La Notte dei Pedoni
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Durante il turno di notte al commissariato di Huesca, Andrés viene a sapere della morte di un suo vecchio amico che non vedeva da vent'anni, ma che per qualche motivo aveva viaggiato fino a lì per dirgli qualcosa. Con l'aiuto di Diana, una giovane poliziotta in pratica, il veterano agente inizierà un'indagine che lo obbligherà a rimestare nel suo passato per riuscire a scoprire cosa potesse ancora unirli dopo tutto quel tempo.
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Anteprima del libro
La Notte dei Pedoni - Esteban Navarro Soriano
La Notte dei Pedoni
Esteban Navarro Soriano
––––––––
Traduzione di Enrico Hrodger
La Notte dei Pedoni
Autore Esteban Navarro Soriano
Copyright © 2024 Esteban Navarro Soriano
Tutti i diritti riservati
Distribuito da Babelcube, Inc.
www.babelcube.com
Traduzione di Enrico Hrodger
Babelcube Books
e Babelcube
sono marchi registrati Babelcube Inc.
A mia moglie Ester e a mio figlio Raúl, la mia casa
E ai miei genitori, Brígida y Nicolás,
e a mio fratello Salvador;
che se ne andarono nel luogo dal quale non si ritorna
Capitolo 1
Il fax sputò, con una lentezza irritante, un foglio. La macchina, placida e flemmatica, gracchiò chiassosamente vari suoni stridenti che torturarono le orecchie di Andrés Hernández. Il veterano poliziotto non sopportava l'interminabile crepitio degli ingranaggi dell'unico telefax in tutta la stazione della polizia provinciale di Huesca. Ma l'antiquato apparecchio resisteva, inamovibile e impavido, all'avanzare del progresso.
―È arrivato un fax ―disse con tono sdolcinato e leggermente rauco la giovane agente in prova.
Andrés appoggiò sul bancone della sala del 091 il caffè che aveva nella mano sinistra, strofinando tra loro le dita della destra e percependo l'assenza di una sigaretta.
―Quest'aggeggio è antidiluviano ―disse l'agente alzando leggermente il tono della sua voce grave.
La notte aveva disarmonizzato la sua dizione.
Diana Dávila, la giovane poliziotta in tirocinio, sorrise. Era una ragazza gradevole, tanto di carattere come alla vista. Doveva avere appena vent'anni, i suoi occhi conservavano la freschezza e il bagliore della gioventù. Un piccolo segno sul naso, che poteva sembrare un neo, lasciava intuire che la ragazza portava un piercing, molto probabilmente fatto prima di entrare in polizia.
—Viviamo nel futuro—continuò Andrés— e ancora non hanno smesso di usare quel cazzo di fax. Sarebbe così facile e pratico mandare tutti i documenti per email, come fanno le grandi compagnie.
La giovane sorrise di nuovo. Andrés pensò che era riuscito ad ottenere l'effetto che desiderava con le sue parole sopra le righe: farla sorridere e starle simpatico.
—Dev'essere per il supporto documentale —disse lei, in mancanza di una spiegazione migliore, nel tentativo che Andrés trovasse conforto.
—Supporto documentale, supporto documentale... —ripeté sarcastico—. I computer sono l'unico supporto documentale che dovrebbe esistere al giorno d'oggi —affermò sotto lo sguardo impassibile della tirocinante, che sembrava non battere ciglio davanti a nulla—. Il fax, il telex, i libri di registro, tutti oggetti del passato che dovrebbero essere già stati ritirati da tutte le stazioni di polizia del paese. E del mondo —aggiunse—. Non ha alcun senso continuare con questi aggeggi —tirò una pacca al fax mentre parlava—, in un'epoca nella quale c'è almeno un computer in ogni ufficio.
La ragazza scrollò le spalle e si portò l'indice della mano destra alla bocce, come volendo mangiarsi l'unghia.
—Non farlo. —la rimproverò Andrés.
—Cosa?
La giovane poliziotta non sapeva a cosa si riferisse.
—Mangiarti le unghie —disse Andrés, riprendendo il caffè da sopra il bancone—. La onicofagia è una malattia, e come tale va trattata.
