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E-book281 pagine3 ore

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Info su questo ebook

La stazione di polizia della città di Jaca inizia i lavori di ristrutturazione, così gli agenti si trasferiscono per un po' di tempo nel Seminario, un vecchio edificio dove anni prima si erano verificati una serie di eventi inspiegabili. Nel giro di poche settimane iniziano a verificarsi diversi incidenti che spaventano alcuni poliziotti, i quali si rifiutano persino di entrare in servizio. La direzione invia allora un esperto di casi soprannaturali.

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita28 lug 2023
ISBN9781667458250
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    Penombra - Esteban Navarro Soriano

    Penombra

    Esteban Navarro Soriano

    ––––––––

    Traduzione di Tomaso Bonavita 

    Penombra

    Autore Esteban Navarro Soriano

    Copyright © 2023 Esteban Navarro Soriano

    Tutti i diritti riservati

    Distribuito da Babelcube, Inc.

    www.babelcube.com

    Traduzione di Tomaso Bonavita

    Babelcube Books e Babelcube sono marchi registrati Babelcube Inc.

    PENOMBRA

    © Esteban Navarro Soriano. Marzo 2018

    Correzione: Ester Soteras

    È severamente vietata, senza l'autorizzazione scritta del titolare del diritto d'autore, e con le sanzioni previste dalla legge, la riproduzione totale o parziale di quest'opera con qualsiasi mezzo o procedimento, compresi la fotocopia e l'elaborazione informatica, e la sua distribuzione mediante noleggio o prestito pubblico di copie.

    La stazione di polizia della città di Jaca inizia dei lavori di ristrutturazione, così gli agenti si trasferiscono per un po' di tempo nel Seminario, un vecchio edificio, dove anni prima si era verifica una serie di eventi inspiegabili.

    Nel giro di poche settimane iniziano a verificarsi diversi incidenti che spaventano alcuni poliziotti, i quali si rifiutano persino di entrare in servizio. La direzione invia allora un esperto di casi soprannaturali.

    A Ester. A Raúl. A Rufus

    La cosa terribile riguardo a Dio,

    è che non si sa mai se è un trucco del diavolo.

    Jean Anouilh

    Questa è un'opera di fantasia. Nomi, personaggi, organizzazioni, luoghi, eventi o fatti sono frutto dell'immaginazione dell'autore o sono utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con la realtà è puramente casuale.

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Nota dell’autore

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    Capitolo 1

    Madrid, 2015

    —Buongiorno, signor Dupont— così si presenta, con eccessiva cordialità, l'ispettore capo Oriol Semprún, entrando nella piccola stanza.

    Samuel Santamaría Dupont, anche lui ispettore capo dal 2002, quando fu promosso per propri meriti, lo guarda con un'espressione perplessa negli occhi. Conosce questo poliziotto da diversi anni. Sa delle sue attività all'interno della Polizia Nazionale. Ha seguito la sua carriera, attraverso ciò che gli altri poliziotti hanno detto su ciò che faceva e su chi era.

    —Buongiorno— risponde al saluto.

    Semprún si siede di fronte a lui. Non lascia nulla sul tavolo, perché non c'è nulla da lasciare. Dupont lo guarda e capisce che quell'uomo è venuto lì per parlare con lui. Sulla sua fronte ci sono molte domande che desiderano una risposta da parte dell'ispettore capo.

    —Sa perché sono qui?

    —Per la questione di Jaca.

    Semprún annuisce educatamente con un sorriso rassicurante.

    —Per la questione di Jaca — ripete le sue parole —. Se vuole che la aiuti — dice—, deve raccontarmi tutto quello che è successo. E non quello che ritiene sia successo, ma quello che è successo davvero.

    —La verità—, mormora Dupont.

    —La verità vi renderà liberi.

    — La storia è accaduta così come la racconterò — esordisce Dupont —. È possibile che nel corso degli anni la mia memoria, sempre più fragile e influenzabile, abbia cambiato situazioni, luoghi, persone o date. Ma per quanto la mia capacità di ricordare abbia potuto indebolirsi, la sostanza è vera come il fatto che sto parlando con lei in questo momento. Sono consapevole, così come ho supposto fin da allora, che alcuni dettagli siano insoliti e difficili da accettare per una mente sana che crede solo a ciò che i suoi occhi vedono. Anch'io ero così. Ancorato all’esperienza, voglio dire. Ma da quando sono stato a Jaca e nel suo Seminario, tutta la mia logica di indagine è naufragata e da allora sono aperto a tutto. E quando dico tutto, voglio dire: tutto.

