prati. Le note enunciate prendevano il ritmo della metrica del Towar. Metteva in atto quello che considerava un piccolo divertissement un po’ per sfida, un po’ per pudore: come se tramutando quei versi proibiti in innocua notazione musicale potesse mitigarne il potere sovversivo, beandosi della loro piacevolezza senza rendersi rea allo sguardo indagatore dello Stato. In effetti, parte del divertimento consisteva nel praticare quelle scale e vocalizzi, passando radente alle persone, esponendosi a qualche rischio: una vecchina intenta a sferruzzare sulle panche di legno, o magari un ragazzino incuriosito dalla musica più che dalla palla che sfuggiva verso un crinale più scosceso (il parco degradava via via verso la Croa, il fiume che attraversava la capitale) avrebbero potuto avvedersi del sotterfugio, certo non identificando il volume proibito, dato che era stata accorta a rivestirlo di una sovraccoperta per quaderni di musica, ma, senza dubbio, accorgendosi che non stringeva nella mano nessun pentagramma.

    Magari, lo sconosciuto dotato d’una vista aguzza, oppure avvezzo all’osservazione proprio perché addetto alla sorveglianza di coloro che indugiavano in pratiche illecite, avrebbe potuto gridare immantinente, così da metter fine a quello scherno dell’autorità, oppure avrebbe potuto seguirla fino al Conservatorio e di lì nella camera, discoprendo fin dove si allungasse il tentacolo immondo di quella traditrice dello Stato. Avrebbero messo a soqquadro l’intera istituzione musicale e, magari, sarebbero state coinvolte persino alcune di quelle pettegole intriganti, che, a furia di malignare il prossimo, avrebbero finito per calunniare chi non dovevano. Questo pensiero la consolava quel tanto che era necessario per vincere il timore di essere scoperta, ma distraendosi in tali pensieri, aveva rischiato più di una volta di incappare in un passeggino mal sorvegliato oppure in qualche corridore intento ad ascoltare le rime del rapper del momento (il governo consentiva che venisse ascoltata certa musica meridionale, purché critica verso il regime liberista e plutocratico del Sud).

    E fu proprio così che avvenne il primo incontro con Bea. Si scontrarono un giorno di febbraio, allorché Hanna aveva tentato una sortita all’esterno del vialetto, per sfuggire al pantano che la pioggia della notte precedente aveva creato. Aveva indossato la gonna bianca come estremo atto di ribellione: faceva freddo ma lei, grazie a Towar e al liquore che le aveva inviato la nonna dal paese, si sentiva di poter sconfiggere persino il Generale Inverno, come d’altronde aveva tuonato il Presidentissimo, quando la crisi energetica si era fatta sentire. Hanna, senza togliere il naso dalle legature della silloge danzante, scantonò dietro a un rovere nerboruto finendo dritto dritto sulla ragazza rossa come la corteccia del tronco a cui era appoggiata. Fu un rimescolarsi di panno bianco, scarpe di corda e tacchetti militari, e poi capelli lunghi e rossi e neri e corti e poi, ancora, terriccio. Un gran bel mucchio di terriccio scuro e molle, ché aveva piovuto di fresco, il tutto insaporito da una spezia verde e sbriciolata. Alla ragazza rossa era caduta qualcosa di mano, qualche cosa che aveva appena ricevuto dall’ombra coi baffetti che Hanna aveva fatto appena in tempo a scorgere. L’ombra era sparita via, tra gl’angoli ciechi dei fusti e i segmenti oscurati dal crespo fogliame. Credé di aver visto uno spettro. Poi la ragazza rossa raccolse la spezia odorosa in una bustina che, ancora nella sua mano, era scampata all’impatto. Iniziò a farfugliare qualcosa a proposito dell’erba perduta. Per un istante immaginò che avesse perso un quadrifoglio o chissà quale altro raro prodigio da erbari. La rossa aveva un che di ancestrale: vestiva con un corpetto bordeaux che faceva capolino sotto un cappotto di velluto con il bordo di pelliccia. Hanna pensò che dovesse essere molto costoso. La ragazza rossa setacciò l’erba per espungere le impurità. Hanna inalò zigando come un Bianconiglio uscito da una delle favole che le raccontava la nonna, ricche di boschi, di tane, sortilegi e fiori incantati. La ragazza rossa la guardò sospettosa, mettendo la mano con le unghie corte e purpuree a protezione dell’erba. Aveva gl’occhi azzurri, molto chiari, quasi gelati. Hanna avvertì il freddo e i rametti secchi sotto al sedere. La ragazza rossa aveva un’espressione accigliata, o almeno le sembrò tale per il viso leggermente spostato su un lato, gli zigomi contratti, e gl’occhi seminascosti dalle ciglia che dovevano aver ricevuto le lusinghe del mascara. Si fissarono per degli istanti che ad Hanna parvero infiniti, poi le balenò un’idea in merito a quella strana erba che sembrava cotonata e temette davvero che quella sconosciuta, così bella e altera come una ninfa selvatica, potesse avercela con lei. Poi però la ragazza sorrise, incredibilmente aprì la bocca abbozzando un ghigno divertito. Infine, cominciò a ridere, una risata sommessa ma scintillante.

