Frammenti di donna
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Info su questo ebook
Somei-Yoshino, lo pseudonimo scelto dall’autrice, è la varietà di ciliegio più diffusa in Giappone, nota per i fiori dai petali bianchi con una lieve sfumatura rosa. La scelta del fiore di ciliegio è dovuta al significato attribuito a tale fiore, simbolo di fragilità e tenacia insieme. Fragile, ma tenace è l’autrice, che, nonostante le sue debolezze e i suoi limiti, affronta le dure prove che la vita le ha riservato, trovando la forza di superarle per intraprendere il lungo e faticoso percorso verso la consapevolezza di sé.
Poiché riportare qui una breve biografia dell’autrice ne tradirebbe l’identità, si dica che trattasi di donna che, per decenni, ha rivestito con rigore integerrimo i ruoli che la società si aspetta che ogni donna, in quanto tale, svolga, senza tenere in alcuna considerazione la sua identità vera. L’autrice incarna quelle donne che hanno la forza di intraprendere il cammino verso la consapevolezza di sé, del proprio valore, a prescindere dai ruoli in cui la società le incasella. Inoltre, l’autrice desidera indurre la messa a fuoco di eventi critici di cui sono vittime molte donne: dalla depressione post parto alla violenza psicologica subita nei rapporti di coppia. Infine, l’autrice invita a riflettere sulla tematica dell’omicidio del consenziente.
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Anteprima del libro
Frammenti di donna - Somei-Yoshino
La sindrome ansioso-depressiva
Sono stata incline alla depressione, fin da bambina. Forse perché affetta dalla sindrome della primogenita, io, fin da piccola, avvertivo il dovere di reggere sulle mie deboli spalle il peso della responsabilità per le mie due sorelle minori, M. e C.
M., di ventuno mesi più piccola di me, è stata per me più di una sorella, una gemella. Provavo per lei una grande ammirazione, per la sua vivacità, per la sua intraprendenza e per la sua irrefrenabile voglia di divertirsi cui si contrapponevano il mio atteggiamento dimesso, il mio essere schiva, per sfuggire agli occhi degli altri, la mia tendenza a preferire restare entro le mura domestiche piuttosto che uscire allo scoperto. Per C., poi, di ben dieci anni più giovane di me, sono stata una seconda mamma piuttosto che una sorella... avevo nei suoi confronti un atteggiamento protettivo e non potrò mai dimenticare il senso di grande scoramento che provai quando la presi in braccio, lei poco più che neonata, e la posai sul pavimento, nella convinzione che potesse restare seduta. All’opposto, C. era troppo piccola per poter mantenere una tale posizione, cosicché cadde all’indietro battendo forte il capo sul pavimento. La corsa all’ospedale, la notte trascorsa sotto osservazione... e io che mi maceravo per il senso di colpa, a soli dieci anni di età.
Il mio approccio nei confronti della vita non è affatto cambiato nel corso degli anni adolescenziali. Anzi... tutt’altro... M. continuava a voler appagare il suo desiderio di vivere e di divertirsi, mentre io prediligevo restare chiusa nella nostra camera, allo scopo di studiare per ottenere i risultati scolastici migliori che fosse possibile. In effetti, mi ero fatta carico di un’impresa ciclopica per una liceale: il riscatto socio-economico per me e per la mia famiglia, in virtù del conseguimento di un titolo di studio che mi avrebbe consentito di emergere dal quartiere popolare da cui provenivo. Quindi, sebbene M. mi pregasse affinché andassi con lei in discoteca il sabato pomeriggio, io, imperterrita, le rispondevo che non mi era possibile, in quanto dovevo prepararmi adeguatamene per il compito in classe del lunedì successivo. M., allora, desisteva e optava per la sua amica C. che, tanto quanto lei, adorava trascorrere i pomeriggi del sabato in discoteca, sì per ballare, ma anche e soprattutto per fare qualche incontro fortunato con un bel ragazzo con cui poter coronare il sogno d’amore tipico delle adolescenti di allora: poter girare per il quartiere mano nella mano con lui, per pavoneggiarsi con le amiche.
