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I grandi romanzi
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E-book3.639 pagine47 ore

I grandi romanzi

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La donna in bianco - Senza nome - Armadale - La Pietra di Luna - La donna del sogno - L’albergo stregato

Edizioni integrali

T.S. Eliot elogiò La Pietra di Luna, definendolo: «Il primo, il più lungo, il migliore dei romanzi d’investigazione inglesi… un genere inventato da Collins, e non da Poe». Gli ingredienti dei capolavori di Wilkie Collins, traslati in parte dal gotico, segnarono infatti l’inizio del poliziesco: paesaggi spettrali, dimore infestate dagli spiriti, delitti senza colpevole, intrighi ignominiosi, indagini complicate, uomini avidi e spietati o eroi senza macchia e senza paura, donne caste e incorrotte o lascive tentatrici e avvelenatrici. È mirabile anche la struttura, nelle opere di Collins, laddove si alternano voci diverse (ciascuna con la sua specificità) e la forma della narrazione è variata grazie al ricorso a brani di diario, stralci di verbali giudiziari, missive e corrispondenze. La sua è una narrativa che incalza a ogni capitolo, rilancia la posta in gioco con continue sorprese e accresce senza posa la suspense, non conosce mai pause o momenti di stanca. È questo il segreto dei suoi romanzi, che all’epoca venivano chiamati “sensation novels”. Pubblicati a puntate su rivista, riuscivano, di settimana in settimana, nel difficile compito di avvincere i lettori sin dalle prime righe e tenerne desti l’attenzione e lo stupore fino all’ultima.
Wilkie Collins
(1824-1889), figlio di un pittore paesaggista, studiò Legge senza mai praticare la professione, attingendo alle conoscenze del crimine così maturate per le sue opere. La fortuna arrivò dopo l’incontro con Dickens, che pubblicò gli scritti di Collins sulle sue riviste, inaugurando un rapporto di lavoro e di amicizia che durò dieci anni. Fu un autore molto prolifico, scrisse venticinque romanzi, più di cinquanta racconti e numerose opere teatrali.
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2016
ISBN9788854198791
I grandi romanzi
Autore

Wilkie Collins

Wilkie Collins, hijo del paisajista William Collins, nació en Londres en 1824. Fue aprendiz en una compañía de comercio de té, estudió Derecho, hizo sus pinitos como pintor y actor, y antes de conocer a Charles Dickens en 1851, había publicado ya una biografía de su padre, Memoirs of the Life of William Collins, Esq., R. A. (1848), una novela histórica, Antonina (1850), y un libro de viajes, Rambles Beyond Railways (1851). Pero el encuentro con Dickens fue decisivo para la trayectoria literaria de ambos. Basil (ALBA CLÁSICA núm. VI; ALBA MÍNUS núm.) inició en 1852 una serie de novelas «sensacionales», llenas de misterio y violencia pero siempre dentro de un entorno de clase media, que, con su técnica brillante y su compleja estructura, sentaron las bases del moderno relato detectivesco y obtuvieron en seguida una gran repercusión: La dama de blanco (1860), Armadale (1862) o La Piedra Lunar (1868) fueron tan aplaudidas como imitadas. Sin nombre (1862; ALBA CLÁSICA núm. XVII; ALBA CLÁSICA MAIOR núm. XI) y Marido y mujer (1870; ALBA CLÁSICA MAIOR núm. XVI; ALBA MÍNUS núm.), también de este período, están escritas sin embargo con otras pautas, y sus heroínas son mujeres dramáticamente condicionadas por una arbitraria, aunque real, situación legal. En la década de 1870, Collins ensayó temas y formas nuevos: La pobre señorita Finch (1871-1872; ALBA CLÁSICA núm. XXVI; ALBA MÍNUS núm 5.) es un buen ejemplo de esta época. El novelista murió en Londres en 1889, después de una larga carrera de éxitos.

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    Anteprima del libro

    I grandi romanzi - Wilkie Collins

    EC570

    Titoli originali:

    The Woman in White, traduzione di Fedora Dei;

    No Name, traduzione di Adriana Altavilla;

    Armadale, traduzione di Daniela Paladini;

    The Moonstone, traduzione di Adriana Altavilla;

    The Dream Woman, traduzione di Marta Lanfranco

    The Haunted Hotel, traduzione di Umberto Ledda

    Traduzione di Clara Serretta

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9879-1

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Wilkie Collins

    I grandi romanzi

    La donna in bianco, Senza nome, Armadale, La Pietra di Luna, La donna del sogno, L’albergo stregato

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Nota biobibliografica

    cronologia della vita e delle opere

    1824. William Collins, conosciuto come Wilkie, nasce l’8 gennaio a Londra. È il primogenito di William Collins, famoso paesaggista e ritrattista dell’epoca.

    1836-38. Segue la famiglia prima in Francia, poi in Italia.

    1841. Interrompe gli studi e decide di entrare nel mondo del commercio del tè, accorgendosi presto di non essere portato per gli affari. Durante quest’esperienza intraprende i primi esperimenti di scrittura.

    1843. Pubblica il racconto The Last Stage Coachman sull’«Illuminated Magazine».

    1846. Inizia a studiare legge al Lincoln’s Inn.

    1847. Muore il padre.

    1848. Pubblica The Memoirs of the Life of William Collins, Esq., R.A., monumentale biografia dedicata al genitore morto l’anno prima, riscuotendo un buon successo di critica.

    1850. Pubblica il romanzo storico Antonina. Ovvero la caduta di Roma e inizia a collaborare con diverse riviste.

    1851. Ottiene l’abilitazione all’avvocatura, ma è la scrittura ad assorbire tutte le sue energie. Conosce Charles Dickens, cui sarà legato da un profondo rapporto di lavoro e d’amicizia. Inizia a collaborare con l’amico pubblicando racconti sulle riviste «Household Words» e «All the Year Round».

    1852. Con la pubblicazione di Basil dà inizio al sensation novel.

    1854. Pubblica il romanzo Hide and Seek. Comincia a soffrire di gotta reumatica, che lo affliggerà per tutto il resto della vita. A causa della malattia subirà un drastico calo della vista, tanto da dover ricorrere a numerose segretarie, cui dettare i suoi scritti. Per far fronte ai terribili dolori che lo tormentano assume quantità sempre più elevate di laudano, fino a diventare un oppiomane.

    1855. Spronato dall’amico Dickens, alla scrittura di articoli, racconti e romanzi inizia ad affiancare quella di opere teatrali, spesso tratte da suoi precedenti testi narrativi.

    1856. Viene pubblicata After Dark, prima raccolta di racconti. In primavera conosce colei che gli ispirerà la donna in bianco, Caroline Graves, una vedova del Gloucestershire, già madre di una bambina (Carrie).

    1857. È dato alle stampe il romanzo The Dead Secret.

    1858. Inizia la convivenza con Caroline, cui sarà legato per oltre trent’anni, pur non sposandola mai.

    1859. Da novembre, sulla rivista di Dickens «All the Year Round», inizia la pubblicazione a puntate della Donna in bianco. Il romanzo viene accolto trionfalmente, tanto da influenzare la moda e i gusti del tempo. In questo stesso anno esce un’altra raccolta di racconti, The Queen of Hearts.

    1860. Ad agosto termina la pubblicazione della Donna in bianco.

    1862. Esce il romanzo Senza nome.

    1863. Viene pubblicata My Miscellanies, raccolta di ventiquattro tra saggi e racconti.

    1864. Il quarantenne Wilkie conosce la cameriera diciannovenne Martha Rudd, altra donna fondamentale della sua vita. Pur continuando a vivere con Caroline, l’uomo inizia una relazione con la giovane, che non sposerà, ma dalla quale avrà tre figli (Marian, Harriet e Charley). I due, per dare una parvenza di rispettabilità alla loro relazione, si faranno chiamare Mr e Mrs William Dawson, cognome che passerà ai figli.

    1866. Esce il romanzo Armadale.

    1868. Su «All the Year Round» inizia la pubblicazione a puntate della Pietra di Luna, primo grande romanzo poliziesco inglese. Caroline si ribella alla relazione che Wilkie ha con Martha, e decide di sposarsi con Joseph Clow. Alla cerimonia parteciperà lo stesso Wilkie.

    1870. Il 9 giugno muore Dickens. Dopo il successo raggiunto nel decennio precedente, comincia la parabola discendente della produzione di Wilkie. Viene pubblicato il romanzo Uomo e donna.

    1871. Ad aprile Caroline decide di tornare a vivere con Wilkie, fino alla morte del compagno.

    1875-76. Pubblica La legge e la signora e I due destini.

    1879-81. Escono i romanzi Foglie cadute, Jezebel’s Daughter, La veste nera.

