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La Pietra di Luna
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La Pietra di Luna
E-book721 pagine10 ore

La Pietra di Luna

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Info su questo ebook

Traduzione di Adriana Altavilla
Edizione integrale

Nell’estate del 1848 Rachel Verinder riceve in eredità, nel giorno del suo diciottesimo compleanno, un prezioso diamante di origine indiana, forse il più grande al mondo: la Pietra di Luna. Ma la notte della festa, mentre la casa di campagna dei Verinder è piena di ospiti, il diamante misteriosamente scompare. Chi si è impadronito della Pietra di Luna? Forse Franklin Blake, il giovane cugino apparentemente innamorato di Rachel, oppure Rosanna Spearman, la cameriera con un passato oscuro? O i responsabili del furto sono forse i tre misteriosi viaggiatori indiani che qualcuno ha visto aggirarsi intorno alla casa? Un indizio dopo l’altro, gli oscuri segreti che ciascun personaggio nasconde vengono alla luce, fino a chiudere il cerchio intorno all’insospettabile colpevole.
Wilkie Collins
(1824-1889), figlio di un pittore paesaggista, studiò Legge senza mai praticare la professione, attingendo alle conoscenze del crimine maturate per le sue opere. La fortuna arrivò dopo l’incontro con Dickens, che pubblicò gli scritti di Collins sulle sue riviste, inaugurando un rapporto di lavoro e di amicizia che durò dieci anni. Fu un autore molto prolifico, scrisse venticinque romanzi, più di cinquanta racconti e numerose opere teatrali. Di Wilkie Collins la Newton Compton ha pubblicato La donna in bianco, Senza nome e L'albergo stregato.
LinguaItaliano
Data di uscita7 lug 2016
ISBN9788854194359
La Pietra di Luna
Autore

Wilkie Collins

Wilkie Collins, hijo del paisajista William Collins, nació en Londres en 1824. Fue aprendiz en una compañía de comercio de té, estudió Derecho, hizo sus pinitos como pintor y actor, y antes de conocer a Charles Dickens en 1851, había publicado ya una biografía de su padre, Memoirs of the Life of William Collins, Esq., R. A. (1848), una novela histórica, Antonina (1850), y un libro de viajes, Rambles Beyond Railways (1851). Pero el encuentro con Dickens fue decisivo para la trayectoria literaria de ambos. Basil (ALBA CLÁSICA núm. VI; ALBA MÍNUS núm.) inició en 1852 una serie de novelas «sensacionales», llenas de misterio y violencia pero siempre dentro de un entorno de clase media, que, con su técnica brillante y su compleja estructura, sentaron las bases del moderno relato detectivesco y obtuvieron en seguida una gran repercusión: La dama de blanco (1860), Armadale (1862) o La Piedra Lunar (1868) fueron tan aplaudidas como imitadas. Sin nombre (1862; ALBA CLÁSICA núm. XVII; ALBA CLÁSICA MAIOR núm. XI) y Marido y mujer (1870; ALBA CLÁSICA MAIOR núm. XVI; ALBA MÍNUS núm.), también de este período, están escritas sin embargo con otras pautas, y sus heroínas son mujeres dramáticamente condicionadas por una arbitraria, aunque real, situación legal. En la década de 1870, Collins ensayó temas y formas nuevos: La pobre señorita Finch (1871-1872; ALBA CLÁSICA núm. XXVI; ALBA MÍNUS núm 5.) es un buen ejemplo de esta época. El novelista murió en Londres en 1889, después de una larga carrera de éxitos.

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    Anteprima del libro

    La Pietra di Luna - Wilkie Collins

    559

    Titolo originale: The Moonstone

    Traduzione di Adriana Altavilla

    Prima edizione ebook: luglio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9435-9

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Wilkie Collins

    La Pietra di Luna

    Traduzione di Adriana Altavilla

    Newton Compton editori

    Nota biobibliografica

    cronologia della vita e delle opere

    1824. William Collins, conosciuto come Wilkie, nasce l’8 gennaio a Londra. È il primogenito di William Collins, famoso paesaggista e ritrattista dell’epoca.

    1836-38. Segue la famiglia prima in Francia, poi in Italia.

    1841. Interrompe gli studi e decide di entrare nel mondo del commercio del tè, accorgendosi presto di non essere portato per gli affari. Durante quest’esperienza intraprende i primi esperimenti di scrittura.

    1843. Pubblica il racconto The Last Stage Coachman sull’«Illuminated Magazine».

    1846. Inizia a studiare legge al Lincoln’s Inn.

    1847. Muore il padre.

    1848. Pubblica The Memoirs of the Life of William Collins, Esq., R.A., monumentale biografia dedicata al genitore morto l’anno prima, riscuotendo un buon successo di critica.

    1850. Pubblica il romanzo storico Antonina. Ovvero la caduta di Roma e inizia a collaborare con diverse riviste.

    1851. Ottiene l’abilitazione all’avvocatura, ma è la scrittura ad assorbire tutte le sue energie. Conosce Charles Dickens, cui sarà legato da un profondo rapporto di lavoro e d’amicizia. Inizia a collaborare con l’amico pubblicando racconti sulle riviste «Household Words» e «All the Year Round».

    1852. Con la pubblicazione di Basil dà inizio al sensation novel.

    1854. Pubblica il romanzo Hide and Seek. Comincia a soffrire di gotta reumatica, che lo affliggerà per tutto il resto della vita. A causa della malattia subirà un drastico calo della vista, tanto da dover ricorrere a numerose segretarie, cui dettare i suoi scritti. Per far fronte ai terribili dolori che lo tormentano assume quantità sempre più elevate di laudano, fino a diventare un oppiomane.

    1855. Spronato dall’amico Dickens, alla scrittura di articoli, racconti e romanzi inizia ad affiancare quella di opere teatrali, spesso tratte da suoi precedenti testi narrativi.

    1856. Viene pubblicata After Dark, prima raccolta di racconti. In primavera conosce colei che gli ispirerà la donna in bianco, Caroline Graves, una vedova del Gloucestershire, già madre di una bambina (Carrie).

    1857. È dato alle stampe il romanzo The Dead Secret.

    1858. Inizia la convivenza con Caroline, cui sarà legato per oltre trent’anni, pur non sposandola mai.

    1859. Da novembre, sulla rivista di Dickens «All the Year Round», inizia la pubblicazione a puntate della Donna in bianco. Il romanzo viene accolto trionfalmente, tanto da influenzare la moda e i gusti del tempo. In questo stesso anno esce un’altra raccolta di racconti, The Queen of Hearts.

    1860. Ad agosto termina la pubblicazione della Donna in bianco.

    1862. Esce il romanzo Senza nome.

    1863. Viene pubblicata My Miscellanies, raccolta di ventiquattro tra saggi e racconti.

    1864. Il quarantenne Wilkie conosce la cameriera diciannovenne Martha Rudd, altra donna fondamentale della sua vita. Pur continuando a vivere con Caroline, l’uomo inizia una relazione con la giovane, che non sposerà, ma dalla quale avrà tre figli (Marian, Harriet e Charley). I due, per dare una parvenza di rispettabilità alla loro relazione, si faranno chiamare Mr e Mrs William Dawson, cognome che passerà ai figli.

    1866. Esce il romanzo Armadale.

    1868. Su «All the Year Round» inizia la pubblicazione a puntate della Pietra di Luna, primo grande romanzo poliziesco inglese. Caroline si ribella alla relazione che Wilkie ha con Martha, e decide di sposarsi con Joseph Clow. Alla cerimonia parteciperà lo stesso Wilkie.

    1870. Il 9 giugno muore Dickens. Dopo il successo raggiunto nel decennio precedente, comincia la parabola discendente della produzione di Wilkie. Viene pubblicato il romanzo Uomo e donna.

    1871. Ad aprile Caroline decide di tornare a vivere con Wilkie, fino alla morte del compagno.

    1875-76. Pubblica La legge e la signora e I due destini.