    Semprún osserva con un po' di compassione il suo collega, ormai in pensione, che si alza fiero sopra il tavolo rettangolare. Dupont ha settanta anni, ma i fatti risalgono a dieci anni prima, quando era ancora attivo e uno dei migliori ispettori capo all'interno della Brigata di Polizia Giudiziaria di Madrid.

    —  Da dove vuole che inizi?

    — Dall'inizio, Dupont. Le cose devono sempre cominciare dall'inizio. 

    — Non avevo mai sentito parlare di Jaca prima d'allora. Si trova nel nord della Spagna e confina con la Francia. È una cittadina dell'Aragona, nella provincia di Huesca, con circa 13.000 abitanti. È molto fredda in inverno e ha una temperatura continentale in estate, in cui raramente si superano i 35 gradi. È mai stato a Jaca? —Semprún fa un cenno di diniego. Ebbene, dopo il mio soggiorno lì ho deciso di conservare i miei appunti, quelli di allora e quelli che ho preso nei mesi successivi, quando la mia memoria era ancora viva, e sono a disposizione di tutti gli investigatori, polizia, detective, psichiatri, medici, esperti della scientifica, giudici, procuratori o qualsiasi altra professione legata all'investigazione, affinché in futuro possano essere cauti e sapere che qualsiasi aspetto è plausibile quando si è immersi nel complicato compito di osservare, analizzare e raccogliere dati. Presumo che abbia già letto i miei appunti. 

    —Sì, li ho letti, ma voglio che sia lei personalmente a parlarne. Voglio sentirli dalla sua viva voce, in modo da poterla interrogare su qualcosa che non capisco o che non mi è chiaro. I suoi appunti, pur essendo completi, lasciano molte lacune difficili da colmare.

    — Deve sapere che i nostri occhi ci ingannano, così come il nostro istinto. Non possiamo e non dobbiamo fidarci di nulla. Né dobbiamo fidarci di nessuno. Ma questo non significa che dobbiamo allo stesso tempo ascoltare tutti e dare la stessa attendibilità a una versione controversa e a una differente, anche se la seconda sembra meno credibile della prima. Nulla può essere scartato. Nulla può essere scartato quando si tratta di indagare su un crimine. Né i soggetti coinvolti, né gli osservatori che fungono da testimoni, né i responsabili delle indagini, né i parenti delle vittime, né i medici, gli esperti della scientifica, i giudici, gli psichiatri, la polizia, gli insegnanti e gli esperti. Nessuno è affidabile al cento per cento quando è in gioco la vita o la libertà di qualcuno, lo capisce?

    —Sì, capisco.

    —E quanto tempo abbiamo a disposizione?

    — Tutto il tempo necessario. Ma la prego di non ripetere le spiegazioni. Anche se non mi vede prendere appunti, sono meticoloso nel mio lavoro e tutto ciò che lei dice, sarà registrato nella mia memoria. Ho solo bisogno di capire cosa è successo al Seminario di Jaca durante le settimane in cui lei stava lì.

    — Glielo dirò, certo che lo farò. Forse è più importante per me che per lei, perché da allora ho capito, come avevo sempre sospettato, che ogni uomo ha un demone dentro di sé. E la differenza, tra un uomo e l'altro, è che ci sono alcuni che dominano questi demoni e altri che non sono in grado di farlo. Quando parlo di uomini, intendo l'essere umano nel suo insieme, ma sono uno dei classici che ancora usano la parola ‘uomo’ per riferirsi alla razza umana.

    — La sua storia.

    —  Come dice?

    —Sì, Dupont, voglio sentire la sua storia. 

    — La mia storia, questa storia, inizia nel momento stesso in cui la Direzione Generale della Polizia mi ha assegnato al commissariato di Jaca. Era l'inverno del 2005 e in quel commissariato stavano accadendo fatti strani e inspiegabili che portarono a un crimine. O due.