    1889. Le condizioni di salute di Wilkie sono sempre più precarie. A gennaio viene sbalzato via dalla carrozza su cui viaggia, in seguito a un incidente. A giugno viene colpito da un ictus e il 23 settembre muore, a Londra. Viene sepolto al Kensal Green Cemetery. Accanto a lui verrà seppellita Caroline, morta nel 1895.

    bibliografia

    Gli asterischi indicano testi usciti a puntate su rivista prima di essere editi in volume.

    Romanzi

    Antonina, or the Fall of Rome, 3 voll., Richard Bentley, London 1850.

    Mr Wray’s Cash-Box (o the Mask and the Mystery), Richard Bentley, London 1852.

    Basil: A Story of Modern Life, 3 voll., Richard Bentley, London 1852.

    Hide and Seek, 3 voll., Richard Bentley, London 1854.

    The Dead Secret*, 2 voll., Bradbury & Evans, London 1857.

    The Woman in White*, 3 voll., Sampson Low, London 1860.

    No Name*, 3 voll., Sampson Low, London 1862.

    Armadale*, 2 voll., Smith, Elder, London 1866.

    The Moonstone. A Romance*, 3 voll., Tinsley Brothers, London 1868.

    Man and Wife*, 3 voll., F. S. Ellis, London 1870.

    Poor Miss Finch. A Novel*, 3 voll., Richard Bentley, London 1872.

    The New Magdalen*, 2 voll., Richard Bentley, London 1873.

    The Law & the Lady*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1875.

    The Two Destinies*, 2 voll., Chatto & Windus, London 1876.

    A Rogue’s Life*, Richard Bentley, London 1879.

    The Fallen Leaves*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1879.

    Jezebel’s Daughter*, 3 voll., Chatto and Windus, London 1880.

    The Black Robe*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1881.

    Heart and Science: A Story of the Present Time*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1883.

    I Say No*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1884.

    The Evil Genius: A Domestic Story*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1886.

    The Guilty River, J. W. Arrowsmith, Bristol 1886.

    The Legacy of Cain*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1889.

    Blind Love*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1890 (romanzo postumo completato da Walter Besant).

    Antologie di racconti

    After Dark*, 2 voll., Smith, Elder, London 1856.

    The Queen of Hearts*, 3 voll., Hurst & Blackett, London 1859.

    Miss or Mrs? and other stories in outline*, Richard Bentley, London 1873.

    The Frozen Deep*, 2 voll., Richard Bentley, London 1874.

    Little Novels*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1887.

    Altri scritti

    The Memoirs of the Life of William Collins, Esq., R.A., 2 voll., Longman, Brown, Green, and Longmans, London 1848.

    My Miscellanies*, 2 voll., Sampson Low, London 1863.

    The Lazy Tour of Two Idle Apprentices*, Chapman & Hall, London 1890 (postumo).

    Traduzioni italiane

    Romanzi

    Antonina. Ovvero la caduta di Roma, trad. di M. Bisanti, Castelvecchi, Roma 2012; lit, Roma 2012.

    Basil, trad. di A. Tubertini, Fazi Editore, Roma 2002.

    La donna vestita di bianco, trad. di E. Bairati e V. Ferretti, s.a.i.e, Torino 1957; Ed. Paoline, Catania 1968.

    La ragazza vestita di bianco, trad. di F. De Poli, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1968.

    La signora in bianco, introd. di Julian Symons, trad. di F. Dei, Mondadori, Milano 1979.

    La donna in bianco, introd. di I. Fei, trad. di G. Gaipa, Garzanti, Milano 1980; trad. di S. Tummolini, Fazi Editore, Roma 1996, 2009, 2015; trad. di F. Dei, Newton Compton, Roma 2016.

    Senza nome, trad. di L. Scarlini, Fazi Editore, Roma 1999, 2010, 2015; trad. di A. Altavilla, Newton Compton, Roma 2016.

    Armadale, trad. di A. Tubertini, Fazi Editore, Roma 2001; trad. D. Paladini, Newton Compton, Roma 2016.

    Il diamante della Luna, Sonzogno, 1928; Nerbini, 1948.

    Il diamante indiano, trad. di A. Pitta, Mondadori, Milano 1933, 1937.

    La pietra della Luna, 4 voll., Treves, Milano 1870-1871; introd. di A. Brilli, trad. di O. Previstali, 2 voll., Rizzoli, Milano 1954, 2001, 2010; riduz. di A. Curcio, ill. di A. D’Agostini, Radar, Padova 1964.

    La Pietra di Luna, introd. di T. S. Eliot, trad. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1971; trad. di M. Cassini, ill. di L. Francesconi, Mursia, Milano 1972, 1989; introd. di A. Marcheselli, prefaz. di R. Barbolini, trad. di P. Lahier e M. L. Rissler Stoneman, Garzanti, Milano 1972, 2002, 2011; introd. di J. J. M. Stewart, trad. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1984; trad. di C. Montonati, Demetra, Bussolengo 1996; a cura di F. Quasimodo Palumbo, Palermo 2000; introd. di M. Mancuso, trad. di M. Rinaldi, Fazi Editore, Roma 2000; introd. di A. Marcheselli, prefaz. di R. Barbolini, trad. di P. Jahier e M. L. Rissler-Stoneman, «La Stampa», Torino 2003; trad. di E. Costa, Faligi, Aosta 2013; trad. di A. Altavilla, Newton Compton, Roma 2016.

    La maledizione del diamante indiano, trad. di V. Viviani, Editrice Nord, Milano 2001.

    Uomo e donna, trad. di A. Tubertini, Fazi Editore, Roma 2004.

    La legge e la signora, trad. di L. Scarlini, postfaz. di A. Calanchi, Fazi Editore, 2000, 2007.

    I due destini, Sonzogno, Milano 1884.

    Foglie cadute, trad. di C. Vannuccini, Fazi Editore, Roma 2005.

    La veste nera, trad. di A. Lombardi Bom, Fazi Editore, Roma 2003.

    Il fiume della colpa, trad. di P. Parnisari, Fazi Editore, Roma 2002.

    L’albergo stregato, trad di O. Fatica, Editori Riuniti, Roma 1985; trad. di U. Ledda, Newton Compton, Roma 2016.

    Racconti e altri scritti

    Molti racconti di Collins sono usciti negli anni in raccolte antologiche e nella collana Giallo Mondadori.

    Tre storie in giallo, trad. di I. Loffredo con una nota di A. Brilli, Sellerio, Palermo 1985.

    Il truffatore truffato, a cura di F. Basso, Sellerio, Palermo 1991.

    Testimone d’accusa, a cura di F. Basso, Sellerio, Palermo 1996.

    La follia dei Monkton, a cura e trad. di F. Basso, Sellerio, Palermo 2001, 2007.

    Il pigro viaggio di due apprendisti oziosi, introd. di M. La Ferla, trad. e note di M. Premolidi, Sellerio, Palermo 2003.

    Saggi critici

    F. Rota, Wilkie Collins, Padova 1953.

    S. Benvenuti e G. Rizzoni, Il romanzo giallo. Storia, autori e personaggi, Mondadori, Milano, 1979.

    F. Fossati e R. Di Vanni, Guida al giallo, Gammalibri, Milano 1979/1980.

    R. Barbolini, Il detective sublime, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1988.

    G. Fink, Togliere le virgolette, in «Paragone Letteratura», n. 502-504, 1993; A. Calanchi, A solitary prisoner in his own room: lo studio di Mr Frederick Fairlie, Esq., in Quattro studi in rosso. I confini del privato maschile nella narrativa vittoriana, Il Ponte Vecchio, Cesena 1997.

    C. Di Vaio, Wilkie Collins e il Gioco delle Coppie, Aracne editrice, Roma 2008.

    La donna in bianco

    Preambolo

    Questa è la storia di quanto la pazienza di una donna può sopportare e di quanto la determinatezza di un uomo può conseguire.

    Se una modesta quantità di quel meraviglioso lubrificante che è l’oro, bastasse a mettere in moto la macchina della legge in ogni caso sospetto e a condurre le opportune indagini, gli avvenimenti narrati in queste pagine avrebbero avuto diritto a imporsi alla pubblica attenzione, comparendo nei tribunali.

    Ma la legge è, per lo meno in certi casi, inevitabilmente al servizio delle borse ben fornite. Questa storia vien dunque narrata qui per la prima volta. Il lettore la sentirà come potrebbe averla sentita il giudice. Tutte le circostanze, dall’inizio alla fine, sono riferite per testimonianza diretta e non per sentito dire. Quando colui che scrive queste righe di introduzione (Walter Hartright) non sarà direttamente coinvolto negli avvenimenti, si ritirerà dalla posizione di narratore, lasciando il posto ai testimoni oculari della vicenda, che riferiranno i fatti con la sua stessa chiarezza e sincerità.