    1879-81. Escono i romanzi Foglie cadute, Jezebel’s Daughter, La veste nera.

    1889. Le condizioni di salute di Wilkie sono sempre più precarie. A gennaio viene sbalzato via dalla carrozza su cui viaggia, in seguito a un incidente. A giugno viene colpito da un ictus e il 23 settembre muore, a Londra. Viene sepolto al Kensal Green Cemetery. Accanto a lui verrà seppellita Caroline, morta nel 1895.

    bibliografia

    Gli asterischi indicano testi usciti a puntate su rivista prima di essere editi in volume.

    Romanzi

    Antonina, or the Fall of Rome, 3 voll., Richard Bentley, London 1850.

    Mr Wray’s Cash-Box (o the Mask and the Mystery), Richard Bentley, London 1852.

    Basil: A Story of Modern Life, 3 voll., Richard Bentley, London 1852.

    Hide and Seek, 3 voll., Richard Bentley, London 1854.

    The Dead Secret*, 2 voll., Bradbury & Evans, London 1857.

    The Woman in White*, 3 voll., Sampson Low, London 1860.

    No Name*, 3 voll., Sampson Low, London 1862.

    Armadale*, 2 voll., Smith, Elder, London 1866.

    The Moonstone. A Romance*, 3 voll., Tinsley Brothers, London 1868.

    Man and Wife*, 3 voll., F. S. Ellis, London 1870.

    Poor Miss Finch. A Novel*, 3 voll., Richard Bentley, London 1872.

    The New Magdalen*, 2 voll., Richard Bentley, London 1873.

    The Law & the Lady*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1875.

    The Two Destinies*, 2 voll., Chatto & Windus, London 1876.

    A Rogue’s Life*, Richard Bentley, London 1879.

    The Fallen Leaves*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1879.

    Jezebel’s Daughter*, 3 voll., Chatto and Windus, London 1880.

    The Black Robe*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1881.

    Heart and Science: A Story of the Present Time*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1883.

    I Say No*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1884.

    The Evil Genius: A Domestic Story*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1886.

    The Guilty River, J. W. Arrowsmith, Bristol 1886.

    The Legacy of Cain*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1889.

    Blind Love*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1890 (romanzo postumo completato da Walter Besant).

    Antologie di racconti

    After Dark*, 2 voll., Smith, Elder, London 1856.

    The Queen of Hearts*, 3 voll., Hurst & Blackett, London 1859.

    Miss or Mrs? and other stories in outline*, Richard Bentley, London 1873.

    The Frozen Deep*, 2 voll., Richard Bentley, London 1874.

    Little Novels*, 3 voll., Chatto & Windus, London 1887.

    Altri scritti

    The Memoirs of the Life of William Collins, Esq., R.A., 2 voll., Longman, Brown, Green, and Longmans, London 1848.

    My Miscellanies*, 2 voll., Sampson Low, London 1863.

    The Lazy Tour of Two Idle Apprentices*, Chapman & Hall, London 1890 (postumo).

    Traduzioni italiane

    Romanzi

    Antonina. Ovvero la caduta di Roma, trad. di M. Bisanti, Castelvecchi, Roma 2012; lit, Roma 2012.

    Basil, trad. di A. Tubertini, Fazi Editore, Roma 2002.

    La donna vestita di bianco, trad. di E. Bairati e V. Ferretti, s.a.i.e, Torino 1957; Ed. Paoline, Catania 1968.

    La ragazza vestita di bianco, trad. di F. De Poli, Fratelli Fabbri Editori, Milano 1968.

    La signora in bianco, introd. di Julian Symons, trad. di F. Dei, Mondadori, Milano 1979.

    La donna in bianco, introd. di I. Fei, trad. di G. Gaipa, Garzanti, Milano 1980; trad. di S. Tummolini, Fazi Editore, Roma 1996, 2009, 2015; trad. di F. Dei, Newton Compton, Roma 2016.

    Senza nome, trad. di L. Scarlini, Fazi Editore, Roma 1999, 2010, 2015; trad. di A. Altavilla, Newton Compton, Roma 2016.

    Armadale, trad. di A. Tubertini, Fazi Editore, Roma 2001; trad. D. Paladini, Newton Compton, Roma 2016.

    Il diamante della Luna, Sonzogno, 1928; Nerbini, 1948.

    Il diamante indiano, trad. di A. Pitta, Mondadori, Milano 1933, 1937.

    La pietra della Luna, 4 voll., Treves, Milano 1870-1871; introd. di A. Brilli, trad. di O. Previstali, 2 voll., Rizzoli, Milano 1954, 2001, 2010; riduz. di A. Curcio, ill. di A. D’Agostini, Radar, Padova 1964.

    La Pietra di Luna, introd. di T. S. Eliot, trad. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1971; trad. di M. Cassini, ill. di L. Francesconi, Mursia, Milano 1972, 1989; introd. di A. Marcheselli, prefaz. di R. Barbolini, trad. di P. Lahier e M. L. Rissler Stoneman, Garzanti, Milano 1972, 2002, 2011; introd. di J. J. M. Stewart, trad. di E. Capriolo, Mondadori, Milano 1984; trad. di C. Montonati, Demetra, Bussolengo 1996; a cura di F. Quasimodo Palumbo, Palermo 2000; introd. di M. Mancuso, trad. di M. Rinaldi, Fazi Editore, Roma 2000; introd. di A. Marcheselli, prefaz. di R. Barbolini, trad. di P. Jahier e M. L. Rissler-Stoneman, «La Stampa», Torino 2003; trad. di E. Costa, Faligi, Aosta 2013; trad. di A. Altavilla, Newton Compton, Roma 2016.

    La maledizione del diamante indiano, trad. di V. Viviani, Editrice Nord, Milano 2001.

    Uomo e donna, trad. di A. Tubertini, Fazi Editore, Roma 2004.

    La legge e la signora, trad. di L. Scarlini, postfaz. di A. Calanchi, Fazi Editore, 2000, 2007.

    I due destini, Sonzogno, Milano 1884.

    Foglie cadute, trad. di C. Vannuccini, Fazi Editore, Roma 2005.

    La veste nera, trad. di A. Lombardi Bom, Fazi Editore, Roma 2003.

    Il fiume della colpa, trad. di P. Parnisari, Fazi Editore, Roma 2002.

    L’albergo stregato, trad di O. Fatica, Editori Riuniti, Roma 1985; trad. di U. Ledda, Newton Compton, Roma 2016.

    Racconti e altri scritti

    Molti racconti di Collins sono usciti negli anni in raccolte antologiche e nella collana Giallo Mondadori.

    Tre storie in giallo, trad. di I. Loffredo con una nota di A. Brilli, Sellerio, Palermo 1985.

    Il truffatore truffato, a cura di F. Basso, Sellerio, Palermo 1991.

    Testimone d’accusa, a cura di F. Basso, Sellerio, Palermo 1996.

    La follia dei Monkton, a cura e trad. di F. Basso, Sellerio, Palermo 2001, 2007.

    Il pigro viaggio di due apprendisti oziosi, introd. di M. La Ferla, trad. e note di M. Premolidi, Sellerio, Palermo 2003.

    Saggi critici

    F. Rota, Wilkie Collins, Padova 1953.

    S. Benvenuti e G. Rizzoni, Il romanzo giallo. Storia, autori e personaggi, Mondadori, Milano, 1979.

    F. Fossati e R. Di Vanni, Guida al giallo, Gammalibri, Milano 1979/1980.

    R. Barbolini, Il detective sublime, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1988.

    G. Fink, Togliere le virgolette, in «Paragone Letteratura», n. 502-504, 1993; A. Calanchi, Visite guidate, ivi; M. Ascari, Più di una penna, più di un testimone, ivi.

    A. Calanchi, A solitary prisoner in his own room: lo studio di Mr Frederick Fairlie, Esq., in Quattro studi in rosso. I confini del privato maschile nella narrativa vittoriana, Il Ponte Vecchio, Cesena 1997.