    —  Riconosce che c’è stato un crimine?

    — Sì, certo. Perché non dovrei ammetterlo? È un fatto oggettivo.

    — Ha detto un crimine, o due. Ha esitato mentre parlava.

    —Ne dubito perché da allora dubito di tutto. I fatti strani cui mi riferisco sono i seguenti...

    Capitolo 2

    Jaca, 2004

    Risalendo al passato e cercando l'origine e l'inizio di tutto ciò che avvenne nella stazione di polizia di Jaca, sono in grado di dire che ciò che diede inizio a tutto ciò che ne seguì, fu la morte di quella ragazza. Di lei si sapeva solo il nome: Elisa. Solo dopo l'incidente, la stampa comunicò il suo cognome: Sánchez Díaz. E allora tutta la stazione di polizia e l'intera città di Jaca seppero che la defunta si chiamava Elisa Sánchez Díaz, una spagnola di umile famiglia. Venni a sapere che questo poliziotto, Rosendo Lasaosa, non la conosceva, come disse settimane dopo la sua morte, quando qualcuno glielo chiese. Mi aveva assicurato in diverse occasioni che, fino a dopo l'incidente, non aveva mai saputo chi fosse questa ragazza. Non la conosceva o non ricordava di conoscerla, non credo che l'abbiamo mai chiarito. Anche se bisogna considerare che una città come Jaca è abbastanza piccola che tutti, alla fine, si sono incrociati almeno una volta. È più che probabile che Elisa e Lasaosa si siano visti nel tranquillo girovagare per la Calle Mayor, in Plaza de la Catedral, al Caffè del Pellegrino, a comprare il giornale, o al cinema o in panetteria in qualche occasione si siano incontrati. Lasaosa, probabilmente, non l'aveva notata perché Elisa era una ragazza normale. Semplice. Né bella né brutta, né alta né bassa, né troppo bionda né troppo scura. Nelle foto mostrate dalla famiglia, vidi come i suoi capelli castani cadessero lisci su una testa rotonda, con una fronte rotonda che nascondeva dietro una frangia di riccioli. La ragazza aveva compiuto diciotto anni poche settimane prima dell'incidente e sperava di prendere la patente. Sua madre, Rosa Díaz, le aveva detto che, non appena le sue ristrettezze economiche lo avessero permesso, le avrebbe dato l'acconto per un'auto di seconda mano. Suo padre, Rafael Sánchez, non si era opposto. Voleva solo la felicità per sua moglie e sua figlia.

    Un paio di settimane addietro Elisa si era iscritta all'Università San Jorge di Saragozza per conseguire la laurea in infermieristica. Rafael e Rosa avevano fatto i loro calcoli e le avevano detto che avrebbero potuto sostenere le spese, anche se con difficoltà e disagi economici, perché avrebbero tolto i soldi da altre spese superflue. Ma poiché avevano una sola figlia, avevano deciso di dedicarsi a lei e di darle il meglio che potevano. Come investigatore, inviato appositamente da Madrid, ebbi accesso a tutta la documentazione concernente il caso. Considerando che ciò che è accaduto prima dell'incidente era strettamente legato a quanto avvenuto dopo, la stazione di polizia di Jaca mi permise di accedere a tutte le dichiarazioni, comprese quelle dei parenti della ragazza.

    Ma il futuro di Elisa fu stroncato una brutta domenica mattina, quando la ragazza uscì da casa presto, per andare a comprare le focacce del tipo ensaimadas appena fatte in una panetteria a pochi metri dall'appartamento in cui viveva con i genitori. Ogni domenica, da quando aveva compiuto sedici anni, credo senza saltarne nemmeno una, aveva attraversato la stradina che immetteva nel vicolo del panificio Buil, dove il proprietario si occupava di aprire ogni mattina alle sette in punto e di servire pane appena sfornato, croissant, ensaimadas e madeleine al cioccolato che facevano la gioia dei vicini del quartiere e, per estensione, di tutta la città, poiché erano in molti a percorrere lunghi tratti della città per fermarsi davanti al leggendario vecchio panificio. Lasaosa stesso mi raccontò di essere stato cliente di quella panetteria per molto tempo. Constantino Buil era un omone con mani enormi. Ricordo che la prima volta che le strinsi, la sua presa fu come quella di una chiave inglese. Mentre parlavamo, sulle sue labbra comparve una bolla di saliva. Mi disgustò molto. Pensai allora che non avrei mai comprato pane in quella panetteria.