    Così questo racconto verrà condotto da più di una penna, esattamente come la storia di un reato viene riferita, in tribunale, da più di un testimone. Lo scopo, nell’un caso e nell’altro, è sempre quello di presentare la verità nel modo più diretto e intelligibile: tracciando il corso di una serie di eventi per mezzo di coloro che vi sono stati più direttamente coinvolti, nei vari stadi del loro svolgersi. Ogni testimonianza viene qui riportata testualmente, parola per parola.

    Ascoltiamo per primo Walter Hartright, di anni ventotto, insegnante di disegno.

    Racconto di Walter Hartright

    insegnante di disegno, Clement’s Inn

    i

    Era l’ultimo giorno di luglio. La calda estate volgeva al termine e noi, esausti pellegrini dei marciapiedi di Londra, cominciavamo a sognare l’ombra delle prime grandi nubi sui campi di granoturco e le brezze autunnali in riva al mare.

    In quanto alla mia modesta persona, l’estate svaniva lasciandomi fisicamente indebolito, moralmente depresso e, per dir tutta la verità, piuttosto a corto di denaro. Durante l’anno non avevo amministrato i proventi della mia professione con l’abituale oculatezza: la mia passata prodigalità mi prospettava un autunno di tutta economia, da trascorrere in città, nel mio appartamentino da scapolo, o tutt’al più nel villino di mia madre ad Hampstead.

    Ricordo che quella sera il cielo era coperto e l’aria immobile. L’afa di Londra toccava il suo massimo, mentre invece si andava affievolendo il rumore sordo del traffico. Le pulsazioni della vita, in me, e il battito del grande cuore di Londra sembravano illanguidire all’unisono, via via che il sole tramontava. Mi riscossi, abbandonai il libro, sul quale anziché leggere stavo fantasticando, e uscii di casa. Era quella una delle due sere settimanali che usavo dedicare a mia madre e a mia sorella. Mi diressi quindi verso Hampstead, incontro a una più fresca aria notturna.

    Gli avvenimenti che mi accingo a narrare richiedono due parole sulla mia famiglia e sulla mia condizione del momento. Mio padre, morto già da alcuni anni, era stato un insegnante di disegno e pittura: molto noto per la sua abilità professionale era dotato inoltre di gran spirito di abnegazione e previdenza nei confronti delle persone che dipendevano dal suo lavoro. Fin dal primo anno di matrimonio, quando ancora il successo non gli aveva arriso completamente, egli aveva stipulato un’assicurazione sulla vita, sacrificandovi parte dei suoi guadagni e in misura più cospicua di quanto normalmente si ritiene sufficiente allo scopo. Perciò, alla sua morte, mia madre e mia sorella Sarah – che con me è l’unica sopravvissuta di cinque figli – si son trovate a non aver bisogno di nessuno, esattamente come se lui fosse ancora in vita. Io, che avevo abbracciato la sua stessa professione, ereditai il suo buon nome e le sue relazioni sociali, avendo così tutti i motivi di essergli grato per le ottime prospettive che si aprivano alla mia carriera.

    Quando arrivai al cancello di mia madre, l’ultimo bagliore del crepuscolo indugiava ancora sulle creste delle colline lontane; ma sotto di me Londra, già inghiottita dall’ombra della notte, era come sprofondata in un golfo nero. Appena suonai il campanello, la porta di casa si aprì di colpo: sulla soglia, invece della domestica, apparve il professor Pesca, un mio carissimo amico italiano. Evidentemente mi aspettava, perché si precipitò ad incontrarmi emettendo certi suoi striduli gridolini che secondo lui erano dei perfetti evviva! all’inglese, ma ne costituivano invece solo la parodia.

    Per i suoi meriti e, mi sia permesso dirlo, un poco anche per i miei, il degnissimo professor Pesca ha diritto a una presentazione in piena regola. Il caso ha fatto di lui il punto di partenza di una strana storia familiare che verrà qui svelata.

    Ci eravamo conosciuti in casa di gente altolocata dove lui insegnava la sua lingua e io disegno e pittura. Del suo passato sapevo soltanto che aveva goduto di una buona posizione presso l’Università di Padova, che aveva abbandonato la patria per ragioni politiche (delle quali per altro non fece mai il minimo cenno) e che ora si guadagnava dignitosamente da vivere a Londra.¹

    Pur non essendo un nano – ben fatto, anzi, e perfettamente proporzionato – Pesca era indubbiamente l’uomo di più bassa statura che mi fosse capitato di vedere. Oltre che per questa sua particolarità fisica, egli si distingueva tra tutti, in qualsiasi luogo, ambiente sociale o gruppo, per l’ingenua eccentricità del carattere e del comportamento. Sembrava dominato dall’idea di dover manifestare la sua riconoscenza verso il paese che gli offriva asilo politico e lavoro, trasformandosi in un perfetto inglese. Non pago di tributare omaggio all’intera nazione portandosi sempre dietro l’ombrello, indossando le ghette e la bombetta (o il panama estivo), egli si sforzava di diventare un vero cittadino britannico anche nei gusti, nelle abitudini e negli svaghi. Avendo notato che gli inglesi si distinguono per l’amore verso gli esercizi fisici, l’atletica e gli sport in genere, questo caro omettino non tralasciava nessuna occasione per cimentarsi in attività mai sperimentate prima. Evidentemente il professor Pesca era convinto che per trasformarsi – di punto in bianco! – in un buon atleta o in un vero sportivo, bastasse un piccolo sforzo di volontà, come per il cappello e per le ghette.

    L’avevo già visto rischiar l’osso del collo in una caccia alla volpe, o di spezzarsi una gamba su un campo di cricket e infine di morir annegato a Brighton.

    Ci eravamo incontrati là per caso ed avevamo subito deciso di fare un bagno in mare. Se il nuoto fosse da considerarsi come uno sport peculiare dei sudditi britannici, avrei certamente badato al comportamento di Pesca. Ma siccome chi entra in acqua, straniero o no, di solito sa badare a se stesso, non mi passò per la mente che anche quella del nuoto fosse una delle arti virili che il professore credeva di poter imparare all’improvviso. Ero già un bel po’ lontano dalla spiaggia quando, accorgendomi che il mio compagno era rimasto indietro, mi voltai per sollecitarlo a venir avanti. Con mia gran sorpresa ed indicibile orrore vidi soltanto due braccine bianche bianche che si agitavano disperatamente e poi scomparivano! Accorsi e, con poche bracciate sott’acqua, arrivai a vederlo: stava accoccolato in una cunetta sassosa, quieto come mai e – mi parve – perfino rimpicciolito. Lo trassi a riva e quindi alla cabina a rotelle in cui avevamo lasciato i nostri vestiti. Bastarono quei pochi minuti perché l’aria tornasse a circolare liberamente nei polmoni di Pesca… e perché nella mente di quel delizioso omettino tornasse a rivivere l’illusione che il saper nuotare fosse solo questione di provarcisi! Appena smise di battere i denti, egli infatti mi comunicò con un ineffabile sorriso che, secondo lui, si era trattato di un crampo.

    Ma quando, completamente ristabilito e rivestito, mi raggiunse sulla spiaggia, la sua espansiva natura meridionale proruppe liberamente, infrangendo in un attimo la compostezza che il professore si autoimponeva, in omaggio alla flemma britannica. E così egli mi travolse con le più tumultuose espressioni di affetto e di riconoscenza eterna, dichiarando altresì – nell’impeto di una passionalità tutta italiana – che da quel momento in poi la sua vita era a mia completa disposizione; che mai e poi mai avrebbe avuto pace e felicità se prima non avesse trovato occasione di mostrarmi la sua gratitudine in modo concreto, rendendomi un qualche servigio importante di cui aver io buon ricordo fino alla fine dei miei giorni.

    Cercai di arrestare alla meglio quel torrente di lagrime e di espressioni riconoscenti, insistendo nel trattare tutta l’avventura alla stregua di un incidente più che altro faceto. Mi parve di esser riuscito per lo meno a sminuire l’eccesso di gratitudine di Pesca e, allora e in seguito, evitai di ritornare sull’argomento. Ero soprattutto ben lungi dall’immaginare che l’occasione di essermi utile si sarebbe ben presto presentata a Pesca, che lui l’avrebbe colta all’istante e che avrebbe così cambiato l’intero corso della mia vita.

    Fu questo che accadde veramente! Se non avessi tirato fuori dall’acqua il mio amico italiano – quando giaceva come un fantolino in una culla di sassi! – non sarei mai stato coinvolto nella storia che qui si narra, non avrei forse mai sentito il nome della donna che ora vive in tutti i miei pensieri e non le avrei quindi mai dedicato tutte le mie energie facendo di Lei l’unico scopo della mia vita.

    ii

    Quella sera, quando Pesca venne a incontrarmi fin sul cancello, l’espressione del suo viso e i suoi modi bastarono a farmi capire che doveva esser accaduto qualcosa di straordinario. Capii anche che era inutile chiedergli una spiegazione immediata (conoscendo le sue abitudini!) e perciò mi limitai – mentre lui mi trascinava verso il villino tenendomi per entrambe le mani – ad assecondare la sua allegria, nella convinzione che presto avrei ricevuto una qualche notizia piacevole.