    C. Di Vaio, Wilkie Collins e il Gioco delle Coppie, Aracne editrice, Roma 2008.

    La Pietra di Luna

    Prologo

    L’assalto di Seringapatam (1799)

    Estratto da un documento familiare

    i

    Indirizzo queste righe – scritte in India – ai miei parenti in Inghilterra. Il mio scopo è spiegare il motivo che mi ha spinto a rifiutare la mano amichevole che mio cugino, John Herncastle, mi ha teso. Il riserbo che ho mantenuto finora riguardo alla questione è stato frainteso dai membri della mia famiglia, alla cui buona opinione non posso permettermi di rinunciare. Chiedo loro di sospendere il giudizio finché non abbiano letto il mio racconto. E dichiaro, sulla mia parola d’onore, che quanto sto per scrivere ora è, rigorosamente e letteralmente, la verità.

    La rottura personale dei rapporti tra me e mio cugino ebbe inizio durante un grande avvenimento pubblico in cui entrambi eravamo coinvolti: l’assalto di Seringapatam, sotto il comando del generale Baird, il 4 maggio 1799.

    Allo scopo di rendere chiare e comprensibili le circostanze, devo fare un passo indietro e tornare al periodo precedente all’assalto, e alle storie che circolavano nel nostro campo sul tesoro di gemme e oro ammassato nel palazzo di Seringapatam.

    ii

    Una delle storie più folli era legata a un Diamante Giallo, una gemma famosa nelle antiche cronache indiane. Le più antiche tradizioni conosciute descrivono la pietra incastonata sulla fronte del dio indiano quadrumane che simboleggia la luna. In parte a causa del suo colore peculiare, in parte per via di una superstizione che la voleva sensibile all’influenza della divinità che adornava, e in grado di aumentare e diminuire la propria luminosità con il crescere e il decrescere della luna, sin dall’inizio prese il nome con il quale continua a essere conosciuta in India fino ai giorni nostri, ossia la Pietra di Luna. Stando alle mie conoscenze, tempo addietro una superstizione simile si era diffusa sia nell’antica Grecia che a Roma; non era legata tuttavia (come in India), a un diamante consacrato ai servigi di un dio, ma a una pietra semitrasparente di una categoria inferiore di gemme, che si supponeva fosse influenzata dai cicli lunari. Anche in quest’ultimo caso, dalla luna traeva il nome con cui è tuttora conosciuta dai collezionisti.

    Le avventure del Diamante Giallo hanno origine nell’undicesimo secolo dell’era cristiana.

    In quel periodo, il conquistatore Mahmoud di Ghizni attraversò l’India, prese la città santa di Somnauth e saccheggiò dei suoi tesori il famoso tempio che era stato per secoli il santuario dei pellegrinaggi indù e la meraviglia del mondo occidentale.

    Di tutte le divinità venerate nel tempio, solo il dio della luna sfuggì alla rapacità dei conquistatori maomettani. Custodita da tre bramini, la divinità inviolata, con il Diamante Giallo incastonato sulla fronte, fu rimossa nottetempo e trasferita nella seconda città sacra dell’India, Benares.

    Qui, in un nuovo santuario – in una sala intarsiata di pietre preziose, sotto un tetto sostenuto da colonne d’oro – il dio della luna fu innalzato e venerato. Qui, la notte in cui il santuario fu completato, Vishnu il Preservatore comparve in sogno ai tre bramini.

    Il dio soffiò il suo alito divino sul diamante posto sulla fronte dell’immagine sacra. E i bramini caddero in ginocchio e nascosero il volto nei mantelli. Il dio ordinò che la Pietra di Luna fosse custodita, da allora in avanti, da tre sacerdoti a turno, giorno e notte, fino alla fine delle generazioni umane. E i bramini ascoltarono e s’inchinarono alla sua volontà. Il dio predisse inevitabili sciagure al superbo mortale che avesse messo le mani sulla pietra sacra, e a tutti i membri della sua famiglia e della sua casa che lo avessero ricevuto dopo di lui. E i bramini fecero scrivere la profezia sopra i cancelli del santuario con lettere d’oro.

    I secoli si susseguirono, e sempre, generazione dopo generazione, i successori dei tre bramini custodirono l’inestimabile Pietra di Luna, giorno e notte. Un secolo seguì l’altro finché i primi anni del xviii secolo dell’era cristiana videro sorgere il regno di Aurungzebe, imperatore dei Mongoli. Sotto il suo comando, si scatenarono ancora una volta devastazioni e saccheggi tra i templi votati al culto di Brahma. Il santuario del dio quadrumane fu contaminato dall’uccisione di animali sacri, le immagini delle divinità furono fatte a pezzi; e la Pietra di Luna fu trafugata da un alto ufficiale dell’esercito di Aurungzebe.

    Incapaci di recuperare il tesoro perduto con la forza, i tre custodi lo sorvegliarono e lo seguirono sotto mentite spoglie. Le generazioni si susseguirono; il guerriero che si era macchiato del sacrilegio perì miseramente; la Pietra di Luna passò (portando con sé la propria maledizione) da un maomettano fuorilegge all’altro; e sempre, attraverso tutti i casi e i mutamenti, i successori dei tre sacerdoti continuarono a sorvegliarla, in attesa del giorno in cui la volontà di Vishnu il Preservatore avrebbe restituito loro la pietra sacra. Il tempo continuò a scorrere dai primi agli ultimi anni del xviii secolo dell’era cristiana. Il diamante cadde nelle mani di Tippoo, sultano di Seringapatam, che lo fece incastonare come ornamento nel manico di un pugnale, dando ordine di conservarlo tra i tesori più preziosi della sua armeria. Persino allora – nel palazzo del sultano – i tre sacerdoti continuarono a sorvegliarlo in segreto. C’erano tre funzionari alla corte di Tippoo, sconosciuti a tutti gli altri, che avevano conquistato la fiducia del loro signore abbracciando, o fingendo di abbracciare, la fede musulmana; e gli annali segnalano che questi tre uomini fossero proprio i tre sacerdoti travestiti.

    iii

    Così veniva raccontata nel nostro campo la strana storia della Pietra di Luna. Non suscitò alcuna impressione seria in nessuno di noi, eccetto mio cugino, il cui amore per il meraviglioso lo spinse a crederci. La sera precedente l’assalto a Seringapatam andò assurdamente su tutte le furie con me e con altri per aver considerato l’intera questione alla stregua di una favola. Ne seguì una sciocca disputa; e il brutto carattere di Herncastle ebbe la meglio. Dichiarò, strafottente e vanaglorioso, che gli avremmo visto il diamante al dito, se l’esercito inglese avesse conquistato Seringapatam. La battuta fu accolta da una fragorosa risata, e il discorso si chiuse così, o almeno fu quanto credemmo tutti quella sera.

    Lasciate che ora vi conduca al giorno dell’assalto. Mio cugino e io fummo separati fin dal principio. Non lo vidi mai quando forzammo il fiume, né quando piantammo la bandiera inglese sulla prima breccia o quando attraversammo il fossato posteriore ed entrammo in città combattendo a ogni passo. Fu solo al tramonto, quando la città era ormai nostra, e dopo che lo stesso generale Baird ebbe trovato il cadavere di Tippoo sotto un mucchio di caduti, che Herncastle e io ci incontrammo.

    Eravamo ciascuno al comando di un drappello inviato per ordine del generale a impedire il saccheggio e la confusione che seguirono alla nostra conquista. I civili al nostro seguito commisero deplorevoli eccessi; e quel che è peggio, i nostri soldati trovarono l’accesso, entrando da una porta incustodita, al tesoro del palazzo, e si caricarono di oro e gioielli. Fu nel cortile esterno alla tesoreria che mio cugino e io ci incontrammo, a imporre la disciplina della legge tra i nostri soldati. Il temperamento focoso di Herncastle era andato, da quel che riuscii chiaramente a vedere, esasperandosi fino a diventare una sorta di frenesia a causa del terribile massacro da cui eravamo appena usciti. Era assai inadatto, a mio avviso, a eseguire il compito che gli era stato affidato.

