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Il clochard
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E-book304 pagine4 ore

Il clochard

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Info su questo ebook

Alfredo è uno scrittore in piena crisi creativa. Durante una vacanza al mare, incontra Antonio, un clochard che dorme nella pineta vicino alla spiaggia. Qualcosa lo spinge ad avvicinarsi a lui, e da quel momento tra i due si sviluppa una profonda intesa. I due si incontrano ogni mattina al parco e, per aiutare Alfredo con il suo libro, Antonio decide di raccontare la sua vita, aprendosi un po’ alla volta. Alfredo viene così a conoscenza del suo passato, del fallimento che l’ha portato in strada, dell’allontanamento da una famiglia già distante, della continua corsa a ostacoli che è la vita quotidiana dei senzatetto. La storia di un’amicizia toccante, che cambierà la vita di entrambi.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2023
ISBN9788892967250
Il clochard

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    Anteprima del libro

    Il clochard - Alvaro Collini

    SÀTURA

    frontespizio

    Alvaro Collini

    Il clochard

    ISBN 978-88-9296-725-0

    © 2021 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ad Antonio

    ANTONIO

    I

    È da poco passata la mezzanotte e mi trovo nella sala d’attesa di una stazione. Fuori piove e fa anche freddo e tutto può sembrare normale, visto che siamo a metà novembre. Non sono appena arrivato, né aspetto la coincidenza con un treno che mi porti a una certa destinazione. Sto semplicemente cercando riparo per passare la notte. Poi, domani mattina, prenderò un altro treno, ancora non so quale.

    È la prima notte che mi trovo fuori casa senza una meta precisa. Ho lasciato un biglietto sul tavolo con scritto: Per favore, non cercatemi, ho bisogno di stare da solo. Il mio aspetto non allarma e ancora ho un abbigliamento presentabile. La barba, l’ho fatta questa mattina, e solo la faccia appare segnata dalla stanchezza di uno che ha riposato poco. Per questo agli occhi degli altri credo di apparire un viaggiatore qualunque, che magari ha perso una coincidenza e aspetta la prossima, la quale arriverà solo verso il mattino.

    L’unica cosa che porto con me è uno zaino in cui ho messo uno spazzolino da denti, un dentifricio, una saponetta, due maglioni, alcune magliette, un berretto di lana, la carta d’identità, la tessera sanitaria e quel po’ di soldi che avevo infilato in una busta nascosta in casa per ben altro motivo.

    Ancora sono convinto di questa mia scelta e non vedo motivo di tornare sui miei passi. Mi sembra una decisione matura, anche se contestabile, se ci si basa sulle tante false morali e i perbenismi solo di facciata.

    Non mi chiedo se provocherò dolore a mia moglie e a mia figlia o se si siano messe già alla ricerca dei parenti, degli amici, se si siano recate al pronto soccorso o alla stazione locale dei carabinieri. A quest’ultima ipotesi, non voglio pensare. Renderebbe la cosa ufficiale e innescherebbe tutto il malcostume del pettegolezzo, che servirebbe solo a denigrarmi.

    La mia decisione non è un colpo di testa arrivato all’improvviso, è la conseguenza dell’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non è la reazione a una disgrazia cadutami addosso e che mi ha trovato impreparato e lasciato in preda a una presunta fragilità, ma è solo la conseguenza logica a una situazione che negli anni si è aggravata sempre di più. Gli ultimi eventi mi hanno spinto a perdere ogni fiducia in tutto il sistema, e anche in me stesso.

    Penso che ci voglia pure una buona dose di coraggio per fare certe scelte, coinvolgere gli affetti, o presunti tali, mettersi a vagabondare senza una meta precisa, senza un tetto, senza la certezza di un pasto, e affrontare tutte le difficoltà che ora posso solo immaginare dagli esempi che la cronaca mi ha sovente messo davanti agli occhi.

    Vivere senza una sola certezza, una prospettiva, un riparo, forse a contatto con dei delinquenti incalliti, persone che non hanno scrupoli a fare tutto il necessario per prendersi un paio di scarpe messe appena meglio delle loro, o un piumino che all’apparenza sembra regalare un calore più rassicurante.

    Ci vuole anche coraggio a scegliere un futuro di sole incertezze, senza un riferimento, un punto fermo cui indirizzarsi, un orizzonte cui guardare e lasciarsi tutto alle spalle. Ho fatto questa scelta perché sono profondamente deluso, arrabbiato con tutto il sistema, dalla politica, alle istituzioni, alle promesse, alle falsità, alle tante braccia che si allargano, non per stringerti ma per dare un senso alle parole che si faticano a dire: «Mi dispiace, però non posso fare niente».

    Non credo a quel «mi dispiace», è solo una formula per sentirsi meno a disagio, non è assolutamente vero. È un’espressione per liberarsi e chiudere in definitiva la conversazione. Poi, mentre uno ritorna al suo posto o magari esce un attimo dall’ufficio per andare al bar a fare colazione, l’altro si incupisce nei suoi pensieri e deve incassare un’altra sconfitta senza trovare una soluzione ai suoi problemi.

    In casa magari si hanno difficoltà a parlare di questo pesante quadro, per non mettere in ansia i familiari. Allora una moglie attenta e sensibile dovrebbe capire che qualcosa non va e con delicatezza avvicinarsi all’argomento, senza essere invadente o troppo insistente, solo per capire se forse è stata troppo egoista.