    Piombammo in salotto tutti e due assieme, offrendo di noi uno spettacolo assai poco decoroso. Mia madre sembrò non farci caso. Stava seduta presso la finestra e si faceva fresco con il ventaglio. Vedendoci entrare scoppiò a ridere. Il professor Pesca è uno dei suoi ospiti preferiti. Avendo capita la profonda devozione che lo lega a me, lei gli ha aperto il cuore senza riserve; non tenta nemmeno di spiegarsi le eccentricità di Pesca e le dà per scontate essendo lui uno straniero.

    Mia sorella Sarah, invece, è assai meno indulgente. Pur rendendo giustizia alle eccellenti qualità di cuore del mio amico italiano non riesce ad accettarlo così com’è, nemmeno per amor mio. La sua nozione di decoro, assolutamente britannica, è in perpetua ribellione contro il disprezzo per le apparenze, che in Pesca dev’essere semplicemente congenito. Sarah è sempre stupita, più o meno velatamente, di fronte alla dimestichezza di mia madre con quel turbolento omettino. Ho avuto modo di osservare in molti giovani, non solo in mia sorella, che la nostra generazione non è per nulla cordiale ed impulsiva, come lo sono invece molti della generazione passata. Vedo spesso gente anziana che si rallegra ed eccita in previsione di un qualche piacere che lascia tuttavia imperturbati i loro troppo impassibili nipoti. Mi domando se noi giovani siamo schietti e sinceri come lo erano i nostri vecchi, ai loro tempi. Non è forse che il generale progresso dell’educazione si è spinto un po’ troppo in là e noi giovani, oggigiorno, rappresentiamo la punta estrema di una società troppo educata all’autocontrollo?

    Senza pretendere di rispondere a questo interrogativo, dirò soltanto che non mi è mai capitato di vedere mia madre e mia sorella in compagnia di Pesca, senza osservare che la più anziana sembrava in effetti la più giovane di spirito. Stavolta, ad esempio, mia madre ci accolse ridendo e Sarah invece continuò a raccogliere i cocci di una tazza da tè che Pesca aveva sbattuto a terra, nella fretta di corrermi incontro. E Sarah era visibilmente seccata.

    «Non so cosa sarebbe accaduto, Walter, se ritardavi ancora» esclamò mia madre. «Pesca era fuor di sé per l’impazienza e io per la curiosità. Il professore ci porta buone novità, che ti riguardano… ma è stato così crudele da non volerci anticipare proprio nulla! Bisognava assolutamente aspettare il suo carissimo amico Walter!».

    «Una cosa molto irritante» mormorò Sarah. «Il servizio buono è rovinato!».

    Pesca, beatamente ignaro della tremenda offesa da lui arrecata alla chincaglieria di famiglia, stava trascinando dall’altro capo della stanza una grossa poltrona. Credetti che volesse porsi di fronte a noi come un conferenziere di fronte a un vero pubblico, invece lui rigirò la poltrona, si inginocchiò sul sedile e si affacciò da sopra lo schienale, come un predicatore dal pulpito.

    «Miei buoni carissimi» cominciò (intendeva dire miei buoni e cari amici, ma quella forma strampalata gli era più congeniale) «è venuto il momento di parlare. Ora parlo. Parlo, finalmente!».

    «Udite! Udite!», gli fece eco mia madre, assecondando lo scherzo.

    «Mamma», sussurrò Sarah, «adesso ci fracasserà lo schienale della nostra poltrona più bella!».

    «Mi rivolgo al più nobile degli uomini», continuò Pesca, indicando la mia modesta persona e sporgendosi pericolosamente dallo schienale della poltrona minacciata, «mi rivolgo a colui che mi trovò morto in fondo al mare (colpa del crampo)! Mi rivolgo a colui che mi tirò fuori dall’acqua e poi sulla spiaggia! Cosa dissi, io, quando la vita tornò in me e io nei miei vestiti?»

    «Molto più del necessario» commentai, nella speranza di schivare l’immancabile fiume di lacrime e di affetto che Pesca, ad incoraggiarlo solo un poco!, avrebbe senza meno riversato su di me, come sempre al ricordo di quell’episodio.

    «No!» protestò, imperterrito. «Dissi che la mia vita apparteneva ormai per sempre al mio carissimo amico Walter! Così è! Dissi che non sarei più stato felice se prima non dimostravo la mia riconoscenza al carissimo Walter. E così è stato fino al benedetto giorno di oggi!» Il caro omettino gridava ormai a squarciagola, «…ora la felicità trabocca dal mio cuore e mi esce da tutti i pori della pelle! Perché oggi, sul mio onore e in fede mia, qualcosa di buono c’è e rimane solo da dire right-all-right!».

    È qui necessario spiegare che egli si piccava di parlar bene la nostra lingua. Essendosi impossessato di alcune frasi colloquiali le disseminava spesso e volentieri nel discorso, con strani rimescolii di parole e ripetizioni e agganci di sillabe che certamente soddisfacevano il suo gusto per il bel suono, ma non aggiungevano nulla al significato e talvolta, anzi, lo stravolgevano del tutto.

    «Tra le grandi case di Londra dove vado a insegnare la mia lingua madre» continuò Pesca che evidentemente aveva chiuso il preambolo e abbordava alfine la spiegazione così a lungo differita, «tra quelle grandi case c’è anche un palazzo di Portland. Sapete dov’è questo luogo? Sì! Course-of-course, sì! In quel palazzo c’è una bella famiglia con una mamma bella e bionda e grassa, tre figlie belle e bionde e grasse, due figli belli e biondi e grassi… e un Papà che non è bello perché ha il doppio mento, non è biondo perché non ha più un capello in testa, ma è più grasso di tutti perché è un ricco mercante con l’oro fino agli occhi! Attenzione! Immaginate che io sto facendo lezione alle tre fanciulle. Sto spiegando il Divino Poeta, il grande Dante! Ah, non ci sono parole per spiegare… my-soul-bless-my-soul!… come i versi del Sublime Poeta stordiscono quelle tre care testoline! Non importa! Più lezioni, meglio per me! Oggi eravamo scesi, io e le tre fanciulle dietro di me, nel Settimo Cerchio dell’Inferno. Tutti i cerchi sono uguali per le tre fanciulle belle e bionde e grasse! Eppure, sono molto attente. Parlo, spiego, mi accaloro, brucio di inutile entusiasmo… quando nel corridoio sento fare crac-crac… sono gli stivaletti del Papà tutto d’oro, senza capelli e col doppio mento… lui entra nella stanza! Ecco, ora siamo vicini al nostro affare! Miei buoni carissimi! Avete avuto pazienza fin qui? Oppure avete pensato… deuce-what-the-deuce, stasera Pesca è proprio prolisso?».

    Lo rassicurammo subito del nostro interesse.

    «Il Papà tutto d’oro», continuò lui, «teneva in mano una lettera, così, tra il pollice e l’indice… due dita d’oro, signori miei! Per prima cosa chiede scusa di averci disturbato nel nostro Infernal Viaggio, poi si rivolge alle figlie e comincia… come cominciate sempre voi inglesi, qualsiasi cosa abbiate da dire… Oh! prima di tutto! Ebbene lui dice "Oh, mie care, ho ricevuto questa lettera dal mio amico (il nome ora mi sfugge, ma non importa, tornerà… right-all-right, quel nome tornerà!) il mio amico mi chiede di trovargli un maestro di disegno disposto a recarsi nella sua residenza di campagna. Non conoscete, mie care figliole, un maestro altamente raccomandabile?"».

