Il mare di Cristobal: Un libro da leggere assolutamente
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Info su questo ebook
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Nella memoria evocata tornano alla luce i quotidiani ricordi di pace e di guerra che attraversano la lotta per l’indipendenza delle colonie americane dall’Impero britannico, affrontando la crudeltà e lo schiavismo.
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Un romanzo apertamente filosofico, ambientato all’interno di un momento di rivoluzioni che cambieranno il corso della Storia, delle quali siamo noi oggi tutti figli.
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Dalle pagine respiriamo essenze anarchiche che si sollevano a partire da contesti paradossali, attraverso i colori del romanzo di mare, di viaggi, d’avventura, all’inseguimento dei modelli offerti dalla meravigliosa letteratura di Conrad e di Marquez.
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Anteprima del libro
Il mare di Cristobal - Fabrizio Ferloni
patria
I
Gli uomini avevano smesso da tempo di considerarlo uno di loro.
Il comandante Cristobal Fernando Enrique De Ignacio Valenciano Da Costa non riteneva più la cura del suo aspetto cosa degna d’attenzione da tanto; eppure, c’erano momenti che avrebbe voluto gridare il suo passato in piazza, perché tutti lo sentissero. Quelle misere esistenze sogghignanti nemmeno tutte insieme sarebbero bastate a compensare la storia dei diciassette anni passati al fianco del grande Capitano Giovan Battista Archelao.
Ricordava benissimo il suo ultimo giorno a bordo di una nave: era il ventisei agosto del millesettecentottantaquattro, l’addio al vascello e la scaletta scesa senza voltarsi per non restare impietrito nel rivedere tutta la sua vita e la sua stessa anima, che rimanevano lì, sul ponte di comando, a guardarlo andar via per sempre.
Lasciò il mare ch’aveva appena mantenuto la promessa fatta al suo Capitano, nel giorno in cui lo sostituì al comando.
Aveva vissuto a Cartagena, Lisbona e Genova, e si era stabilito per sempre nell’ultima, che conosceva da prima della vita stessa e dove aveva trovato il posto ideale per il suo quotidiano oblio; proprio lì, in quella taverna, nel porticato d’uno fra i più antichi palazzi privati sul fronte del porto.
Da più di due anni non era stato sobrio un solo giorno e, cacciato dalla stanza a pensione, che non poteva più permettersi, si era dovuto trasferire nella vecchia cisterna vuota del cortile interno di quello stesso palazzo. Le pareti, ricavate da due intercapedini sotterranee, erano completamente coperte di muffe e piccoli funghi bianchi e celesti che al buio emanavano luce propria, ed erano servite, tanto tempo prima, per nascondere la merce dalle scorribande saracene. C’era solo una piccola branda con, da un lato, una tinozza di metallo non meglio distinguibile nel buio, ma Cristobal lo riteneva un posto come un altro dove dormire comodo, a pochi passi dalla prossima sbronza.
II
Il tre maggio del millesettecentonovantuno non era altro per lui che un numero sul calendario, un altro sole che penetrava ovunque, coi suoi raggi impertinenti e irresistibili.
Salito nella taverna, aspettava l’ora di pranzo, masticando piccole acciughe conservate sott’olio e svuotando la prima bottiglia del giorno, quella offerta dall’oste. Le successive le avrebbe mendicate in qualche modo.
Da un po’ di tempo un bambino di sei o sette anni lo seguiva ovunque, affascinato da ciò che i grandi non potevano vedere: le storie che un uomo come quello nascondeva fra i suoi vecchi vestiti, nelle fosse d’un viso consumato, dentro quelle grosse borse che si afflosciavano sotto gli occhi un po’ spenti e che sembravano voler sottolineare lo sguardo umido, stanco, sempre identico a se stesso, in una gara che si ripeteva nei giorni con la propria espressione.
Nonostante la mamma lo avesse picchiato più volte, con le mani grandi da lavandaia, il piccolo Ermete tornava a infilarsi di nascosto nella taverna ogni volta che riusciva a sfuggire al suo controllo. Qualche volta scavalcava il muretto, poco più alto di lui, che separava il suo terrazzo dal cortile dove s’apriva il buco d’ingresso alla vecchia cisterna, per poi entrare nella taverna attraverso la finestrella del bagno. Oppure passava direttamente dalla porta principale, nascondendosi dietro la mole di qualche buon bevitore, e poi saltellando fino a raggiungere Cristobal, coprendosi dietro gli sgabelli e abbassandosi sotto i tavoli, in una specie di danza di Pan. Si appiccicava a quel vecchio trasandato che, ubriaco, borbottava di memorabili battaglie, e pretendeva, fra risate e qualche calcione, il saluto ossequioso di chi gli passava dinnanzi, come si doveva a un uomo del suo rango.
In un paio d’occasioni se l’era presa con le persone sbagliate, attaccabrighe di quartiere o marinai stanchi del mare, evitando il peggio solo grazie all’intervento del proprietario della taverna, un brav’uomo con una risata mastodontica e sempre rosso in viso per il piacere di tener compagnia ai clienti.