    C’erano ribellione e caos nella tesoreria, ma nessun accenno di violenza, a quel che mi constava. Gli uomini (se mi è permesso usare un’espressione simile) si disonoravano in allegria. Tra loro volavano ogni specie di barzelletta e parolacce grossolane; e inaspettatamente venne fuori anche la storia del diamante, sotto forma di battuta maligna. «Chi ha la Pietra di Luna?», era il grido di guerra che, interrotto il saccheggio in un punto, lo faceva puntualmente ricominciare in un altro. Mentre stavo ancora tentando, invano, di ristabilire l’ordine, sentii un urlo spaventoso dall’altra parte del cortile, e mi precipitai subito verso le urla, temendo che in quella direzione si fosse scatenato un nuovo saccheggio.

    Arrivai a una porta aperta e vidi i corpi di due indiani (a giudicare dagli abiti, ne dedussi, ufficiali del palazzo) stesi sulla soglia, morti.

    Un grido dall’interno mi fece correre in una stanza, che sembrava servire da armeria. Un terzo indiano, ferito a morte, si stava accasciando ai piedi di un uomo che mi dava le spalle. L’uomo si voltò all’istante quando entrai e vidi che si trattava di John Herncastle, con una torcia in una mano e un pugnale che grondava sangue nell’altra. Una pietra, incastonata come un pomello all’estremità del manico, fiammeggiò alla luce della torcia quando lui si girò verso di me, come un bagliore di fuoco. L’indiano morente crollò in ginocchio, indicò il pugnale nella mano di Herncastle e disse, nella sua lingua natìa: «La Pietra di Luna farà cadere la sua vendetta su di voi e sui vostri!». Pronunciò queste parole, poi cadde a terra, morto.

    Prima che potessi intervenire, gli uomini che mi avevano seguito attraverso il cortile si affollarono dentro. Mio cugino si precipitò contro di loro come un pazzo. «Sgombra la stanza!», mi gridò. «E metti qualcuno di guardia alla porta!». Gli uomini indietreggiarono quando lui gli si fiondò addosso con la torcia e il pugnale. Misi due sentinelle della mia compagnia, in cui riponevo massima fiducia, a guardia della porta. Per il resto della notte, non vidi più mio cugino.

    La mattina presto, mentre il saccheggio continuava, il generale Baird annunciò pubblicamente con un rullo di tamburi che qualsiasi ladro colto in flagrante, non importava chi fosse, sarebbe stato condannato all’impiccagione. Il capo della polizia militare era sul posto, a testimonianza che il generale diceva sul serio; e nella folla che si era radunata dopo il proclama, Herncastle e io ci incontrammo di nuovo.

    Lui tese la mano, come al solito, e disse: «Buongiorno».

    Io attesi prima di ricambiare il gesto.

    «Prima di tutto chiariscimi», dissi, «come è morto quell’indiano nell’armeria, e cosa significavano le sue ultime parole, quando ha indicato il pugnale che tenevi in mano».

    «L’indiano è morto, suppongo, per una ferita mortale», disse Herncastle. «Per quanto riguarda il significato delle sue ultime parole, ne so quanto te».

    Lo scrutai con attenzione. La frenesia che lo aveva invaso il giorno prima si era spenta. Decisi di dargli un’altra possibilità.

    «È tutto qui, quel che hai da dirmi?», chiesi.

    Lui rispose: «È tutto qui».

    Gli voltai le spalle; e da allora non ci siamo più parlati.

    iv

    Desidero che si sappia che quanto ho scritto qui su mio cugino (a meno che non sia prima o poi necessario renderlo pubblico) è solo per conoscenza della mia famiglia. Herncastle non disse alcunché che potesse giustificare un mio rapporto al nostro comandante. È stato preso in giro più di una volta sul diamante, da quelli che ricordano le sue esplosioni di furia precedenti all’assalto, ma, come si può facilmente immaginare, i suoi ricordi personali delle circostanze in cui lo avevo sorpreso nell’armeria erano sufficienti a farlo tacere. Si dice che abbia intenzione di farsi trasferire in un altro reggimento, allo scopo, apertamente confessato, di allontanarsi da me.

    Che sia vero o meno, non posso costringermi a diventare il suo accusatore, e credo con buona ragione. Se rendessi pubblica la questione, non avrei altra prova che quella morale da portare a sostegno delle mie dichiarazioni. Non solo non ho prove che sia stato lui a uccidere i due uomini sulla porta; non posso nemmeno affermare incontrovertibilmente che sia lui il colpevole della morte del terzo uomo all’interno, perché non posso dire di averlo visto uccidere con i miei occhi. È vero che ho sentito le parole dell’indiano morente, ma se quelle parole erano state pronunciate come certe farneticazioni nel delirio, come avrei potuto contraddire la sua asserzione basandomi su una mia sicura conoscenza? Che i nostri parenti da entrambi i lati si formino un’opinione precisa su quanto ho scritto, e decidano per conto proprio se l’avversione che provo nei confronti di quest’uomo è ragionevole o infondata.

    Benché non dia alcun genere di credito alla fantasiosa leggenda indiana sulla gemma, devo tuttavia riconoscere, prima di concludere, di essere influenzato da una certa superstizione personale nei riguardi della questione. È mia convinzione, o mia illusione, non importa quale delle due, che il delitto porti con sé la propria maledizione. Non solo sono persuaso della colpevolezza di Herncastle; ma persino abbastanza fantasioso da credere che vivrà abbastanza per pentirsene, se terrà per sé il diamante, e che altri vivranno abbastanza per pentirsi di averlo avuto da lui, se lo darà via.

    Primo periodo

    La perdita del diamante (1848)

    Gli avvenimenti nella relazione di Gabriel Betteredge,

    maggiordomo a servizio di Lady Julia Verinder

    i

    Nella prima parte di Robinson Crusoe, a pagina centoventinove, troverete scritto quanto segue: Adesso sapevo, benché fosse troppo tardi, quanto sia stolto cominciare un lavoro prima di averne valutata la mole, e misurata la proporzione tra le nostre forze e la sua realizzazione¹.

    Solo ieri ho aperto il mio Robinsoe Crusoe su questo brano. Solo stamattina (ventuno maggio milleottocentocinquanta), è giunto il nipote della mia signora, Mr Franklin Blake, e ha scambiato una breve conversazione con me, di questo tenore.

    «Betteredge», disse Mr Franklin, «sono stato dall’avvocato per questioni di famiglia; e, tra le altre cose, abbiamo parlato dello smarrimento del diamante indiano, a casa di mia zia nello Yorkshire, due anni fa. Mr Bruff è convinto, come me, che tutta questa storia dovrebbe, nell’interesse della verità, essere messa per iscritto. E prima si fa, meglio è».

    Non riuscendo ancora a capire il suo obiettivo, e ritenendo sempre preferibile per amore di pace e tranquillità stare sempre dalla parte dell’avvocato, dissi che anch’io la pensavo così. Mr Franklin proseguì.

    «In questa storia del diamante», disse, «l’onta del sospetto ha già colpito persone innocenti, come ben sai. La memoria delle persone innocenti potrebbe soffrire, in futuro, per mancanza di una relazione sui fatti a cui quelli che verranno dopo di noi possano riferirsi. Non v’è alcun dubbio che questa nostra strana storia di famiglia dovrebbe essere raccontata. E credo anche, Betteredge, che Mr Bruff e io abbiamo trovato il modo più appropriato di farlo insieme».

    Molto soddisfacente per entrambi, senza dubbio. Ma non riuscivo a capire quale potesse essere il mio ruolo in tutto questo, ora come ora.