    «My-soul-bless-my-soul! Fossi stato più alto, sarei saltato al collo di quel Re di Denari per stringerlo al petto! Ero sulle spine, bruciavo dalla voglia di intervenire, ma seppi tener a freno la lingua. Aspettai che le tre fanciulle (dopo essersi guardate l’un l’altra e dopo l’inevitabile oh iniziale) rispondessero che non conoscevano nessuno ma forse… mister Pesca, sì! Sentendomi finalmente autorizzato a parlare, balzai in piedi come se dalla mia seggiola fosse improvvisamente sbucata una lancia appuntita. E dico: Dear sir, I have the man! (perfetta frase inglese, ah ah!). Il primo e il migliore del mondo! Potete raccomandarlo con la posta di stasera e spedirlo con il treno di domani… bag and baggage! (seconda perfetta frase inglese, ah ah!). Il padre dice: Piano, piano. È uno straniero? e io subito: "Inglese… to the backbone!" (terza frase perfetta, ah ah!). Rispettabile? chiede ancora lui. (La sua domanda suona vagamente offensiva, per me, che sono pur ammesso nella sua casa!) Signore rispondo nel petto di quel giovane inglese arde la pura fiamma del genio e, quel che più conta, ardeva anche nel petto del padre suo! Ebbene, quel barbaro tutto d’oro mi risponde che il genio non ha importanza! Nel nostro paese accettiamo il genio solo se accompagnato dalla rispettabilità. Allora, sì! Molto volentieri! Poi mi chiede se esistono buone referenze scritte. Lettere? faccio io. Montagne di lettere, volumi di lettere, signore! Ne basteranno una o due mi risponde quel signore di denari e di flemma. Dite che me la mandi con il suo nome e indirizzo. Prima però fategli avere una mia nota….. E io, con sdegno: Una banconota? Mai, signore! Nessuna banconota che il mio amico non abbia onestamente guadagnata in anticipo! Questa volta il Papà tutto d’oro sembrò davvero sorpreso: Banconota? E chi parla di banconote? Intendevo un memorandum su quanto viene richiesto ed offerto al candidato. La preparo subito, Mr Pesca. Voi continuate pure la vostra lezione". Mentre io torno nell’Inferno dantesco, tirandomi dietro le tre fanciulle, il Papà tutto d’oro, con dieci minuti di penna e inchiostro, prepara il memorandum o nota che sia, poi le sue scarpe fanno di nuovo crac-crac nel corridoio! Da quel momento io non ho capito più nulla! Finalmente potevo rendere un servigio all’uomo che mi ha salvato dagli abissi marini! Questo pensiero mi girava dentro la testa e la mia testa girava come quella di un ubriaco! Non so come ho fatto a uscire dall’Inferno (cerchio settimo!), ma ora basta! Son qui, con questo foglio che mi scotta le dita! Eccomi qui, felice come un re… Right-right-right-all-right!».

    Il lungo discorso era finito. Pesca agitava in aria un foglietto ed emetteva alcuni ultimi suoni strozzati, forse degli urrah!.

    Mia madre si alzò, rosea in volto per l’emozione, e prendendo tra le sue le mani di Pesca, disse:

    «Caro amico, ho sempre intuito il vostro affetto per Walter ed ora ne sono più che convinta!».

    «Noi tutti vi siamo molto obbligati aggiunse mia sorella e fece l’atto di andargli a stringere la mano, poi si fermò: l’ineffabile Pesca stava baciando freneticamente entrambe le mani della mamma. Sul viso di Sarah apparve una preoccupata domanda: Se con lei… si comporta così sfacciatamente, cosa farà a me?" e quindi tornò a sedersi.

    Quando Pesca ebbe finito di baciare le mani di mia madre, lo ringraziai anch’io con molto calore pur non sentendomi – chissà perché – entusiasta quanto avrei dovuto alla prospettiva di un nuovo lavoro. Poi chiesi al mio amico di farmi alfine vedere il famoso memorandum. Pesca me lo diede, con gesto maestoso.

    «Leggete! Le parole del Papà tutto d’oro vi sembreranno dolci come il suono delle trombe degli angeli!».

    La nota di pugno del ricco mercante spiegava le condizioni di assunzione con parole semplici, chiare ed esaurienti.

    Diceva che:

    I – Frederick Fairlie, signore di Limmeridge (Cumberland) desiderava presso di sé, per un periodo non inferiore a mesi quattro, un insegnante di disegno e pittura, fornito di referenze ineccepibili, sia per la competenza professionale sia per l’assoluta rispettabilità.

    II – Si richiedevano due diversi generi di prestazioni: insegnamento del disegno e della pittura ad acquerello a due signorine, nonché restauro e montaggio di un’importante collezione di disegni che nonostante il loro alto pregio avevano subito l’oltraggio di una lunga trascuratezza.

    III – Per i due incarichi, da condurre a termine con serietà e perizia, era previsto un onorario di quattro ghinee settimanali e completa ospitalità a Limmeridge House, adeguata a un gentiluomo, cioè alla pari.

    IV e ultimo, in mancanza di referenze ineccepibili era inutile porre la propria candidatura. I documenti dovevano essere inviati all’amico del suddetto Mr Fairlie, al quale spettava la scelta della persona adatta.

    Seguiva il nome e l’indirizzo del patrono di Pesca, a Portland Place.

    L’offerta presentava più di un’attrattiva. Il lavoro doveva essere facile ed anche interessante, capitava in un periodo dell’anno in cui i miei impegni professionali solitamente scarseggiavano e, per la mia personale esperienza, l’onorario era molto, molto generoso. Capivo tutto questo e anche che avrei dovuto considerarmi fortunato di essere io il prescelto. Eppure non appena ebbi letto il memorandum, il poco entusiasmo di prima si mutò in vera riluttanza. L’idea di andare nel Cumberland non mi sorrideva affatto. Era la prima volta in vita mia che mi trovavo nella bizzarra e spiacevole situazione di essere in disaccordo con il mio interesse e il mio dovere.

    «Oh, Walter!», esclamò mia madre, quand’ebbe letto anche lei quelle poche righe. «È una vera fortuna. Da giovane, tuo padre non ne ha avuto tanta!».

    «Conoscerai gente nobile, e sarai trattato su un piano di parità!» aggiunse mia sorella, raddrizzandosi sul busto.

    «Sì… certo… ma vorrei riflettere…».

    «Riflettere? C’è qualcosa che non va, Walter?» chiese mia madre.

    «Riflettere?» fece eco Sarah. «Data la situazione trovo molto strano sentirti dire così!».

    «Riflettere?» interloquì anche Pesca. «E su che cosa, se è lecito? Vi siete sempre lagnato di aver poca salute e bisogno di una boccata d’aria pura… ebbene, nel Cumberland potrete anche soffocarvi con l’aria pura, per quattro mesi filati! E per quattro ghinee alla settimana! Vi sembra poco? Le avessi io! My-soul-bless-my-soul! Con quattro ghinee la settimana e nessuna spesa… mi comprerei stivaletti che facciano crac-crac e ci camminerei dentro con la stessa soddisfazione del Papà tutto d’oro! E in più l’affascinante compagnia di due signorine… e colazione, pranzo e cena e tè con i pasticcini e birra con la schiuma! Tutto gratis! Deuce-what-the-deuce? Vi guardo con tanto d’occhi, sì!, ma non credo alle mie orecchie!».

    Né l’evidente sorpresa di mia madre e di Sarah, né l’elenco dei vantaggi fattomi da Pesca, riuscirono ad alleviare la mia strana, irragionevole ripugnanza all’idea di andarmene a Limmeridge House. Misi avanti alcune obiezioni di poco conto, che furono subito spazzate via. Quale ultimo ostacolo per una mia eventuale partenza alla volta del Cumberland, chiamai in causa l’impossibilità di abbandonare gli allievi che già avevo a Londra. Mi fu ovviamente risposto che in quell’epoca dell’anno se ne andavano in campagna quasi tutti e che i pochissimi rimasti potevo affidarli a un mio collega. Mia sorella, anzi, mi ricordò che in una circostanza analoga io mi ero accollato gli scolari di un mio amico che si era dichiarato pronto a rendermi la cortesia, qualora avessi voluto trascorrere l’autunno in campagna o al mare. Mia madre fece appello al mio buon senso e Pesca al mio buon cuore: come potevo rifiutare, a lui, la gioia di rendere un servigio a colui che gli aveva salvato la vita?

    Il sincero affetto che stava alla base di tutte queste rimostranze, avrebbe commosso chiunque. Io, pur non riuscendo a vincere l’avversione per l’intera faccenda, ebbi almeno il merito di provarne vergogna e conclusi promettendo che avrei fatto tutto quello che si voleva da me.

    Il resto della serata trascorse in piena allegria. Pesca volle dimostrarsi un perfetto inglese anche di fronte alla nostra bevanda nazionale: e dimostrò che il grog gli montava alla testa esattamente cinque minuti dopo essergli sceso giù per la gola. Ma il caro omettino continuò nei suoi brindisi alla salute di mia madre, di mia sorella, del suo caro amico Walter, delle due damigelle del Cumberland, e infine anche alla sua salute stessa… ricominciando poi da capo, alla salute dei presenti uno per uno e degli assenti, in massa.

    Quando fu l’ora di avviarci verso Londra Pesca appariva molto, molto più allegro del solito. Fuor del cancello mi prese sottobraccio e con tono confidenziale mi chiese: «Ho dato una bella prova di eloquenza, vero? Ne sono orgoglioso e sento che presto realizzerò il sogno della mia vita… Vi confido un segreto! Io finirò per presentarmi alla Camera dei Comuni! Diventerò l’Onorevole Pesca, membro del vostro magnifico Parlamento… ah, che sogno!».

    Il mattino seguente inviai i documenti necessari all’indirizzo di Portland Place. Dopo tre giorni, non avendo ricevuto nessuna risposta, pensavo di esser finito nel numero degli esclusi e non riuscivo a non rallegrarmene. Il quarto giorno mi arrivò una lettera con l’annuncio che ero stato prescelto e l’ordine di mettermi subito in viaggio, seguendo le allegate istruzioni.