    «Uno scoiattolo! Proprio come uno scoiattolo».

    Hanna era perplessa.

    «Certo, uno scoiattolo, conosci quei roditori simili a topi ma con le orecchie più piccole e la coda più grande?»

    Hanna pensò che quella sulle orecchie grandi dei topi fosse solo una diceria, e che in effetti non ci correva molta differenza con quelle degli scoiattoli.

    «Non hai visto come è fuggito tra gl’alberi? È sparito, chissà se si è arrampicato!»

    La mente di Hanna tornò a un vecchio cartone con protagonisti due scoiattolini che ne facevano di tutti i colori, mentre un prisma d’arcobaleno si era fatto largo proprio lì, tra lei e la ragazza rossa.

    «Ti sono debitrice: se ne è andato prima che pagassi l’erba e non mi ha neppure dato il quartino per Conrad».

    Hanna allungò il musetto dubbiosa.

    «Sì, il mio ragazzo, lui ha abbandonato l’erba da anni, adesso, ogni tanto, si fa una canna di ero».

    Allora era proprio uno spacciatore! L’ombra sgattaiolata al suo arrivo doveva essere uno dei tanti pusher del parco.

    Aveva sentito dire dalle smorfiosette del Conservatorio che lì era pieno di droga, ma l’unica tipa che avesse mai visto fatta era stata una clarinettista dell’ultimo anno che era arrivata alla prova generale del saggio magra come una soglioletta e altrettanto squamata, la divisa estiva le aveva lasciato le braccia viola e scoperchiate come un bidone della spazzatura. Era stata espulsa dal Conservatorio senza cerimonie, sbattuta fuori senza neppure renderle l’ancia d’oro, che pare fosse un cimelio di famiglia. Da allora Hanna aveva stabilito di stare lontano dalla droga.

    «Sai, ora Conrad si arrabbierà molto perché non gli ho comprato la frutta. Non poteva passare lui perché adesso è a un seminario e poi il parco è divenuto pericoloso, sempre più agenti lo sorvegliano e si rischia grosso a rifornirsi qui».

    Hanna aveva sentito quell’espressione più volte, ma ancora non si era abituata alla locuzione cittadina per indicare gli stupefacenti.

    La rossa intanto si era accoccolata vicino alla quercia, al fianco di Hanna.

    «E allora perché tu ci vieni?»

    «Perché io vado dove voglio» rispose la ragazza rossa, guardando fisso davanti a sé. C’era un passero che si era fermato a raggranellare un po’ di erba perduta.

    «E tu, invece, cosa fai qui?»

    La ragazza rossa aveva raccolto il libro di Hanna da terra.

    «Io… io faccio… esercizi, esercizi di solfeggio».

    La ragazza rossa sembrava non cogliere l’imbarazzo di Hanna: «Mi è sempre piaciuta la poesia di Towar. Dicono che anche lui si bucasse, ma io non ci credo: sono le solite cazzate che s’inventa per buttare un po’ di fango quando si annoia».

    Anche Hanna aveva sentito che Towar era un drogato, gliel’aveva detto il suo insegnante di letteratura al liceo. Nelle scuole del Tragenstad Nord era invalsa la voce secondo cui Emil Towar fosse fuggito al Sud perché lì ci si poteva drogare indisturbati, aveva saputo, non ricordava più come, che laggiù la droga era più diffusa della birra. In Conservatorio si diceva che anche la clarinettista fosse espatriata al Sud, e pareva che i suoi l’avessero fatta scappare lì perché al Nord non riuscivano a disintossicarla. O meglio, non volevano inviarla nelle comunità di recupero che c’erano in questa parte di Città. In Conservatorio dicevano che chi andava in quelle cliniche come Babel o Trowenald, non facesse più ritorno, o se proprio tornava… quella volta le pettegole avevano lasciato la frase in sospeso. Ma lo facevano sempre quando s’accorgevano che la Betiana era in ascolto. Befana Betiana, così l’apostrofavano. Hanna scosse il capo, lasciando che il pensiero cattivo si divincolasse, scorrendo via lungo il crinale che digradava verso il fiume.

    «Ma lo sanno tutti che Towar è un vecchio drogato e persino sodomita».

    La ragazza rossa guardò Hanna di sottecchi e poi disse con degnazione: «A dire il vero, in effetti è proprio frocio, ma non è vecchio, è morto e se proprio si faceva, non era da meno di tutta la cricca di intellettuali di questa Città, sia che abitino negli attici dei grattacieli a Sud, che in qualche villa inizio secolo, qui al Nord».