Diana ignorò il commento di Andrés e continuò a battere sulla tastiera del computer della sala del 091, dove stava compilando le schedine alloggiati del giorno precedente. Un lavoro che doveva compiere tutti i giorni, inserendo i dati dei viaggiatori che dormivano in hotel e pensioni di Huesca.
—L'onicofagia nasce per problemi interiori delle persone —continuò il poliziotto—, come l'impellente bisogno di auto-flagellarsi, per esempio, di auto-infliggersi un castigo per non sentirsi a proprio agio con sé stessi.
La giovane poliziotta piegò a metà l'ultimo foglio dal quale aveva estratto i dati inseriti nel programma e lo ripose con attenzione in una cartellina blu con la scritta Alloggiati
, scritto grande e visibile. Andrés osservò le sue mani. Le dita della ragazza erano fine e lunghe, terminanti in unghie corte, ma ben formate. Senza smalto.
—Insomma... —concluse Andrés, vedendo che la giovane non gli prestava attenzione—, mordersi o mangiarsi le unghie non è un problema generato dall'ansia o dallo stress della vita quotidiana, come qualcuno potrebbe pensare, il problema dell'onicofagia è radicato nel più profondo di una persona, dove sono scolpiti i modelli di comportamento che fanno in modo che le vittime di questo male non riescano ad evitare di portarsi le dita alla bocca, in maniera impulsiva, e devastarsele con i denti.
—Ho inserito gli alloggiati —disse la ragazza in tutta risposta—. Lo annoto nel registro di sala? —domandò, leggermente infastidita dalle eccessive spiegazioni di Andrés.
Si sentiva psicoanalizzata, e non le piaceva che quel poliziotto le stesse dicendo come doveva fare le cose o come doveva comportarsi. Non era di sua competenza. Diana non poté evitare di ripensare a un uomo della stessa età di Andrés Hernández che qualche anno prima l'aveva fatta sentire come una bambina, dicendole tutto il tempo cosa doveva fare.
—Sì, sì, certo. Qui in centrale ciò non si scrive è come se non fosse mai successo.
La ragazza sorrise mentre si alzava in piedi e rovistava nella tasca della sua giacca di goretex che entrando aveva lasciato sulle poltroncine della sala del 091.
—Come ti chiami? —domandò Andrés con tono accondiscendente.
—Diana —rispose lei, tirando fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca.
—Fumi, pure?
—Pure?
—Sì, voglio dire... —si spiegò Andrés— Oltre a mangiarti le unghie.
—Non mi mangio le unghie —replicò Diana mettendosi una sigaretta in bocca con un gesto virile—. Quando sono nervosa mi rilasso toccandomi i denti con la punta delle dita, tutto qua.
—O fumando?
—O fumando. Ognuno rilassa i nervi come può. O come sa fare meglio —aggiunse.
Andrés si rese conto che la ragazza aveva ragione. Lui stesso era stato fumatore per anni, ma ormai, a quarantacinque compiuti, non sentiva di avere più l'età per castigare il corpo con vizi di quel genere. Forse quello che lo infastidiva era che quella ragazza potesse fumare con scioltezza senza preoccuparsi per la sua salute. I giovani non si preoccupano di nulla, pensò.
—Vuole? —gli domandò Diana con malizia, porgendo una sigaretta che elevò fino all'altezza degli occhi.
Andrés si rese conto che la ragazza era davvero attraente. Il suo sguardo risaltava sotto le ciglia lunghe e luccicanti, come se le avesse spennellate di vaselina o qualcosa di simile che le facesse brillare. Ma quello che attirava la sua attenzione più di tutto il resto, era il suo sorriso. Era unico.
—No. Grazie, Diana —rifiutò con un cenno della mano—. Ho smesso già da qualche anno.
—Le è stato difficile?
—Molto. Non prendiamoci in giro, parecchio. Ma per favore, non mi dare del lei.