    «Abbiamo certi avvenimenti da riferire», proseguì Mr Franklin, «e abbiamo certe persone coinvolte in quegli avvenimenti che sono in grado di raccontarli. A partire dai fatti nudi e crudi, l’idea è che tutti dovremmo scrivere la storia della Pietra di Luna a turno, per quanto concerne la nostra esperienza, senz’aggiungere altro. Dobbiamo cominciare narrando come il diamante all’inizio fosse venuto in possesso di mio zio Herncastle, quando prestava servizio in India cinquant’anni fa. Mi sono già procurato questa narrazione introduttiva sotto forma di un vecchio documento di famiglia, che racconta i particolari fondanti dal punto di vista di un testimone oculare. La prossima mossa sarà raccontare come il diamante è arrivato a casa di mia zia nello Yorkshire, due anni fa, e come è stato smarrito non più di dodici ore dopo. Nessuno sa meglio di te, Betteredge, quel che succedeva all’epoca in casa. Dunque devi prendere in mano la penna e iniziare a scrivere».

    In questi termini fui informato del mio ruolo nella faccenda del diamante. Se siete curiosi di sapere quale fosse la strada che ho scelto nelle suddette circostanze, mi onoro di informarvi che ho fatto ciò che probabilmente avreste fatto anche voi nei miei panni. Dichiarai umilmente di non essere all’altezza del compito che mi era stato affidato – mentre dentro di me sentii di essere abbastanza intelligente per eseguirlo, se solo avessi messo alla prova le mie capacità.

    Sono trascorse due ore da che Mr Franklin mi ha lasciato. Appena ha voltato le spalle, mi sono seduto alla scrivania per scrivere la storia. Lì sono rimasto, sfiduciato (malgrado le mie capacità), per tutto questo tempo – comprendendo fino in fondo il significato del brano di Robinson Crusoe citato in precedenza – ovvero la follia di intraprendere un’opera prima di averne calcolato i costi, e prima di valutare con esattezza le nostre forze per portarla a compimento. Ricordate, per favore, che ho aperto il libro per caso, a quel passo, solo il giorno prima di accettare avventatamente di eseguire il compito che ora mi accingo a svolgere. E, permettetemi di chiedervi, se non è profezia questa, cos’altro può esserlo?

    Non sono superstizioso; ho letto una gran quantità di libri ai miei tempi; a modo mio sono uno studioso. Benché abbia compiuto settant’anni, sono dotato di una memoria attiva, e di gambe altrettanto buone. Vi prego di non considerare espressione di ignoranza la mia opinione secondo cui non è stato mai scritto, né più lo sarà, un libro quale Robinson Crusoe. Mi sono rivolto a questo romanzo per anni, generalmente in compagnia di una pipa, e in lui ho trovato un amico in tutte le necessità di questa vita mortale. Quando il mio umore è nero: Robinson Crusoe. Quando ho bisogno di un consiglio: Robinson Crusoe. In passato, quando mia moglie mi tormentava; ora, quando bevo un goccetto di troppo: Robinson Crusoe. Ho consumato sei solidi Robinson Crusoe a furia di farli lavorare sodo al mio servizio. Per il mio ultimo compleanno, la mia signora me ne regalò una settima. Ho bevuto un goccetto di troppo, in vista dell’occasione; e Robinson Crusoe mi ha rimesso in riga. Quattro scellini e sei centesimi, rilegato in blu, e con un’illustrazione per soprammercato.

    Tuttavia, questo non sembra proprio l’inizio della storia del diamante, nevvero? Mi pare di essere in cerca di Dio sa cosa, Dio sa dove. Prenderò un altro foglio, se permettete, e comincerò daccapo, con i miei migliori ossequi.

    ii

    Ho accennato alla mia signora, una o due righe indietro. Ora, il diamante non sarebbe mai potuto arrivare in casa nostra, dove fu smarrito, se non fosse stato offerto in dono alla figlia della mia signora; e la figlia della mia signora non sarebbe mai stata in vita né avrebbe potuto ricevere tale dono se non fosse stato per la mia signora che (con doglie e travaglio) la mise al mondo. Di conseguenza, se vogliamo cominciare dalla mia signora, dobbiamo esser certi di andare indietro quanto basta. E questo, lasciate che ve lo dica, nell’accingersi a svolgere un compito come il mio è una vera e propria consolazione.

    Se qualcosa vi è noto del bel mondo, avrete sicuramente sentito parlare delle tre bellissime signorine Herncastle. Miss Adelaide; Miss Caroline; e Miss Julia. Quest’ultima è la più giovane e la più graziosa delle tre, a mio avviso; e ho avuto molte occasioni per rendermene conto, come vedrete tra poco. Ho iniziato a lavorare per il vecchio lord, loro padre (grazie a Dio, non ha nulla a che fare con lui la faccenda del diamante; aveva la lingua più lunga e il temperamento più rabbioso di chiunque altro, ricco o povero, io abbia mai conosciuto); dicevo, ho iniziato a lavorare per il vecchio lord, come paggetto al servizio delle tre onorevoli damigelle, all’età di quindici anni. Lì ho vissuto finché Miss Julia non andò in moglie al fu Sir John Verinder. Uomo eccellente, che aveva solo bisogno di qualcuno che lo dirigesse; e, detto tra noi, trovò qualcuno adatto al compito; e per di più, prosperò all’ombra di questa persona, ci si ingrassò, e visse felice e morì comodo, a partire dal giorno in cui la mia signora lo portò all’altare, fino al giorno in cui lei raccolse il suo ultimo respiro, ed egli chiuse gli occhi per sempre.

    Ho dimenticato di dire che io mi trasferii con la sposa a casa del marito, nelle sue terre. «Sir John», disse, «non posso fare a meno di Gabriel Betteredge».

    «Mia signora», disse Sir John, «nemmeno io posso privarmene». Era questo il suo modo di fare con lei, e fu così che io entrai al suo servizio. Per me, ovunque andassi, era lo stesso, a patto che la mia padrona e io fossimo insieme.

    Notando che la mia signora aveva sviluppato un interesse per i lavori all’aperto, per le fattorie, e compagnia bella, anch’io me ne interessai, con in più il valido motivo di essere il settimo figlio di un piccolo fattore. La mia signora mi fece mettere sotto il balivo, e io feci del mio meglio, detti soddisfazione e venni promosso per il mio impegno. Qualche anno dopo, un lunedì da quel che ricordo, la mia padrona disse: «Sir John, il balivo è un vecchio stupido. Mettilo in pensione e dai il suo posto a Gabriel Betteredge». Si sente fin troppo spesso parlare di sposi che vivono insieme un’esistenza infelice. Questo è un esempio del contrario. Che sia di monito ad alcuni di voi, e di incoraggiamento per gli altri. Nel frattempo, proseguirò con la mia storia.

    Ebbene, come si suol dire, avevo fatto centro. Messo in una posizione di fiducia e onore, con un piccolo cottage tutto mio in cui vivere, con i giri nella mia proprietà a occuparmi le mattine, e la contabilità nel pomeriggio, e la pipa e il mio Robinson Crusoe di sera, che altro potevo desiderare per essere felice? Ricordate cosa voleva Adamo quando si ritrovò da solo nel Giardino dell’Eden; e se non biasimate Adamo per quel desiderio, non dovrete biasimare nemmeno me.

    La donna su cui misi gli occhi era colei che si occupava del mio cottage. Si chiamava Selina Goby. Sono d’accordo con il fu William Cobbett sul prendere moglie. Badate a come mastica il cibo, e a come poggia saldamente il piede a terra quando cammina, e sarete a posto. Selina Goby era perfetta in entrambe le circostanze, il che costituiva un buon motivo per sposarla. Avevo un altro motivo, comunque, che era in tutto e per tutto una mia scoperta. Selina, che era una donna nubile, mi obbligava a pagarle un tanto per il suo mantenimento e i suoi servigi. Selina, una volta divenuta mia moglie, avrebbe smesso di farmi pagare per il suo mantenimento e mi avrebbe concesso i suoi servigi gratis. Era questo il punto di vista che avevo adottato. Economia, con un pizzico d’amore. Parlai della questione alla mia signora, dato che a lei ero legato dal dovere, proprio come ne avevo parlato a me stesso.