E nulla è cambiato negli anni a venire. In effetti, ho continuato a coltivare la convinzione che la mia vita dovesse essere fatta soprattutto di doveri piuttosto che di piaceri: il dovere di studiare per conseguire il tanto agognato diploma di laurea, il dovere di ottenere una posizione lavorativa dignitosa, il dovere di sposarmi e di mettere su famiglia. Il tutto vissuto senza particolari clamori o entusiasmi. Ad esempio, volli che nessuno presenziasse alla discussione della mia tesi di laurea e i festeggiamenti per quel raggiunto obiettivo consistettero in un dimesso rinfresco a casa mia e di mio marito, giacché nel frattempo ero convolata a nozze. Nessun clamore neanche per aver vinto il concorso pubblico che mi consentì di entrare nel mondo del lavoro. Anche il matrimonio è stato da me vissuto in sordina. In verità, ricordo che, dopo tre anni di fidanzamento, con alti e bassi, cominciai a considerare il matrimonio come il necessario inevitabile epilogo del fidanzamento. Quindi, un matrimonio che, per forza di cose, mi vide emotivamente coinvolta, ma affatto convinta. Anzi, probabilmente, non era convinto neanche il mio sposo... eravamo davvero innamorati l’uno dell’altra? Sinceramente non lo so dire neppure adesso... a volte penso di non aver mai saputo che cosa significasse essere innamorati... o forse sì... all’età di dieci anni, alle scuole elementari, penso di essere stata davvero innamorata di un compagno di classe, un bambino ai mie occhi bellissimo... all’uscita da scuola mi rallegrava poter percorrere con lui un tratto di strada verso casa... e provavo una grande gelosia nei confronti di una bambina dai folti ricci biondi che, abitando più avanti lungo la strada verso casa, aveva il privilegio di poter trascorrere più tempo con lui rispetto a me.
La mia modalità piuttosto dimessa di vivere anche i momenti più lieti, provando imbarazzo nel costatare che un moto emotivo mi sta pervadendo, da cui la necessità di fare ricorso a tutti gli espedienti possibili per contenere quella sensazione che non si addiceva alla mia personalità, in un faticosissimo esercizio di autocontrollo, nell’intento di mantenere per quanto possibile celate le mie emozioni, si tradusse, un bel/triste giorno nel caso conclamato di depressione che mi colse nel corso degli ultimi mesi della mia prima gravidanza. Una gravidanza cercata per un lungo anno, arrivata quando ormai si immaginava di dover far ricorso alla terapia ormonale. Ebbene, inaspettatamente, scopro di essere incinta e sono ilare. Vivo con intensità ogni momento della gestazione. Sono trepidante e desiderosa di osservare la vita sbocciata nel mio ventre attraverso le immagini delle ecografie... poi qualcosa accade. È estate, il caldo è soffocante, il pancione è enorme e avverto una pressione all’altezza dello sterno, tanto che respiro a fatica. Di notte, mi sveglio di soprassalto a causa della fame d’aria... allora mi affaccio alla finestra e cerco di inspirare più aria possibile...
Giorno dopo giorno si fa netta in me la convinzione che non sarò in grado di prendermi cura del nascituro: io sto diventando madre e, invece, mi sento ancora figlia, voglio restare ancora solo e soltanto figlia.
Arriva il giorno del parto, un cesareo d’urgenza dopo ore e ore di travaglio che non hanno condotto al risultato sperato. Sono l’ultima a vedere il mio bambino perché sono stata anestetizzata totalmente e i tempi di ripresa da un intervento chirurgico sono molto più lunghi rispetto a quelli di un parto naturale. Sono ancora ricoverata ed è allora che mi rendo conto che qualcosa in me si è inceppato: osservo i visi di coloro che vengono a farmi visita. Sono raggianti perché esprimono la contentezza di chi è diventato nonno, nonna, zio, zia... nessuno di loro può immaginare che io, invece, sono assalita dallo sgomento: io mamma... io che non sono in grado neanche di badare a me stessa, come potrò prendermi cura di un neonato che dipende da me in tutto e per tutto?