    Hanna guardò la ragazza con curiosità: mostrava uno sguardo determinato e sfuggente, come se corresse lì dove il pensiero la portava, incurante delle obiezioni o delle deficienze dell’interlocutrice. Pensò che la doveva saper lunga. Seta rossa carezzata tra le spole del telaio, ciocco rozzo tra le mani di esperto intagliatore.

    «Hai conosciuto Towar?»

    «Non è sempre stato così inviso al governo, a Schweig e a mio…»

    Hanna non si sarebbe mai aspettata di trovarsi a una lezione di geopolitica seduta sotto a una quercia al fianco di una sconosciuta.

    «Ma tu chi sei?»

    La ragazza rossa si interruppe, restando con la bocca aperta, le parole a mezz’aria e i pensieri sgocciolanti insieme alla rugiada che stillava dalle ghiande.

    «Il mio nome è Beatrix Riegler, ma tu puoi chiamarmi Bea».

    Quella mattina di febbraio Hanna Schmied aveva travolto nella sua corsa cadenzata Beatrix Riegler, eppure, da quel giorno era stata Bea a ribaltare la tediosa esistenza di Hanna. La figlia di Herr Riegler (anche chi come Hanna non si occupava affatto di politica non poteva ignorare l’esistenza del Ministro, il plenipotenziario, l’intimissimo del presidente Schweig) era una sorpresa perpetua per la giovane provinciale: le pareva che quell’amicizia, subito così affabile, quasi intima ma mai davvero invadente, non avesse avuto soluzioni di continuità, anzi a volte si sorprendeva a cercare di ricordare i suoi anni cittadini prima di quello scontro casuale e le costava una gran fatica rinverdire i germogli della rimembranza di una vita così apatica. Con i suoi modi distaccati e il piglio perennemente assorto, e forse proprio per questo così sussiegoso e coinvolgente, Bea le aveva ben presto mostrata la sua Città. In poco più di due mesi aveva girato più posti che nei precedenti tre anni e passa. Non che avesse trascorso tutto questo tempo chiusa in Conservatorio: beninteso il mausoleo di Wilhelm II l’aveva visitato e così pure la Galleria d’arte Contemporanea e persino l’AlteMuseum; aveva pure pranzato nella più antica osteria della Città, una trappola per villeggianti, che di medievale conservava solo l’asta della banderuola ove era scolpita l’insegna in ferro battuto, poi solo uno scorrere di birra che suo fratello avrebbe giudicata cattiva e camerieri in salopette, il tutto condito da un’agghiacciante fisarmonica che nulla aveva a che fare con il folklore, lei sì che poteva dare un giudizio di merito, cresciuta a salumi e fanfare betiane, men che meno con il buongusto.

    Bea di buongusto ne capiva e molto. O meglio aveva un certo gusto, tutto suo, così diverso dalle mode rusticane delle sue gonne semplici, dai colori univoci e tenui della campagna del Nord. Le indicava dove comprarsi da vestire e da mangiare: ristorantini, o più spesso chioschi e venditori ambulanti etnici, sempre troppo speziati per i suoi gusti schietti e poco lavorati, e negozietti piccoli, in stradine laterali del Centro, mai nelle grandi boutique dei quartieri alti come Rubris o Titletow, dove pure avrebbe potuto permetterseli. Era in quei gusti discosti, un po’ celati all’ombra dell’intrico dei vicoli che si disvelava la personalità centrifuga di Bea. Quando si muoveva sicura scantonando in pertugi in cui Hanna non si sarebbe mai avventurata, sprofondando nelle intercapedini, traversando gl’anditi per poi condurla di nuovo dove un sole sempre troppo tenue le rischiarava le guance affannate e le nocche rosse al peso delle buste. Hanna doveva comperare con oculatezza, non avrebbe potuto permettersi quel coacervo di tessuto che l’amica ammonticchiava sui banconi ricoperti di giunchi intrecciati, in stanze talmente fragranti che la facevano starnutire. Eppure non aveva mai sofferto allergie prima, adusa com’era ai mille profumi della campagna.