    Abbastanza malvolentieri mi diedi a far le valigie. In quel mentre passò da me il professor Pesca che non mancò di farmi i suoi rallegramenti ed auguri.

    «Mi consolerò della vostra assenza» disse gaiamente, «pensando che questa mia mano vi ha dato la prima spinta sulla strada di una vita nuova e più promettente. Quando brilla il sole sul Cumberland… raccogli il fieno! Proverbio inglese, ah ah! Ebbene, mio caro Walter, sposatevi con una di quelle due fanciulle, intraprendete una qualche attività politica… e voi sì che finirete alla Camera dei Comuni! Coraggio! E quando sarete in cima alla scala, non dimenticatevi del vostro Pesca che vi ha spinto su per il primo gradino!».

    Mi provai a ridere delle sue facezie, ma non ero in disposizione d’animo adatta a farlo. C’era qualcosa in me… non saprei dir cosa… che vibrava dolorosamente.

    Quando Pesca se ne fu andato ed ebbi completato i miei preparativi per la partenza dell’indomani, non mi rimase altro da fare che avviarmi verso Hampstead per accomiatarmi da mia madre e da mia sorella.

    iii

    Il giorno era stato di un caldo opprimente e la notte prometteva di non esser da meno.

    Mia madre e mia sorella mi avevano trattenuto così a lungo, ma sempre per altri cinque minuti e ancora un’ultima parola, che quando mi congedai da loro era quasi mezzanotte. Imboccai la solita strada, quella più breve, ma dopo pochi passi mi fermai esitante.

    La luna piena splendeva nel cielo senza stelle: in quella luce misteriosa, il terreno screpolato dalla calura sembrava appartenere a una qualche landa desolata, mille miglia lontana dalla grande città che si stendeva ai miei piedi. L’idea di tornar subito nell’afa e nella cupezza di Londra, di rinchiudermi nel mio appartamentino mal aereato e di dover poi fronteggiare un sonno inquieto per il senso di soffocamento crescente, mi diede una repulsione quasi fisica, aggravata inoltre da uno stato d’animo tutt’altro che tranquillo. Decisi allora di fare un lungo giro per la brughiera fino a raggiungere la via per Finchley e di là arrivare alla periferia di Londra e a casa mia, costeggiando il lato ovest di Regent’s Park, nell’aria fresca dell’alba.

    Scesi dunque per il bianco e tortuoso sentiero che portava alla brughiera, solitaria e immobile sotto la luna, ammirando il quieto alternarsi di luci ed ombre che si susseguivano lungo i miei passi. Ero così aperto alla bellezza della natura che non pensavo a nulla di particolare o, per quel che ricordo, non pensavo affatto.

    Questa fu la parte più bella della mia passeggiata notturna. Quando invece abbandonai la brughiera per inoltrarmi in una strada meno suggestiva, i pensieri relativi al mio prossimo cambiamento di abitudini riaffiorarono spontaneamente e via via pretesero maggior attenzione. Ero così assorto nelle mie fantasticherie, su Limmeridge House, Mr Fairlie e le due signorine alle quali avrei dovuto apprender l’arte dell’acquerello, che arrivai quasi senza accorgermene a un quadrivio.

    In quel punto finiva la strada per Hampstead, da cui provenivo, e si aprivano quelle per Finchley, per il West End e per Londra. Avevo già svoltato meccanicamente per questa ultima direzione – e ricordo che stavo cercando di immaginarmi quale aspetto avrebbero avuto le due signorine Fairlie – quando mi fermai di botto, sentendomi gelare il sangue nelle vene. Qualcuno mi aveva posato una mano sulla spalla… con un tocco leggero e improvviso.

    Mi voltai all’istante, stringendo forte il pomo del mio bastone.

    Davanti a me, in mezzo alla larga strada maestra – e come se fosse balzata su dalla terra o scesa dal cielo – c’era una donna vestita di bianco dalla testa ai piedi. Il suo viso era teso verso il mio come di chi sta per formulare una domanda ansiosa, mentre la sua mano indicava la grande macchia nera di Londra.

    Fui talmente sorpreso da quell’apparizione inaspettata – dato il luogo e l’ora – che non fui pronto a chiedere cosa si voleva da me. Fu la donna a parlare per prima.

    «È questa la strada per Londra?» chiese.

    La guardai attentamente. La luce fredda della luna illuminava un volto giovane ma pallido, dalle guance scarne e il mento affilato, nonché due grandi occhi fissi nell’attesa della mia risposta, la bocca dall’espressione quasi infantile e infine alcune ciocche di vaporosi capelli, di un delicato color bronzo. La voce della donna, per quel poco che ne avevo udito, mi aveva colpito per un suo strano tono fermo e macchinale, forse dovuto anche all’eccessiva rapidità nel pronunciare le parole. Comunque, in quella donna non c’era nulla di grossolano, di sguaiato o impudico: appariva calma, ma un po’ guardinga e anche melanconica. Dal portamento e dai modi, che non avevano nulla di eccentrico, non si poteva dire che sembrasse una gran dama, ma neppure una ragazza di bassa estrazione. L’abbigliamento, da quel che potevo giudicare, non era né molto raffinato né costoso: notevole, semmai, solo per il fatto che, dalla cuffietta alla piccola borsa, non comprendeva nessun particolare che non fosse assolutamente bianco. Non riuscivo, insomma, a capire che genere di donna potesse mai essere quella che mi stava davanti, che si trovava a quell’ora della notte sulla strada per Londra, tutta sola, e con l’ardire di fermare uno sconosciuto. Eppure, mi sentii sicuro che neppure l’individuo più volgare avrebbe osato interpretare al peggio quell’incontro che poteva anche ingenerare degli equivoci.

    «Mi avete sentito?» mi chiese con la stessa voce rapida e ferma, ma senz’ombra di risentimento o impazienza. «Vi avevo chiesto se è questa la strada per Londra».

    «Sì», risposi. «Da qui si arriva a St John’s Wood e poi a Regent’s Park. Scusatemi se non ho risposto subito, ma la vostra apparizione è stata… così inaspettata che non riesco ancora a spiegarmela bene…».

    «Non penserete che sto facendo qualcosa di male, vero? Non ho mai fatto nulla di male, io. Ho avuto un… incidente e sono molto infelice di trovarmi qui… Ma perché sospettate di me?»

    Aveva parlato con gravità e turbamento eccessivi, scostandosi di alcuni passi. Mi affrettai a rassicurarla.

    «Non pensate, vi prego, che io abbia qualche sospetto su di voi o altro desiderio che non sia quello di aiutarvi, se posso. Mi sono soltanto meravigliato di vedervi perché un minuto fa la strada m’era sembrata deserta».

    Si voltò verso l’incrocio della via per Londra con quella per Hampstead, indicandomi un varco nella siepe.

    «Vi ho sentito arrivare» disse, «e mi sono nascosta là. Prima di rischiare, ho voluto vedere che tipo d’uomo veniva avanti. Quando siete passato, avevo ancora paura, ero in dubbio se fermarvi o no. Vi son venuta dietro pian piano…».

    Di soppiatto, dunque, e poi toccandomi sulla spalla. Non era più semplice chiamarmi?

    «Mi posso fidare?» chiese. «Non pensate male di me… perché ho avuto un incidente?» Tacque, confusa. Poi si passò la borsa da una mano all’altra e sospirò amaramente.

    La solitudine e l’evidente debolezza di quella donna mi commossero. Il naturale istinto di assisterla e di averle riguardo prese in me il sopravvento su quel senso di cautela e di accortezza che avrebbero certamente soccorso un uomo meno giovane di me o più saggio e più controllato.

    «Potete fidarvi di me per qualsiasi scopo onesto», risposi, «e se vi rincresce tanto spiegarmi la situazione in cui vi trovate, non parliamone affatto. Non ho diritto a spiegazioni di sorta. Ditemi come posso aiutarvi e lo farò».

    «Siete molto gentile. Sono molto… confortata da questo incontro». Per la prima volta colsi nella sua voce la tremula vibrazione della fragilità femminile. Ma quei grandi occhi ancora fissi nei miei non mostravano traccia di lagrime.

    «Sono stata a Londra solo una volta», continuò con precipitazione crescente, «e non conosco bene la città. Ma ho delle persone amiche che saranno ben liete di accogliermi. Non potrei trovare una carrozza? O è troppo tardi? Se mi indicate dove posso trovare una vettura pubblica… non ho bisogno d’altro. Promettetemi però che mi lascerete di nuovo sola, quando e come vorrò. Me lo promettete?»

    Così dicendo, e continuando a cambiar di mano la borsetta, guardava in su e in giù per la strada, quasi furtivamente, poi tornava a fissarmi con ansia. «Me lo promettete?» ripeté. Sembrava così disorientata, così impaurita e supplichevole che faceva pietà a vederla.