I primi giorni a casa, dopo il ricovero, mettono a dura prova il mio autocontrollo. Sono letteralmente incapace di svolgere le più elementari azioni del vivere quotidiano, anche il solo vestirmi mi sembra impossibile. Cosicché resto in camicia da notte da mattina a sera. Mio figlio, che adoro, non mi lascia tregua e piange continuamente, disperatamente (o almeno a me sembra che sia così) per non so quale diavolo di motivo. In verità piange perché ha semplicemente fame, ma non arrivo a capire che, per tacitarlo, sarebbe stato sufficiente offrirgli la mammella. Non lo faccio perché mi spaventa l’idea che quell’esserino debba succhiare il latte dal mio seno per sopravvivere. Ed è proprio costatare questa sua totale dipendenza da me che mi provoca un’angoscia crescente. Una notte, il bambino piange disperato e il suo pianto mi trapana il cervello. Sono completamene inerte e inerme. Mio marito chiama mia madre affinché mi venga in soccorso... Mia madre arriva in piena notte... il bambino ha fame... tutto qui... il mio latte non è sufficiente e gli si prepara un biberon di latte artificiale...
Ormai è chiaro, ho bisogno di un supporto psicologico... lo realizzo in un pomeriggio d’agosto... a casa ci sono i miei genitori... mia mamma accudisce il piccolo... io cedo al sonno dopo notti trascorse nel delirio... quando mi risveglio e mi rendo conto che i miei genitori non sono più presenti e che, quindi, sono da sola con il neonato, mi prende il panico... mi manca l’aria... in verità non sono sola, c’è mio marito, ma è evidente che non confido nel suo aiuto... anzi lo percepisco come un pericolo perché, in caso di difficoltà, lui non farà che aggiungere ansia ad ansia, pretendendo che sia io a risolvere il problema senza il suo minimo coinvolgimento. Cosicché, finisco dallo psicoterapeuta il quale diagnostica una depressione post-parto. La teoria sostiene che durante il travaglio il dispendio di energie è tale da comportare un consumo smodato di endorfine, quei neurotrasmettitori che, quando vengono rilasciati dal cervello, aiutano ad alleviare il dolore, a ridurre lo stress e a generare una condizione di benessere... ecco... il mio cervello non è più nella condizione di generare quei neurotrasmettitori. Al suo posto, lo faranno gli psicofarmaci. Inizio la terapia. Sospendo l’allattamento al seno che così scarsi risultati ha dato e che, anzi, ha peggiorato il mio stato mentale. Mio figlio viene affidato alle cure delle nonne. Io devo recuperare le forze... soprattutto devo riposare, dormire...
Dopo qualche tempo, un pomeriggio, mi accorgo di stare meglio. Sono in autobus per andare a trovare il mio bambino a casa di mia madre. Mi rendo conto di aver dimenticato di prendere la mia dose pomeridiana di farmaci, ma non mi assale il panico e non avverto la necessità impellente di tornare indietro per assumere la dose dimenticata... è il primo segnale della mia guarigione...
In verità, la guarigione completa non è mai avvenuta. La depressione è sempre stata mia compagna di vita. Accovacciata in un angolo, pronta a palesarsi ogni qualvolta gliene avrei dato la possibilità... per dovere d’informazione va specificato che la depressione può essere di origine endogena e/o di origine esogena.
La mia depressione è endogena, in quanto è parte della mia stessa persona. Vero è che, a peggiorarla, sono intervenuti anche eventi esterni di notevole portata. In ordine cronologico e non di importanza: la separazione da mio marito e la morte di mia sorella M.
Un’irrefrenabile voglia di vivere
Mia sorella M. è morta il 7 dicembre 2016. Ha esalato l’ultimo respiro alle ore 21:13, sotto i miei occhi liquefatti. Le locuzioni che noi umani siamo soliti utilizzare in queste circostanze per edulcorare ed esorcizzare la morte (è scomparsa
, è venuta meno agli affetti dei suoi cari
, ci ha lasciato
) non servono a cambiare la triste realtà: M. è morta. Il 7 dicembre... non poteva scegliere (chi? Dio?) giorno migliore: il giorno che precede la festività di M. Immacolata, la vergine concezione... non poteva