Nonostante godesse di questa sorta di protezione fraterna, la sera non era raro che Cristobal uscisse barcollante e malconcio in piazza, lamentandosi per il dolore delle botte prese, che s’accanivano sulle sue ossa come quando era in mare e la furia della tempesta lo sballottava senza pietà da un albero all’altro della nave.
III
Le mattine trascorrevano identiche, ripetendosi al suo sguardo come le immense coste d’Africa. Solo una mezza frase rendeva quell’inizio di giornata diverso dagli altri: prima di brindare con lui al nuovo sole, l’oste aveva guardato per un po’ di là dal porticato su cui si apriva l’entrata della taverna.
«Se esci, sta lontano da quel brutto muso là fuori: non mi piace come sta, così, seduto a non far niente. Non mi piace. »
A Cristobal pareva non interessare, aveva lanciato un breve sguardo in quella direzione e senza batter ciglio era tornato con gli occhi giù a fissare il bicchiere, dicendo:
«Strano. Di solito parassiti come quelli si muovono dopo il tramonto, quando gli uomini sono già tornati a casa. E comunque non sopportano la luce. Non sono a loro agio con la luce. Non tanto perché tutti possono vederli, ma più perché possono vedersi da sé, con l’occhio della cultura che alberga in loro; poveretti. È l’occhio di Dio che s’è insinuato nell’anima, e li rovina, li umilia, li rende pavidi e vergognosi, colpevoli ancor prima d’aver commesso una colpa, incapaci di fare sia il bene che il male, lasciandoli sottomessi e mutilati. Se non fosse per Dio, magari, vivrebbero vite dignitose. Non sarebbero animali del buio, senza volto e senza speranza. Ci vuole ben altro per spaventarmi. T ipi come quello non avranno mai il coraggio per affrontarmi, conoscono i loro limiti, è solo così che sopravvivono, e poi, ho imparato ad avere a che fare con loro in luoghi ben più rischiosi di questo. »
Il proprietario della taverna restò a chiedersi come potesse un uomo così esser stato un grande uomo: non ne portava alcun segno, e si dice che i grandi rimangano grandi anche in disgrazia.
IV
Approfittando di quella conversazione apertasi per caso, il piccolo Ermete, da lì accanto, aveva domandato: «Tu da dove vieni?».
Cristobal lo aveva fissato dai suoi occhi senza fondo, poi, puntando l’indice sinistro verso la porta, aveva tuonato: «Il tuo posto è là fuori; nel mondo! Gli uomini hanno bisogno di nuovi capitani e tu lo sarai presto; ma prima devi decidere se essere un timorato figlio di Dio o un uomo solo, con il suo intelletto e la sua volontà, contro il resto del mondo, e, forse, con qualche amico fra i pochi uomini del mondo».
Il bimbo continuava a osservarlo con curiosità, però l’espressione spavalda si era velata di preoccupazione: quel vecchio, in fondo, gli aveva sempre fatto anche un po’ paura. Voleva però sapere quello che ancora non poteva vedere: quello che c’è oltre la linea del mare, dopo il cielo, dove sprofonda il sole.
Così provò una nuova domanda: «Tu chi sei?».
«Cristobal» fu la laconica risposta.
Prese una lunga pausa, sospirò, sollevò ancora la testa verso il buio del soffitto. Le pupille gli roteavano come pianeti impazziti attorno alle orbite, poi ricominciò di scatto, come temesse di non aver abbastanza tempo per arrivare fino in fondo.
«La terra dove son nato? È una gran terra. Si chiama Portogallo: una sottile striscia di costa, candida come una vergine in convento, corteggiata senza soste dagl’impetuosi attacchi dell’Atlantico, nell’estremo occidente d’Europa. Un trampolino verso l’ignoto. È bellissima, e tanti fra quelli che l’hanno incontrata se ne sono innamorati; tante persone diverse unite nello stesso abbraccio d’amore. È proprio come una di quelle puttane che s’incontravano nei viaggi ai Caraibi, quelle che promettono a tutti amore eterno e santa pazienza in solitudine, e che sono così convincenti che tutti finiscono per crederci, anche quando lo dicono a due o tre di noi assieme. Nemmeno il Capitano Archelao era immune al loro richiamo.»
Cristobal sembrava pervaso da un’ispirazione divina, come illuminato da una luce che gli arrivava dritta dall’anima, e il suo racconto scorreva come un fiume impetuoso.
V
Il Capitano passava intere giornate ad ammirare quelle creature meravigliose con avido desiderio, assorto in un’espressione beata, e, alla sera, quando era più fresco, ne sceglieva una e passava con lei tutta la notte. La lasciava al mattino e la stringeva forte a sé, come fosse stata l’unica donna di tutta la vita. Una volta tornato a bordo, però, mentre gran parte dell’equipaggio sognava ancora a occhi aperti vite immaginarie fatte di sesso e beatitudine, egli sembrava conservare soltanto una lontana essenza del tempo passato nelle braccia dell’amore, e forse era da questo disincanto che traeva la forza per portare a