La giovane sorrise di nuovo mentre si accendeva la sigaretta, lasciandola dondolare tra le labbra come un camionista. Non diede peso al fatto che le avesse detto di dargli del tu, sapeva che avrebbe continuato a dargli del Lei tutta la notte. E non era per rispetto nei suoi confronti, ma per stabilire una spessa barriera per le confidenze tra poliziotto e allieva. Diana non poteva dimenticare il diverbio che aveva avuto, prima di entrare in polizia, con quell'uomo maturo della stessa età di Andrés. Secondo lei, gli uomini generano sempre un sentimento paternalista con le ragazze giovani e fanciullesche, e in questo slancio di protezione finiscono sempre superando delle frontiere che non avrebbero mai dovuto superare. Nel poco tempo trascorso con quel poliziotto, aveva già dato le sue opinioni sul mangiarsi le unghie, aveva usato parole morbose come auto-flagellarsi e auto-castigarsi, e non faceva altro che dirle cos'era giusto e cos'era sbagliato. Per Diana, il suo collega di turno non era altro che l'ennesimo vecchio porco logorroico.
—Le dà fastidio?
La ragazza non voleva irritarlo fumando davanti a lui. Sapeva che non c'è nulla di peggio per un ex fumatore che l'odore di sigaretta.
—No, no, ci mancherebbe. Fai pure quello che vuoi con la tua salute —replicò Andrés, infastidito. Come se chi stesse fumando fosse figlia sua.
L'agente ripensò a come, fino a non molti anni prima, festeggiava il compleanno fumando senza tregua mentre sorseggiava rinfrescanti calici di spumante. Era il ventuno ottobre del duemila dieci, aveva compiuto i quarantacinque anni da pochi minuti, ma non l'aveva detto alla collega né alla pattuglia di turno. Non aveva intenzione di festeggiare il suo compleanno, non gli andava.
Ingoiò l'ultima goccia di caffè che restava nel bicchiere e lo schiacciò con forza nella mano. Poi lo gettò in uno dei cestini della Sala del 091, e nonostante si fosse avvicinato abbastanza per non fallire nel lancio, il bicchiere rimbalzò contro la parete e cadde a terra.
—Ma guarda che roba —si lamentò—. Oggi mi sento un imbranato.
Sulla parete, già sporca di suo, restò una macchia di caffè.
—Troppo vecchio per fare canestro —sorrise Diana, accovacciandosi per raccogliere il bicchiere e gettarlo nel cestino.
La mattutina della poliziotta in pratica provocò in Andrés un sorriso tra il cortese e il malizioso. Pensò che non conosceva abbastanza quella ragazza per sapere se stesse flirtando o, al contrario, stesse ridendo di lui. Ciò che sì notò fu la rapidità con la quale si accovacciò e si rialzò; la ragazza era molto agile.
Il fax sputò un altro foglio.
—Dev'essere l'ultimo —disse Andrés, facendosi passo nel fumo della sigaretta della ragazza sventolando la mano aperta—. A quest'ora non credo che ne arriveranno altri. Almeno, non dovrebbe.
Diana guardò l'orologio della sala. Sapeva che quell'orologio non dava l'ora esatta, ma in quel momento non ricordava se andava in avanti o indietro.
—Mezzanotte e mezza —disse.
—Le zero zero trenta della notte —disse Andrés—. Mancano ancora sei ore —annunciò, facendo una smorfia insoddisfatta che gli accartocciò la fronte, invecchiandolo.
—Fare la notte è la cosa più difficile —disse la ragazza sedendosi su una poltroncina della sala del 091, dopo aver preso la giacca di goretex e averla lanciata con poca attenzione su uno dei tavoli vuoti.
Andrés credette che si trattasse di una domanda, ma quella di Diana era un'affermazione.
—Esattamente. Le notti sono lunghe, silenziose e stancanti —disse Andrés—. Lavoro di notte da vent'anni e ancora non mi ci sono abituato. E credo che non mi ci abituerò mai —affermò prelevando il foglio dallo sportello del fax.
Diana spense la sigaretta nel posacenere sul davanzale della finestra, nel lato esterno. Mentre lo faceva, osservò il cortile interiore della stazione. Oltre il muro di sicurezza si stagliava il getto d'acqua della fontana di plaza Luis Buñuel.
—C'è di peggio —disse la ragazza, facendo l'interessante.
Andrés si stupì. Diana apparentava la giovinezza sufficiente per non avere esperienze di vita, ma il suo vocabolario e l'assenza di timidezza nel suo volto lasciavano intuire che sapesse più di quello che ci si potesse aspettare dalla sua età.