    Pensò se fosse davvero il caso di indossare un jeans. Sbuffò e scosse la testa facendosi coraggio e rimise mano alla gonna bianca. Valutò che un paio di collant color carne potessero essere una protezione sufficiente. Poi passò alle scarpe: quelle di tela, bianche come la gonna, erano rovinate a causa delle fanghiglia. Ripiegò su un paio di ballerine scure. No, decisamente non aveva voglia di uscire, e men che meno di attendere per mezz’ora buona Bea alla fermata della metro. Il BauerHaus era lontano, e ci volevano una ventina di minuti nel serpente sotterraneo. Già, così lo chiamava suo fratello, nei suoi racconti adolescenziali, quando andava a trovare i cugini in Città. Lei, che era molto piccola, aveva una paura matta che quell’enorme rettile d’acciaio fagocitasse una volta per tutte il suo fratellone, senza più rigurgitarlo. Così spesso finiva per piangere quando lui partiva per il fine settimana. Allora Andreas la rassicurava: «Non devi preoccuparti, io sono troppo indigesto per il serpente sotterraneo, lui mangia solo i rammolliti di Città, vedrai che mi caccerà fuori ancora una volta». E poi mimava dei terribili conati con il risultato di terrorizzarla.

    Richiuse la porta della stanza dietro di sé e percorse il corridoio del dormitorio. Alcuni studenti accordavano i loro strumenti, altri chiacchieravano ridacchiando, qualcuno urlava ascoltando musica prog, qualcun altro invece stava zitto e magari tacendo faceva l’amore. Era stata davvero fortunata a ottenere una camera singola. Della sua ammissione si era interessato uno zio, il padre dei cugini che Andreas andava a trovare. Lo zio lavorava allo zoo, puliva le gabbie dei pinguini o qualcosa del genere. Ma era anche molto amico del direttore che a sua volta era intimo della signorina Capler, la direttrice del Conservatorio. E così, era riuscita a ottenere una borsa di studio che le aveva consentito di iscriversi a una delle principali istituzioni del panorama musicale del continente. Mentre usciva dall’alta ogiva che coronava l’ingresso dell’edificio settecentesco, ripensò alla vergogna, al litigio con sua nonna e suo fratello allorché seppe dell’entratura combinatale dallo zio Walter, così si chiamava. Poi, Andreas, come sempre, era riuscito a farla ragionare. Avrebbe avuto ciò che meritava, sconfiggendo il pregiudizio verso i betiani e tutti coloro che non potevano permettersi la retta altissima. Doveva considerarla un’opportunità di riscatto non per lei, ma per tutti quelli come lei. E poi l’ammissione non era affatto un punto d’arrivo, solo l’inizio di un percorso lungo e difficile. Avrebbe avuto ampiamente modo di dimostrare che quella raccomandazione non era stata solo utile, ma necessaria: altrimenti l’istituzione, il Tragenstand e la musica del mondo intero si sarebbero persi un talento inestimabile, una delle più grandi interpreti del pianoforte del secolo e anche di più. Insomma, Andreas sapeva essere teatrale, teatrale e convincente, anche verso la fine.

    Dopo la morte di suo fratello, i rapporti con suo zio e i cugini si erano diradati: avere un parente inviso allo Stato non era certo facile, e senza ombra di dubbio a malincuore o almeno così le riusciva agevole pensare, non aveva più visto lo zio, che poi era l’unico rimasto nella Città, i cui due figli, Franz e Lotte, si erano da tempo trasferiti per studiare Informatica a oriente, in uno di quelle miriadi di Stati satellite che fornivano tecnologie e risorse al Tragenstand Nord, ricevendone in cambio vessazione politica e indottrinamento Ideologico.

    Guardava verso Lighterstrasse, dove un signore bassissimo, con il capo celato da una bombetta troppo grande, aspettava alla fermata dell’autobus, facendosi caldo con le mani sfreganti, mostrando di provare un freddo eccessivo a parere di Hanna. Di tanto in tanto interrompeva quell’attività per soffiarsi sulle nocche ben serrate. Hanna proseguì oltre verso le scale che portavano al nido del serpente sotterraneo. La stazione era semideserta, eccezion fatta per una donna con la pelle appesa e il gilet da controllore che si ripiegava sollecitato dal grasso in eccesso. Arrivata alla banchina, c’era solo un uomo compunto: sotto al cappotto di cammello, anche questo eccessivo per la temperatura primaverile, si poteva scorgere la marsina di un frac inamidato, questo insieme alle labbra spesse e al sorriso, giustificava la voluminosa pinguedine. Hanna non capiva perché vedeva ovunque animali, anche l’uomo che si strisciava le mani alla fermata dell’autobus, con quei movimenti singulti, con il collo che si abbassava a soffiare e poi si rialzava a intervalli regolari aveva un che di aviario, uno struzzo che becca del mangime, allungando il collo fino in terra. C’era qualcosa di animalesco persino nell’aria: le correnti di risucchio dalle gallerie erano un continuo digrignare ed ella stessa si sentiva facile preda degli eventi, cucciolo indifeso, magra gazzella. Poi, finalmente, poté smettere di dare peso a tali presentimenti: il serpente sotterraneo era arrivato e l’aveva inghiottita.

    CAPITOLO II

    Preferiva il tram. Ci avrebbe impiegato maggior tempo, ma avrebbe potuto

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