    «Ho rimuginato parecchio su Selina Goby», dissi, «e ho pensato, mia signora, che sarebbe più conveniente per me sposarla che mantenerla». La mia signora scoppiò a ridere, e disse che non sapeva se essere più scioccata per il mio linguaggio o per i miei principi. Suppongo fosse stata solleticata da un doppio senso impossibile da afferrare a meno di non essere una persona di notevole levatura. Non avendo compreso nulla io stesso, salvo che ero libero di parlarne con Selina, mi comportai di conseguenza. E cosa rispose Selina? Signore! Quanto poco dovete conoscere le donne, se ve lo domandate. Com’è ovvio disse di sì.

    Con l’approssimarsi del matrimonio, si cominciò a dire che avrei dovuto farmi un vestito nuovo e il mio intelletto iniziò a portarmi fuori strada. Ho paragonato alle mie le impressioni di altri uomini che si trovavano nella stessa situazione; e tutti hanno ammesso che, circa una settimana prima dell’evento, provavano un forte desiderio di tirarsene fuori. Io mi spinsi un filo oltre questo; balzai su, per così dire, e cercai di tirarmene fuori davvero. Insomma! Ero un uomo troppo giusto per aspettarmi che lei mi lasciasse libero per nulla. Il risarcimento alla donna quando l’uomo se ne tira fuori è una delle leggi d’Inghilterra. In obbedienza alla legge, e dopo averci rimuginato parecchio su, offrii a Selina Goby un letto di piuma e cinquanta scellini per sciogliere il fidanzamento. Stenterete a crederci, eppure è vero, fu tanto sventata da rifiutare.

    Dopodiché, io fui un uomo perduto, naturalmente. Comprai il vestito nuovo più a buon mercato che ci fosse, e portai a termine tutto il resto spendendo il meno possibile. Non fummo una coppia felice, né una coppia infelice. Eravamo due metà diverse e incompatibili. Non so come fosse, ma sembrava, pur spinti dal migliore dei motivi, che ci mettessimo sempre uno di traverso all’altra. Quando io volevo andare su, ecco mia moglie che scendeva; oppure quando mia moglie voleva scendere, ecco che io volevo andare su. Così è la vita matrimoniale, secondo la mia esperienza.

    Dopo cinque anni di incomprensioni su e giù per le scale, piacque all’onnisciente Provvidenza di sollevarci entrambi da quel fardello e di riprendersi mia moglie. Rimasi con la mia bambina, Penelope, e senza altri figli. Subito dopo la morte di Sir John, la mia signora rimase con la sua figlioletta, Miss Rachel, e senz’altri figli. Sono stato davvero un ben misero trascrittore della mia signora, se c’è bisogno ch’io vi dica che la mia piccola Penelope fu allevata, sotto lo sguardo della mia buona signora, e mandata a scuola e istruita e diventò una ragazza in gamba, e fu promossa, quando raggiunse l’età giusta, ai servigi di cameriera personale di Miss Rachel.

    Quanto a me, proseguii con il mio lavoro di balivo un anno dopo l’altro fino al Natale del 1847, quando nella mia vita subentrò un cambiamento. Quel giorno, la mia signora si autoinvitò a prendere una tazza di tè da sola con me nel mio cottage. Disse che erano passati più di cinquant’anni da che ero stato preso come paggetto agli ordini del vecchio lord, e mi mise in mano un bellissimo farsetto di lana che aveva fatto con le sue mani, per tenermi al caldo durante il freddo pungente dell’inverno.

    Ricevetti quel magnifico dono quasi senza parole con cui ringraziare la mia signora per l’onore che mi aveva concesso. Con mio grande stupore, venne fuori tuttavia che il farsetto non era un onore bensì un ricatto. La mia signora aveva scoperto che stavo invecchiando ben prima che lo scoprissi io, ed era venuta nel mio cottage per indurmi con le moine (se mi è permesso usare una simile espressione) a lasciare il mio duro lavoro all’aperto come balivo, e a mettermi a riposo per il resto dei miei giorni come maggiordomo tra le quattro mura di casa. Mi battei quanto più potei contro il disonore di andare a riposo. Ma la signora conosceva il mio punto debole; lo fece passare come un favore a lei. A quel punto, la discussione finì con me che mi asciugavo gli occhi, come un vecchio sciocco, con il mio nuovo farsetto di lana, dicendo che ci avrei riflettuto.

    Il turbamento nella mia testa, quando volgevo i pensieri alla questione, fu veramente terribile dopo che la mia signora se ne fu andata, e così utilizzai il rimedio che non aveva mai mancato di aiutarmi in caso di dubbio o di emergenza. Fumai la pipa e diedi un’occhiata a Robinson Crusoe. Non erano nemmeno passati cinque minuti di lettura di quel libro straordinario, che m’imbattei in una frase confortante (pagina centocinquantotto), e che recitava così: Oggi ci succede di amare ciò che domani odieremo. Subito vidi con chiarezza quale fosse la mia strada. Oggi l’unica cosa che desideravo era continuare il mio lavoro di balivo; domani, secondo l’autorità di Robinson Crusoe, avrei desiderato esattamente il contrario. Prendetemi domani mentre sono ancora nell’umore di domani, e il gioco è fatto. Con l’animo sollevato, andai a dormire quella sera nel ruolo di balivo di Lady Verinder, e mi svegliai la mattina dopo nel ruolo di maggiordomo di casa di Lady Verinder. Il tutto con grande scioltezza e per merito di Robinson Crusoe!

    Mia figlia Penelope ha appena lanciato un’occhiata sopra le mie spalle per vedere cosa ho scritto finora. Dice che è scritto benissimo e che ogni parola è autentica. Ma ha un’obiezione. Dice che quanto ho scritto fin qui non c’entra assolutamente niente con quello che mi era stato richiesto. Avrei dovuto scrivere la storia del diamante e, invece, ho raccontato la storia della mia vita. Strano, e non riesco proprio a spiegarmelo. Mi domando se i signori che si guadagnano da vivere scrivendo libri si ritrovino mai a inciampare in se stessi mentre si dedicano ai propri soggetti, come me. Se è così, hanno tutta la mia simpatia. Nel frattempo, ecco un’altra falsa partenza, e un ulteriore spreco di ottima carta. Che fare, ora? Niente che io sappia, salvo che – per quanto vi riguarda - avere pazienza, e – per quanto mi riguarda – cominciare daccapo per la terza volta.

    iii

    Ho cercato di risolvere in due modi la questione di come iniziare adeguatamente la storia. Primo, grattandomi la testa, cosa che non ha prodotto alcun risultato. Secondo, consultando mia figlia Penelope, che mi ha portato a un’idea completamente nuova.

    L’opinione di Penelope è che dovrei scrivere quel che successe con regolarità, giorno dopo giorno, a cominciare da quello in cui ricevemmo la notizia che Mr Franklin Blake avrebbe fatto visita alla nostra casa. Quando si fissa la memoria su una data in questo modo, è magnifico quel che la memoria stessa riesce a tirare fuori se messa all’angolo. L’unica difficoltà è stabilire le date, in primo luogo. Penelope si è offerta di farlo per me cercando nel suo diario, che le avevano insegnato a tenere ai tempi di scuola, e che continuava a tenere sin da allora. In replica a un miglioramento a questo riguardo, ossia a un’idea che ho avuto io stesso e cioè che dovesse essere lei a raccontare la storia in mia vece, basandosi sul suo diario, Penelope ha ribattuto, con sguardo feroce e volto acceso, che il suo diario è riservato solo a se stessa, e che nessun essere vivente ne conoscerà mai il contenuto tranne lei. Quando le chiedo cosa significa, Penelope dice: «Sciocchezze!», io invece dico: «Fidanzatini».