—Certo —sorrise—. Esistono lavori peggiori e pagati peggio, ma esistono anche migliori e pagati meglio. Il nostro è un lavoro sgradevole e pagato male. Quanti anni hai? —le chiese, mentre lei accostava la finestra che dava sul cortile per non lasciar passare il freddo d'ottobre.
Diana fu sorpresa dalla domanda. Non che non se l'aspettasse, piuttosto che preferiva non dire la sua età a nessuno, e ancor meno a quel poliziotto. Sapeva che avrebbe usato la sua giovinezza per sminuirla.
—Non si chiede l'età ad una donna —disse con forzata vanità.
Andrés si contrariò trovandosi d'accordo. La ragazza evitava in tutti i modi che lui trasgredisse la sottile linea di confine della sua privacy.
—Sono entrato in polizia a venticinque anni —affermò—, ed ho vent'anni di servizio. Mai un giorno di malattia, senza mancare neanche un giorno. Prima —argomentò per far capire a Diana perché le aveva chiesto l'età—, facevo altri lavori. Ho fatto il cameriere, il corriere, il camionista... —trattenne il respiro, come se stesse per dire qualcosa di importante—, e ti posso assicurare che il nostro è un buon lavoro, anche se mal pagato. Molto mal pagato —insistette.
La radio della sala del 091 risuonò gracchiando. La pattuglia richiedeva i dati di una targa.
—Rispondo io —disse la ragazza.
«H-50, appuntate questa targa», gracchiò la radio.
«Avanti!», disse Diana.
«HU-6745-PR», disse l'agente. Diana riconobbe la voce: era Iván, un altro poliziotto in pratica della sua stessa promozione.
«Un Seat León», rispose Diana. «Non risulta smarrito. Assicurazione e revisione in vigore.»
«Grazie mille H-50.»
«Prego diecimila», rispose sorridendo Diana.
—Cerca di non fare questo genere di commenti per radio —la censurò ancora Andrés—. Potrebbe esserci qualche superiore in ascolto.
—È Iván —disse lei—, un collega del mio stesso corso.
—Il tuo ragazzo?
Diana appuntò il numero della targa comunicato dalla pattuglia nel Registro di Sala del 091. Non rispose alla domanda. La ragazza pensò di aver già risposto a troppe domande personali.
Andrés ne approfittò per leggere i due fax che erano arrivati. Il suo volto si adombrò, e Diana si rese immediatamente conto che qualcosa doveva essere andato storto.
—Tutto bene? —gli domandò.
Il fax era dell'ospedale provinciale di Huesca. In una delle sue stanze era deceduto un uomo di morte naturale. Nient'altro che sette righe per spiegare i fatti. Un uomo di quarantacinque anni, era stato ricoverato due giorni prima per un'infezione polmonare abbastanza grave. L'ospedale richiedeva l'aiuto della polizia per localizzare qualche parente che si incaricasse del cadavere. Era una richiesta di routine, il servizio ospedaliero approfittava dei database della polizia per accelerare i processi. Andrés lesse sconsolato il nome di quella persona:
—Miguel Ángel Urquijo Cañas.
Lo pronunciò a voce alta. Diana lo sentì.
—L'ospedale? —disse la ragazza.
—Sì —rispose Andrés—. Vado a fare un salto. Non farò tardi. È morto uno che conosco... —respirò a fondo— ...che conoscevo.
—Mando la pattuglia, Andrés?
Diana si rese conto di aver infranto uno dei suoi principi, dandogli del tu.
—No, no —disse categorico l'agente—. Vado di persona. Miguel Ángel, Miguel Ángel —disse a voce alta—. Che cazzo ci facevi a Huesca?
—Mi puoi ripetere come si chiamava? —chiese Diana, che nel frattempo si era seduta di nuovo davanti al computer, disposta a scrivere il nome di quella persona.
—Non ce n'è bisogno, davvero —insistette.
—Non vuoi sapere se ci sono altre persone con lo stesso nome?
—Come, scusa?
Andrés Hernández era totalmente sbalordito. I suoi occhi altalenavano da un lato all'altro della sala del 091, come se non fosse in grado di prendere una decisione.
—Suppongo che in tutta la Spagna esisteranno altre persone che si chiamano come il tuo amico.
—Puoi controllare?
Diana sorrise ironicamente.
—Certo che posso, bisogna solo introdurre il nome nel database delle carte d'identità e contare quanti Miguel