    Elisa uscì da casa pochi minuti dopo le sette del mattino. Percorse alcuni metri sul lato sinistro della strada e si fermò davanti al passaggio pedonale della Calle Mayor. Guardò a sinistra e a destra e, quando fu sicura che non stessero arrivando macchine, decise di attraversare. L'inverno gettava sulla strada piccoli granelli di neve, così piccoli che non riuscivano nemmeno ad attaccare. Il buio era inquietante, a causa del recente cambio dell'ora. I lampioni si erano già spenti e le nuvole bloccavano la luce che non si era ancora rafforzata abbastanza da illuminare l'intera strada.

    La vettura era grande. Non lo seppero perché ci fossero testimoni che lo dicevano o che avevano assistito all'incidente, lo seppero perché settimane dopo accadde qualcosa d’insolito che diede loro sufficienti indizi sul tipo di auto e su chi la guidasse. Al momento dell'incidente, gli investigatori trovarono solo una telecamera di sicurezza che riprendeva parzialmente la strada. In totale si contarono tre telecamere. Ma una non funzionava, un'altra non registrava e la terza non metteva a fuoco l'attraversamento zebrato, dove Elisa fu investita, ma riprese la fiancata dell'auto mentre si allontanava. L'auto, scoprirono in seguito, era un'Audi A4 nera. Se l'indagine avesse seguito il suo corso abituale e il fattore fortuna non avesse interferito, gli investigatori del commissariato di Jaca non avrebbero mai trovato il colpevole dell'incidente di Elisa. Per esperienza, sapevo che la fortuna è parte attiva di ogni indagine. E in una percentuale abbastanza alta di casi, era addirittura quella che permetteva di risolvere il caso.

    L'Audi nera urtò Elisa sul fianco sinistro, facendole toccare il paraurti nella parte intermedia dell'addome e trascinandola per diversi metri, finché il suo corpo non fu schiacciato sotto la ruota posteriore destra. Quindi l'auto si arrestò per qualche secondo, giusto il tempo sufficiente per cambiare la marcia del veicolo. La donna, si scoprì in seguito, era ancora viva, anche se gravemente ferita. Il medico legale annotò nel suo rapporto che la ragazza non morì all'istante, cosa che fu straziante per la sua famiglia. Non c'era niente di più consolante per loro che sapere che la loro figlia era morta senza soffrire. Sapevo che, in questi casi, è sempre meglio mentire e dire che morì all'istante, senza soffrire, senza rendersi conto che stava morendo. In quel momento, quando l'Audi aveva già superato il corpo della ragazza, fu allora che, incomprensibilmente, il conducente decise di tornare indietro di qualche metro, forse perché aveva sentito il colpo contro il corpo della ragazza e decise di controllare se fosse sotto l'auto. La ruota la trascinò, la capovolse un paio di volte e fu lì che morì, suppose la polizia sulla base del referto medico. Il conducente dell'Audi si accorse di aver investito una donna quando continuò a guidare e guardò nello specchietto retrovisore. Il corpo di Elisa era un relitto senza vita abbandonato sull'asfalto. Non c'era quasi sangue, perché le ferite erano tutte interne e il paraurti dell'Audi non conteneva oggetti appuntiti. Ma il conducente non poteva saperlo, cioè che la ragazza fosse già un cadavere. Mi sentii addolorato quando, leggendo il rapporto della polizia, appresi che la madre di Elisa fu la prima a recarsi sul luogo dell'incidente. Me la potei immaginare lì, inginocchiata accanto al corpo morente della figlia, con la testa premuta contro il petto, ad assorbire il poco sangue che usciva dal corpo straziato. Senza proferire parola. Gli occhi chiusi. Ondeggiando avanti e indietro sulle ginocchia e continuando ad abbracciare Elisa con tutta la sua forza, con tutto il suo amore.