    Dunque, stando a quanto dice Penelope, vi prego di prendere atto che venni convocato di persona un mercoledì mattina nel salotto della mia signora, il ventiquattro maggio milleottocentoquarantotto.

    «Gabriel», disse la mia signora, «c’è una notizia che ti sorprenderà. Franklin Blake è tornato dall’estero. È andato a stare dal padre a Londra, verrà da noi domani e resterà fino al mese prossimo, per festeggiare il compleanno di Rachel».

    Se avessi avuto un cappello in mano, solo il rispetto mi avrebbe trattenuto dal lanciarlo in aria. Non vedevo Mr Franklin da quando era ragazzo, e viveva con noi in questa casa. Era senza paragone (per come lo ricordo io) il più caro ragazzo che avesse mai fatto girare una trottola o mandato in mille pezzi il vetro di una finestra. Miss Rachel, che era presente, e alla quale indirizzai questa osservazione, osservò, a sua volta, che lei lo ricordava come il più feroce tiranno che mai avesse torturato una bambola, e il più inclemente cocchiere di una ragazzina esausta in tenuta da equitazione che l’Inghilterra potesse produrre. «Ardo d’indignazione, e soffro ancora per la fatica», fu così che Miss Rachel riassunse la situazione, «quando penso a Franklin Blake».

    Nell’apprendere ciò che vi sto raccontando, vi chiederete naturalmente come mai Mr Franklin abbia passato tutti quegli anni, da quando era ragazzo, a quando è diventato uomo, fuori del proprio Paese. La risposta è: perché suo padre ebbe la sventura di essere il più prossimo erede di un ducato ma di non essere in grado di provarlo.

    In poche parole, le cose andarono così: la sorella maggiore della mia signora sposò il celebre Mr Blake, celebre sia per le sue grandi ricchezze che per la sua grande causa in tribunale. Quanti anni abbia seguitato a tormentare i tribunali del suo Paese per spodestare il duca e per mettersi al suo posto, quante borse di avvocati abbia reso colme da scoppiare, e quante persone innocenti abbia assordato a furia di discutere se avesse ragione o torto, supera di gran lunga la capacità di calcolo. La moglie morì, così come due dei suoi tre figli, prima che il tribunale riuscisse a decidere che era ora di mostrargli la porta e di smettere di prendere i suoi soldi. Quando tutto fu finito, e il duca in carica rimase in carica, Mr Blake scoprì che l’unico modo di vendicarsi del suo Paese, per il modo in cui lo aveva trattato, era togliergli l’onore di educare suo figlio. «Come posso fidarmi delle istituzioni della mia patria», era così che la metteva lui, «se le istituzioni della mia patria si sono comportate in quel modo con me?». Aggiungete a questo che Mr Blake detestava tutti i ragazzi, compreso il suo, e capirete che poteva finire solo in un modo. Il signor Franklin fu tolto a noi che vivevamo in Inghilterra, e affidato a istituzioni di cui il padre potesse fidarsi, in quel Paese superiore che è la Germania; voi osserverete che lo stesso Mr Blake se ne era rimasto tranquillo in Inghilterra, per migliorare i suoi compatrioti del Parlamento, e per pubblicare una memoria riguardo al duca in carica, rimasta incompiuta fino a oggi.

    Ecco! Grazie a Dio, questa l’ho detta! Né voi né io dovremo più lambiccarci il cervello sul vecchio Mr Blake. Lasciamolo al suo ducato, e dedichiamoci al diamante.

    Il diamante ci riporta a Mr Franklin, l’innocente grazie al quale lo sciagurato gioiello giunse a casa nostra.

    Il nostro caro ragazzo non si dimenticò di noi dopo essere stato all’estero. Ogni tanto scriveva; talvolta alla mia signora, talvolta a Miss Rachel, e qualche volta a me. Avevamo stretto un accordo, prima che partisse, che consisteva nel prendere a prestito da me un gomitolo di spago, un coltello a quattro lame e sette soldi e sei centesimi in denaro, la faccia dei quali non ho più visto e non credo rivedrò mai. Le sue lettere a me trattavano principalmente del fatto di voler prendere in prestito di più. Venni a sapere, comunque, dalla mia signora, come se la cavava all’estero, via via che cresceva in età e in statura. Dopo aver imparato tutto quello che le istituzioni tedesche potevano insegnargli, fu il turno della Francia, e poi la volta dell’Italia. Tra gli uni e gli altri ne venne fuori una specie di genio cosmopolita, da quel che potei capire. Scribacchiava, pitturicchiava; canticchiava, suonicchiava e s’arrangiava a comporre, prendendo in prestito da altri qualcosa – è il mio sospetto, in tutti questi casi – come aveva preso in prestito da me. L’eredità della madre (settecento sterline l’anno) entrò in suo possesso quando fu maggiorenne, e gli passò tra le mani come acqua in un setaccio. Più soldi aveva, più ne voleva; le tasche di Mr Franklin avevano un buco che nulla era in grado di ricucire. Ovunque andasse, le sue maniere vivaci e disinvolte lo rendevano bene accetto. Viveva qui, lì, dappertutto; il suo indirizzo (come diceva lui) era Ufficio Postale, Europa – da trattenere finché non ritirato. Per due volte aveva deciso di tornare in Inghilterra a trovarci; e per due volte (con rispetto parlando), qualche donna innominabile si era messa di mezzo e glielo aveva impedito. Il suo terzo tentativo ebbe successo, come già sapete da quel che la mia signora mi ha raccontato. Giovedì venticinque maggio avremmo visto per la prima volta che uomo era diventato il nostro caro ragazzo. Era di buona famiglia; aveva un gran coraggio; e da quel che ricordavamo, aveva venticinque anni. Ora sapete tutto ciò che sapevo anch’io su Mr Franklin Blake, prima che quest’ultimo giungesse a casa nostra.

    Il giovedì era una giornata estiva tra le più belle mai viste; e la mia signora e Miss Rachel (dato che Mr Franklin non era atteso che a cena) andarono a pranzo con alcuni amici nel vicinato.

    Quando uscirono, andai a dare un’occhiata alla stanza da letto che era stata approntata per il nostro ospite, e vidi che tutto era a posto. Poi, essendo io capocameriere nella proprietà della mia signora, oltre che maggiordomo – (per mia esigenza particolare, badate bene, e perché mi irritava vedere che qualcun altro fosse in possesso della chiave della cantina del fu Sir John) – poi, dicevo, portai su qualche bottiglia del nostro chiaretto Latour, e lo esposi all’aria calda per alzarne la temperatura prima di cena. Decisi quindi di godermi un po’ anch’io l’aria calda – dato che quel che giova a un vecchio chiaretto, giova anche alla vecchiaia di un uomo – e presi la mia poltrona a tettuccio, quando un suono simile a un ovattato rullo di tamburi sulla terrazza dinanzi alla residenza della mia signora mi trattenne.

    Avviandomi verso di essa, trovai tre indiani dalla carnagione color mogano, in tuniche e pantaloni di lino bianco, con lo sguardo rivolto in alto, sulla casa.

    Gli indiani, a un’osservazione più ravvicinata, avevano un piccolo tamburo a mano appeso davanti. Dietro di loro un ragazzino inglese, biondo e dall’aspetto delicato, portava una borsa. Immaginai che i tre fossero prestigiatori e che il ragazzino con la borsa portasse gli strumenti necessari ai loro numeri. Uno dei tre, quello che parlava inglese e che ostentava, devo ammetterlo, modi raffinatissimi, mi chiarì subito che la mia supposizione era giusta. Chiese il permesso di esibire la sua arte alla presenza della mia signora.