    Per me, era una perfetta estranea… sì, ma era pur sempre una donna sperduta e completamente alla mia mercé. Non c’erano case in vista né passanti. Cosa potevo fare se non aiutarla? Non avevo diritto a pretendere spiegazioni e d’altra parte non avrei saputo come fare ad esigerle. Oggi, conoscendo i fatti che seguirono, e che proiettano la loro ombra su ogni rigo di questo mio scritto, mi domando ancora cosa potevo fare…

    Cercai di guadagnar tempo rivolgendole qualche domanda.

    «Siete sicura che i vostri amici di Londra vi riceveranno a un’ora così tarda?»

    «Sicurissima. Ditemi soltanto… che poi non mi ostacolerete. Mi lascerete andare quando vorrò… me lo promettete?»

    Era la terza volta che me lo chiedeva, ma ora lo fece ponendomi una mano sul petto, con un gesto implorante e timido. Staccai gentilmente quella mano e sentii che era sottile e gelida, stranamente gelida nonostante l’afa della notte estiva.

    «Sì!» risposi. Ero molto giovane.

    Ahimè! Come pronunciai facilmente quell’unica paroletta, che è sulla bocca di tutti, ad ogni ora del giorno. Ma ancora io tremo, ripensando a quel .

    E ci dirigemmo verso Londra: io e una donna della quale non conoscevo né il nome, né il carattere, né la storia e la cui presenza al mio fianco mi risultava assai misteriosa. In un certo senso era come nei sogni. Avevo davvero appena lasciata la tranquilla atmosfera casalinga del villino di mia madre? Ed era quella la ben nota strada tranquilla dove la gente veniva a far la passeggiata domenicale? Ero ancora troppo perplesso – e troppo conscio di dovermi forse rimproverare una certa leggerezza di comportamento – per aver voglia di parlare con la mia strana compagna. Fu ancora lei, a cominciare.

    «Voglio chiedervi una cosa» disse a un tratto. «Conoscete molta gente, a Londra?»

    «Sì, molta».

    «Persone di alto rango? Gente titolata?» Nel tono di quella domanda così inaspettata e strana, c’era una inequivocabile punta di sospetto. Presi tempo a rispondere.

    «Sì. Alcuni ne conosco».

    «Molti…» e si fermò di colpo, scrutandomi attentamente. «Anche persone con il titolo di baronetto?»

    Troppo stupito per risponderle chiesi a mia volta:

    «Perché questa domanda?».

    «Perché spero, nel mio interesse, che ci sia un baronetto che non conoscete affatto…»

    «E come si chiama?» chiesi.

    «Non posso dire il suo nome! Non oso… so che andrei fuori di me, soltanto a pronunciare quel nome!» rispose quasi gridando. Poi, come presa da impeto incontenibile, serrò assieme le mani e le agitò in aria con gesto iroso. Si dominò subito, però, e abbassando la voce fino a un lieve sussurro, aggiunse:

    «Ditemi voi, invece, i nomi dei baronetti che conoscete».

    Non mi costava nulla accontentarla in quella sua richiesta che poteva anche sembrare un gioco. Le nominai un paio di baronetti con giovani figlie, mie allieve, e un terzo che mi aveva tempo addietro invitato per una crociera nel suo yacht, con l’intesa che eseguissi qualche schizzo di sua scelta. «Ah! Non lo conoscete!» Sembrava sollevata. «Ma… siete forse un nobile anche voi? Un baronetto?»

    «Tutt’altro. Sono un semplice insegnante di disegno e pittura».

    A queste parole che mi uscirono dalle labbra con una certa qual amarezza, lei mi afferrò il braccio quasi con gioia e mormorò come parlando a se stessa: «Non è un uomo altolocato… Non ha nessun titolo… Grazie a Dio, posso fidarmi di lui!».

    «Mi par di capire che abbiate serie ragioni per lagnarvi di una qualche persona di rango», dissi. «Temo che quel baronetto che non volete nemmeno nominare sia la causa dell’incidente per cui vi trovate…».

    «Non chiedetemi nulla! Non parlate e non fatemi parlare!» mi interruppe, con voce sorda. «Sono stata crudelmente offesa e crudelmente maltrattata… Siate così gentile da affrettare un poco il passo… servirà a calmarmi».

    Proseguimmo in silenzio, e alla svelta, per circa mezz’ora. Di tanto in tanto, visto che non dovevo far domande, lanciavo un’occhiata furtiva alla mia compagna. Notai che l’espressione del suo viso non cambiava, come se il suo pensiero rimanesse agganciato a qualcosa di doloroso che doveva purtuttavia restar segreto: e teneva le labbra serrate, gli occhi fissi in avanti con uno strano sguardo che appariva molto intenso eppur vacuo. Quando arrivammo alle prime case fuori-porta, nei pressi del Wesleyan College, la donna sembrò improvvisamente rilassarsi. Con tono affatto normale mi chiese:

    «Abitate a Londra?».

    «Sì», risposi e subito pensai che forse lei si riproponeva di chiedere il mio aiuto anche in seguito. Per evitarle una delusione, aggiunsi: «Però domani vado in campagna per alcuni mesi».

    «Dove? Al nord o al sud?»

    «Al nord. Nel Cumberland».

    «Oh, il Cumberland!» pronunciò quel nome quasi con tenerezza. «Come mi piacerebbe tornarci.. Sono stata così felice lassù!».

    Tentai ancora una volta di sollevare il velo di mistero che circondava quella donna.

    «Il paese dei laghi. È là che siete nata?»

    «No. Sono dell’Hampshire. Nel Cumberland ci sono stata da bambina. Andavo alla scuola del villaggio… quello mi piacerebbe rivedere. Laghi? Non ne ricordo. A Limmeridge non ce n’erano laghi. Oh… come vorrei rivedere Limmeridge House!».

    Mi fermai sui due piedi. Quel nome era l’ultima cosa che mi sarei aspettato di sentir dire.

    «C’è qualcuno dietro di noi?» chiese subito lei. Pareva che non osasse guardarsi intorno.

    «No, non c’è nessuno» la rassicurai. «Mi son fermato per la sorpresa di sentirvi citare Limmeridge House. Me ne parlavano giusto pochi giorni fa alcune persone del Cumberland».

    «Non erano certo le persone che conoscevo io», sospirò.

    «Mr Fairlie è morto e così pure sua moglie. La loro bambina sarà ormai una donna e già sposata. Chissà dov’è. Non so chi sia il nuovo proprietario di Limmeridge House… e neppure se c’è qualcuno che porta il nome dei Fairlie. La signora di Limmeridge House… oh, come la ricordo!»

    Sembrava propensa a continuare il discorso. Ma intanto eravamo giunti alla barriera del dazio. Sentii allora che la donna mi stringeva forte il braccio e si irrigidiva tutta.

    «C’è la guardia? Ci vedrà passare?»

    Tornai a rassicurarla: il casellante non guardava fuori e là intorno non c’erano altre guardie. Passammo il cancello indisturbati, però la donna non si calmò: pareva che la vista della strada ben illuminata dai lampioni a gas le comunicasse una nuova agitazione. Mi sospinse leggermente verso il marciapiede che correva lungo i giardini delle case, nell’ombra degli alberi.

    «Questa è Londra» mormorò. «Ma non ci sono vetture pubbliche? Ho bisogno di trovare subito una carrozza… perché sono stanca. Non vedo l’ora di chiudermi in una carrozza che mi porti… via, via!»

    Le spiegai che il posteggio era molto lontano, poi tentai di riportare il discorso sul Cumberland e Limmeridge House. Mi accorsi che non mi ascoltava neppure, tutta presa dall’ansia di trovare una carrozza, chiudersi dentro e farsi portare via.

    Avevamo già percorso circa un terzo di Avenue Road quando ebbi la fortuna di vedere una carrozza pubblica che si fermava a scaricare un passeggero, un bel tratto più in là. Feci cenno al vetturino perché ci attendesse, ma la donna si mise a correre costringendomi a tenerle dietro.

    «È tardi» diceva intanto. «È tardi e sono stanca. Per questo voglio quella carrozza… solo per questo».

    Il cocchiere ci accolse dicendo con molta cortesia:

    «Vi sarei grato, signore, se andaste dalla parte di Tottenham Court Road. Il cavallo è stanco, non posso che portarlo verso la stalla».

    «Sì, sì! Per me va bene!» fece lei con sollecitudine eccessiva. «Devo andare proprio da quella parte».

    La feci salire in carrozza, mi assicurai che il vetturino fosse sobrio e civile come m’era sembrato al primo momento e infine mi rivolsi alla donna pregandola di lasciare che l’accompagnassi sana e salva a destinazione.

    «No, no, no!» protestò con veemenza. «Ora sono al sicuro… sto bene così, voglio dire. Mi avevate promesso che non mi avreste ostacolata in nessun modo. Voi siete un gentiluomo… Oh, grazie, grazie!».