    Capitolo 3

    Quando raccolsi le dichiarazioni e le prove, immaginai e intuii come doveva sentirsi il conducente dell'auto. Me lo immaginai seduto lì, mentre stringeva forte il volante dell'Audi. Lo distinsi tra le centinaia d’idee che gli frullavano nel cervello. Pensai che sia in momenti come questo che il nostro cervello si scompone in centinaia di migliaia di piccoli pezzi e s’innesca il misterioso meccanismo che richiama tutto il nostro universo interiore. Credo che, a un certo punto, mi sia chiesto cosa avrei fatto io in quella situazione. Qualunque cosa gli passasse per la testa, quello che è certo e provato è che l'autista proseguì per la sua strada, svoltò per la via del panificio Buil e si perse sulla circonvallazione che porta fuori città. Pensarono che stesse fuggendo, perché presumibilmente in quel momento era già consapevole di ciò che aveva fatto.

    Credo che tutti abbiano sentito la frase secondo cui il battito d'ali di una farfalla può scatenare un uragano in un'altra parte del mondo. Senza dilungarsi in spiegazioni più profonde, si può desumere che un'azione, per quanto piccola, può provocare una serie di azioni più grandi. È un principio della Teoria del Caos, dove si dice che tutto ha tendenza a diventare disordinato. Non voglio dilungarmi, ma la morte di Elisa fece sprofondare la madre in una depressione che la portò a togliersi la vita pochi mesi dopo, dopo averla trascinata in un declino che l'aveva irrimediabilmente compromessa. Né gli sforzi di Rafael, il marito, che fece del suo meglio per porsi come uomo forte della famiglia, né i consigli e il sostegno di tutti i parenti che tenevano alto il morale della famiglia, impedirono a Rosa di togliersi la vita una mattina, anche lei di domenica, quando non poté più sopportare l'assenza della figlia. Nel rapporto della polizia fu scritto che Rosa si avvelenò con un'overdose di tranquillanti. Addirittura gli agenti non ebbero remore a indagare sul marito, che ritenevano avesse favorito il suicidio della moglie. La crudeltà della nostra società non conosce limiti quando la legge prevale sui sentimenti. Siamo una società con la convinta ossessione della giustizia, ma con una capacità smarrita nei confronti dei sentimenti.

    Gli investigatori del commissariato di Jaca convocarono il padre di Elisa come se fosse un criminale. Lo sottoposero all'angoscia di trovarsi sospettato del delitto della moglie, mentre il ricordo della figlia era ancora vivo nella sua mente. Rafael Sánchez pianse, costretto da un'incomprensione che lo stordì nelle ore successive alla morte della moglie. Mentre lui s’interrogava su cosa avesse sbagliato prima che sua moglie si togliesse la vita, la polizia gli chiedeva, dove si trovasse nelle ultime ore prima che Rosa si togliesse la vita. Interrogarono il farmacista che le aveva venduto i tranquillanti, il medico che le aveva prescritto i farmaci e il marito che non si accorse che la moglie se ne era già andata il giorno in cui le fu detto che un'Audi nera le aveva strappato la figlia.

    Il guidatore dell'Audi ritrovò il suo istinto di sopravvivenza e guidò per qualche chilometro, finché non giunse a un magazzino abbandonato vicino alla prima stazione di servizio all'uscita di Jaca. Quest'uomo era un delinquente abituale e sapeva che, coinvolgendo qualcun altro nello ‘incidente’, sarebbe finito in prigione; aveva imparato che il modo migliore per mantenere un segreto è non dirlo. E meno persone sapevano quello che era successo quella mattina nella strada principale, meglio sarebbe stato. Conosceva quel magazzino, perché lui stesso lo aveva usato come deposito di merce rubata. In un paio di occasioni vi aveva depositato alcuni attrezzi da cantiere, come trapani o radiali, che aveva incautamente rubato e conservato in quel magazzino in attesa di trovare un ricettatore che li acquistasse per pochi euro, che poi avrebbe speso per comprare alcolici. Mise l'Audi nel garage, abbassò la serranda senza chiuderla a chiave e controllò con una torcia che non ci fosse nessuno all'interno. E nemmeno fuori. All'interno temeva di trovare un

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