    Io non sono un vecchio burbero. In genere mi piace molto divertirmi, e non è certo una sfumatura di pelle più scura della mia a farmi diffidare del prossimo. Ma anche i migliori tra noi hanno le proprie debolezze – e il mio punto debole, quando so che un cofanetto con l’argenteria di famiglia è rimasto sul tavolo della dispensa – è quello di ricordarmi immediatamente di quel cofanetto vedendo un viandante straniero i cui modi sono più eleganti dei miei. Quindi informai che la padrona di casa non c’era, e li invitai – lui e i suoi compagni – ad allontanarsi dalla proprietà. Lui replicò all’invito con un meraviglioso inchino; e tutto il gruppo se ne andò. Da parte mia, tornai alla sedia di vimini, mi sedetti nella parte assolata del cortile, e caddi (a onor del vero), non proprio in un sonno profondo, ma in qualcosa che gli somigliava molto.

    Fui destato da mia figlia Penelope che correva verso di me come se la casa fosse in fiamme. Cosa credete che volesse? Voleva che facessi arrestare subito i tre prestigiatori indiani; il motivo era, precisamente, che loro sapevano bene chi stava arrivando da Londra a farci visita, e volevano fare del male a Mr Franklin Blake.

    Il nome di Mr Franklin mi svegliò del tutto. Aprii gli occhi e chiesi a mia figlia di spiegarsi.

    Pare che Penelope fosse appena tornata dalla casa del custode, dove stava chiacchierando con la figlia. Le due ragazze avevano visto passare gli indiani seguiti dal ragazzino dopo che io li avevo invitati ad andarsene. Convinte che il ragazzo venisse maltrattato dagli stranieri – non riuscii a capire il motivo di questa convinzione, salvo che era grazioso e dall’aspetto delicato –, le due ragazze erano scivolate lungo la parte interna della siepe che divideva la proprietà dalla strada, e avevano sorvegliato ciò che facevano i tre stranieri sul lato esterno.

    E ciò che essi fecero fu eseguire i seguenti, straordinari numeri di prestigio.

    Prima di tutto guardarono la strada, a destra e a sinistra, e si accertarono di essere soli. Poi tutti e tre si voltarono e fissarono intensamente la nostra casa. Infine borbottarono e discussero nella loro lingua, e si guardarono l’un l’altro con espressione dubbiosa. Dopodiché si girarono tutti verso il ragazzino inglese, come se si aspettassero che fosse lui ad aiutarli. E a quel punto il capo degli indiani, che parlava inglese, disse: «Porgi la mano».

    Sentendo quelle parole spaventose, mia figlia Penelope disse di non sapere cosa aveva trattenuto il suo cuore dal balzarle fuori dal petto. Dentro di me pensai che potessero essere state le stecche del busto. Ma mi limitai comunque a dire: «Mi fai venire i brividi» (Nota bene: alle donne piacciono questi piccoli complimenti).

    Ebbene, quando l’indiano disse, «Porgi la mano», il ragazzo si ritrasse, e scosse la testa, e rispose che la cosa non gli piaceva. L’indiano, a quella risposta, gli chiese (tutt’altro che scortesemente) se avrebbe preferito essere rimandato a Londra, e lasciato dove lo avevano trovato, a dormire in una cesta vuota al mercato, affamato, cencioso e abbandonato. Questo, a quanto pare, mise fine alle obiezioni. Il marmocchio tese la mano controvoglia. L’indiano tirò fuori una bottiglia dal petto, e versò un po’ di liquido nero, simile a inchiostro, sul palmo della mano del ragazzo. Prima toccò la testa del ragazzo, poi fece qualche segno in aria, dopodiché disse: «Guarda». Il ragazzo si irrigidì e rimase immobile come una statua, a guardare l’inchiostro nel palmo della sua mano. Fino ad allora, tutto mi era sembrato nient’altro che un numero da prestigiatori, accompagnato da uno sciocco spreco di inchiostro. Stavo ricominciando a sentirmi insonnolito, quando le successive parole di Penelope mi scossero dal torpore.

    Gli indiani guardarono la strada ancora una volta, a destra e a sinistra, e poi il loro capo disse al ragazzo quanto segue: «Vedi il gentiluomo inglese proveniente dall’estero?».

    Il ragazzo rispose: «Lo vedo».

    L’indiano disse: «È la strada che porta a questa casa, e nessun’altra, che il gentiluomo inglese percorrerà, oggi?».

    Il ragazzo rispose: «È la strada che porta a questa casa, e nessun’altra, che il gentiluomo inglese percorrerà, oggi».

    L’indiano pose una seconda domanda, dopo aver aspettato un istante. Disse: «Il gentiluomo inglese porta con sé Quella Cosa?».

    Il ragazzo rispose, anch’egli dopo aver aspettato un istante: «Sì».

    L’indiano pose una terza e ultima domanda: «Il gentiluomo inglese giungerà qui, come ha promesso, al calar della sera?».

    Il ragazzo rispose: «Non saprei dirlo».

    L’indiano chiese perché.

    Il ragazzo disse: «Sono stanco. La nebbia mi sale alla testa e mi confonde. Non riesco a vedere più nulla, oggi».

    E con questo, il catechismo ebbe termine. Il capo degli indiani disse qualcosa nella sua lingua agli altri due, indicando il ragazzo e puntando il dito verso la città, in cui (come scoprimmo in seguito) erano alloggiati. Dopodiché, disegnando altre forme sopra la testa del ragazzo, gli soffiò sulla fronte, e lo risvegliò con uno scossone. In seguito proseguirono per la loro strada, diretti in città, e le ragazze li persero di vista.

    Si dice che nella maggior parte delle cose si nasconda una morale, se solo la si cerca. Qual era la morale di questo avvenimento?

    La morale era, come pensai: primo, che il capo dei prestigiatori aveva sentito parlare dell’arrivo di Mr Franklin dai servitori fuori della villa, e aveva intravisto il modo di ricavarci qualche soldo; secondo, che lui, i suoi uomini e il ragazzo (allo scopo di ricavarci i suddetti soldi) avevano in mente di restare nei paraggi finché non avessero visto la mia signora tornare a casa, e poi saltar fuori e magicamente predire l’arrivo di Mr Franklin; terzo, che Penelope li avesse visti provare i loro trucchi, come fanno gli attori quando provano uno spettacolo; quarto, che io avrei fatto bene, quella sera, a tenere d’occhio l’argenteria; quinto, che Penelope avrebbe fatto bene a calmarsi, e a lasciar schiacciare un altro pisolino sotto il sole a suo padre.

    Questo mi parve il punto di vista più ragionevole. Se conoscete minimamente le giovani donne, non sarete sorpresi di apprendere che Penelope non ne volle sapere. La morale della storia era seria, secondo mia figlia. In particolare mi ricordò la terza domanda posta dall’indiano: Il gentiluomo inglese porta con sé Quella Cosa?.

    «Oh, padre!», esclamò Penelope, torcendosi le mani. «Non celiarmi! A cosa si riferiscono con Quella Cosa

    «Ebbene, lo chiederò a Mr Franklin, mia cara», dissi, «se riuscirai ad aspettare che arrivi». Le strizzai l’occhio per farle intendere che era una burla. Penelope la prese molto seriamente, invece. La serietà di mia figlia mi divertì. «Cosa diamine può saperne Mr Franklin?», domandai. «Chiediglielo», disse Penelope, «e vedremo se anche lui la riterrà una roba da ridere». E con questa sparata finale, mia figlia mi lasciò.

    Decisi tra me, quando lei se ne fu andata, che avrei davvero posto quella domanda a Mr Franklin, più che altro per dar pace a Penelope. Quanto ci dicemmo, quando in effetti glielo chiesi, lo troverete trascritto nei dettagli qui di seguito. Ma dato che non voglio suscitare aspettative e poi deluderle, mi permetto di rendervi noto – prima di proseguire oltre – che non ravviserete nemmeno l’ombra di uno scherzo nella nostra conversazione sui prestigiatori. Con mio grande stupore, Mr Franklin, come Penelope, prese la faccenda sul serio. E capirete subito quanto sul serio

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