    Mi prese la mano e la baciò con foga, poi mi respinse e richiuse la portiera. La carrozza si mise subito in moto… e io le tenni dietro per qualche passo, con la vaga idea di richiamare indietro il vetturino e salire anch’io. Quando mi decisi a gridare, la carrozza era già lontana e il rumore delle ruote coprì la mia voce… o forse io non gridai abbastanza forte per farmi udire. Dopo tutto, temevo qualche strana reazione da parte della sconosciuta. La vettura scomparve in fondo alla strada. La donna in bianco se n’era andata.

    Passarono altri dieci minuti durante i quali proseguii meccanicamente per la mia strada, fermandomi però di tanto in tanto a rimuginare sullo strano incontro che m’era capitato. Ero non solo perplesso ma anche a disagio: mi turbava infatti la inspiegabile sensazione di non essermi comportato come avrei dovuto e tuttavia non riuscivo a capire quale sarebbe stato il modo giusto. Il sopraggiungere di una carrozza mi riscosse dai miei pensieri, riportandomi alla realtà esterna.

    Sul marciapiede opposto, quello bene illuminato, un poliziotto procedeva lentamente nella mia stessa direzione, verso Regent’s Park. Alle mie spalle veniva avanti una carrozza del tipo da diporto, con due uomini a cassetta. Non so perché mi fermai quasi nascondendomi nell’ombra di alcuni alberi.

    Mentre la vettura mi passava davanti, uno dei due uomini gridò: «Ecco là un poliziotto. Domandiamo a lui». E si fermò a pochi metri da me.

    «Agente!» gridò ancora. «Avete visto passare una donna?»

    «Che tipo di donna, signore?» chiese l’altro a sua volta.

    «Una giovane con un abito color lavanda…» Il suo compagno lo interruppe dicendo: «No! Gli abiti che le abbiamo dato erano sul letto. Dev’esser uscita con quelli che aveva prima…».

    «Con un abito bianco, allora» riprese quello che aveva parlato per primo. «Non avete visto una donna tutta in bianco?»

    «No, signore» rispose il poliziotto.

    «Se la vedete, procurate che sia mandata sotto scorta a questo indirizzo…» L’uomo si sporse per dare al poliziotto un biglietto. «Pagheremo tutte le spese e in più una buona mancia, per chi riesce a trovare quella donna. Ditelo anche ai vostri colleghi».

    «Ma perché dovrei fermarla, signore?» obiettò il poliziotto. «Cosa ha mai fatto?»

    «Fatto?» ripeté l’uomo della carrozza. «Nulla… È semplicemente fuggita dal manicomio! Ricordatevene dunque. Una donna in bianco… tutta vestita di bianco!».

    iv

    Fuggita dal manicomio!.

    Se dicessi che quella frase mi colpì come una rivelazione improvvisa, mentirei. Certe strane domande che la donna in bianco mi aveva rivolto, specie dopo la sconsiderata promessa di aiutarla ma lasciandola agire a piacer suo, e certi bruschi sbalzi d’umore e la visibile angoscia di essere inseguita, mi avevano fatto pensare a una creatura sconvolta da una qualche sfortunata esperienza o fors’anche un po’ labile di mente per sua natura; ma non avevo riscontrato in lei nulla che giustificasse il concetto di completa insanità mentale, sempre associato alla parola stessa di manicomio. E devo altresì confessare che l’idea di aver avuto a fianco una pazza non mi convinceva affatto, neppure dopo la terribile frase detta dagli uomini che evidentemente la stavano inseguendo.

    Cosa avevo fatto, dunque? Avevo aiutato la vittima innocente di qualche orribile raggiro o non avevo piuttosto assistito nella fuga verso la grande Londra una povera creatura che sarebbe stato più pietoso, oltre che doveroso, controllare di continuo? Il dilemma mi turbava profondamente. Eppure, anche mentre mi rivolgevo queste domande e mi rimproveravo per non averle intuite prima, mi sentivo stringere il cuore al pensiero della sorte che – in un caso o nell’altro – attendeva quella povera ragazza…

    Arrivai nel mio appartamentino di Clement’s Inn in uno stato d’animo che certamente non mi avrebbe conciliato il sonno. Decisi perciò di trascorrere le poche ore che mancavano alla partenza, leggendo o disegnando, anziché in un riposo improbabile. Ma l’immagine della donna in bianco si frapponeva costantemente tra me e la pagina scritta o il foglio su cui disegnavo. Dove aveva fatto fermare la carrozza? Aveva trovato persone disposte ad aiutarla oppure era incorsa in qualche pericolo? Era ancora libera delle proprie azioni o i suoi inseguitori l’avevano raggiunta? E se era ancora in libertà, per quanto tempo avrebbe potuto goderne? E quella libertà era per lei un bene o non piuttosto un male? In quale misura avevo contribuito, io, a quel bene o a quel male? Probabilmente non avrei mai più sentito parlare di lei… o il destino ci riserbava un altro incontro?

    Accolsi con sollievo l’ora di richiudermi la porta alle spalle e dire mentalmente arrivederci alla città che lasciavo. Perfino il trambusto della stazione, di solito per me così fastidioso, servì a distrarmi e mi rialzò il morale.

    Secondo le istruzioni ricevute dovevo scendere a Carlisle e prendere un treno di una linea secondaria che correva lungo la costa, fino a Limmeridge, dove avrei trovato una carrozza ad attendermi. Per cominciare, tra Lancaster e Carlisle la locomotiva si fermò per un guasto e io perdetti la coincidenza. Dovetti aspettare per alcune ore: quando finalmente arrivò il mio treno era quasi sera. Giunsi a Limmeridge che mancava poco alle dieci. Naturalmente, a Limmeridge non c’era illuminazione stradale e in quell’oscurità faticai perfino a vedere la carrozza che per fortuna era ancora là ad attendermi.

    Il cocchiere, evidentemente seccato per il lungo ritardo, mi accolse con quell’aria di rispettoso malumore che dev’essere una caratteristica speciale dei domestici inglesi. Ci avviammo in silenzio e a passo lento, giacché il buio rendeva più difficoltosa una strada di per sé poco agevole. Circa un’ora e mezzo dopo l’inizio di quest’ultima parte del mio viaggio, sentii in lontananza il rumore del mare, poi mi accorsi che la carrozza aveva imboccato un viale coperto di ghiaia su cui le ruote correvano più spedite. Prima del viale avevamo superato un grande cancello e ne superammo un secondo per fermarci dopo poco davanti alla dimora di Mr Fairlie. Sulla porta c’era un cameriere, non in livrea, il quale mi informò che tutta la famiglia si era già ritirata per la notte, ma il mio pranzo era servito.

    Cenai, infatti, in una vasta sala deserta, confinato a una estremità di un imponente tavolo di mogano, avendo alle spalle un cameriere che mi servì con la stessa solennità e lo stesso cerimoniale che avrebbe usato per un pranzo con invitati. Io ero troppo stanco per mangiare e bere con gusto. Mi sbrigai in meno di un quarto d’ora, dopodiché il cameriere mi accompagnò nella mia stanza, controllò che tutto fosse in ordine, poi «Prima colazione alle nove, signore» disse e si ritirò.

    Al momento di spegner la candela mi chiesi:. Chi sognerò stanotte? La donna in bianco o le due sconosciute fanciulle che vivono in questa dimora?. Mi faceva uno strano effetto esser lì, in procinto di addormentarmi, in una casa dove ero ricevuto come amico senza che avessi ancor visto uno solo dei componenti della famiglia.

    v

    Il mattino seguente, quando aprii le imposte, mi vidi davanti la distesa del mare, scintillante sotto il gran sole d’agosto.

    La sorpresa fu tale – per me abituato al paesaggio londinese, tutto mattoni e calce – che mi sentii veramente rinascere: ebbi cioè la confusa sensazione di aver perduto l’aggancio con il passato, senza tuttavia aver acquisito una qualche chiarezza di idee rispetto al mio presente e al mio futuro, sapendo solo che entravo in un nuovo ordine di cose e di pensieri. Avvenimenti vecchi solo di qualche giorno sfumavano nella mia memoria come se fossero accaduti mesi e mesi addietro. Così i bizzarri discorsi di Pesca nell’annunciarmi l’offerta di lavoro, la serata d’addio a mia madre e a mia sorella, perfino l’avventura notturna di ritorno da Hampstead, mi sembravano circostanze appartenenti a un’esistenza diversa e lontana. La figura della donna in bianco mi stava ancora in mente, ma già debole ed offuscata.

    Poco prima delle nove scesi a pianterreno. Il solito cameriere dall’aria solenne mi trovò che vagolavo per i corridoi e pietosamente mi indicò la sala del breakfast.

    Entrai così in una grande stanza dove la tavola era già

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