    Deve avere la disponibilità di aprire la porta finora rimasta chiusa e poi ascoltare, sì, ascoltare, perché in questi momenti uno ha bisogno di liberare i pensieri, dando loro una voce e lasciando che la cadenza delle parole sottolinei la rabbia, la delusione, la sconfitta. Guai a interrompere lo sfogo con delle morali spesso improvvisate, premature, da giudice che sta per pronunciare una condanna: «Te l’avevo detto». Meglio nessun commento, meglio il silenzio, piuttosto, esprimere la vicinanza con una carezza, stringere le mani, intrecciare le dita, uno sguardo di comprensione, un abbraccio e magari: «Abbiamo avuto momenti belli e momenti brutti, ma li abbiamo sempre superati insieme».

    No, ci vuole coraggio anche a fare questa scelta e, conoscendo la mia determinazione, cocciutaggine per alcuni, non credo al momento di poter riflettere e tornare indietro. Sarebbe un’altra sconfitta.

    È un fatto di coerenza, di scelte e ho valutato benissimo tutte le difficoltà contro cui dovrò sbattere ogni giorno: il freddo, il caldo, la pioggia, la neve, dove dormire, dove girovagare, dove trovare un pasto, una doccia possibilmente calda, cambiare indumenti, lavarmi, sedermi su una panchina e subito avere il vuoto intorno, essere oggetto di scherno o bullismo, essere indicato come il colpevole dei fatti di cronaca, guardare mentre le mamme allontanano da me i bambini perché posso essere pericoloso o perché puzzo, umiliarmi nell’aspetto al punto da rendere impossibile capire la mia età, non avere un soldo in tasca, ridurmi a chiedere l’elemosina per racimolare qualche spicciolo e prendere un panino, cercare un cartone per ripararmi la notte, e spero di non dover mai rovistare in un bidone dell’immondizia per cercare l’ultima possibilità di sopravvivenza.

    So che questo sarà il mio futuro, forse già il mio presente, ma alle spalle non ho niente da lasciare. Per la testa mi passano solo pensieri mischiati a una smisurata confusione che non riesco a seguire. Un po’ come essere davanti a un tavolo pieno di fogli e all’improvviso il vento li fa volare via. Provo a fermarne qualcuno però gli altri si perdono, poi sto per afferrarne uno che sembra importante e mi scappano quelli che tengo stretti al petto.

    Mi viene in mente come mi sono sempre comportato io alla vista di un barbone, seduto per terra sotto i portici del centro, che chiedeva l’elemosina, magari con un cagnolino accanto o un cartello lapidario davanti: Ho fame.

    A volte sono passato di fretta, a volte ho pensato che scene del genere in uno Stato civile non dovrebbero esistere, perché è compito delle istituzioni anticipare questi disagi, questa distruzione degli esseri umani, e non lasciarli soli o all’attenzione del volontariato.

    Quest’ultimo, a cui riconosco molti meriti, può essere un aiuto verso un sistema organizzativo efficiente, ma in primis dev’essere lo Stato a intervenire, o meglio a evitare l’estremo degrado della persona. Spesso, nonostante tutto quello che ho appena detto, ho lasciato anche l’elemosina. Al momento per quella persona poteva significare la sopravvivenza.

    Non ho mai detto loro niente. Sarebbe stato un po’ come sgridare una persona sul punto di annegare per la sua leggerezza nel valutare il pericolo. Prima si porta in salvo, poi si tranquillizza e alla fine c’è tutto il tempo per i consigli, le prediche e le morali.

    Ora io mi trovo dalla loro parte e presto gli abiti che indosso saranno sudici, la barba trascurata, i capelli pure, le scarpe logore, le mani rovinate e anche nere intorno alle unghie, il viso marcato dal freddo ora che ci avviciniamo all’inverno, poi dal caldo.

    Il mio lento girovagare senza una meta precisa mi farà apparire completamente come uno di loro e anch’io sarò un barbone, un vagabondo, un senzatetto, una persona che vive per strada, un accattone, un mendicante, uno straccione, un homeless, un pezzente, un emarginato, un miserabile, un indigente, un clochard. Quest’ultima espressione, «clochard», mi sembra già meno dispregiativa, anzi mi arriva alle orecchie più dolce e ho la sensazione che significhi «artista», non so perché.

    Magari mi cacceranno via dalla stazione, perché rappresento una brutta immagine per i viaggiatori; dal centro della città, perché disturbo; da davanti ai ristoranti, perché non sta bene per la gente che arriva a cena; dai parchi, perché la notte non si può entrare e tantomeno sostare. E allora dovrò cercare posti sempre meno frequentati, in disparte, al riparo di un ponte, di un vecchio fabbricato abbandonato. Sul sagrato di qualche chiesa forse potrò trovare un po’ più di misericordia e di comprensione, ma non vorrei rimanere di nuovo deluso.

    Avrò modo e tutto il tempo di sperimentare questi rifugi o ripari per un breve spazio e poi ripartire. Magari incontrerò qualcuno che per la sua maggior esperienza mi elargirà consigli, oppure che, per difendere il suo posto, mi darà suggerimenti sbagliati, fingendosi solidale per carpire qualche mio segreto e fregarmi. La stanchezza sarà un efficace sonnifero a discapito della scomodità di una panchina, di un posto per terra, di un riparo sotto una tettoia sgangherata.

    Alla rapidità con cui si muovono tutti questi frammenti di pensieri, mischiati a quelli sui miei ultimi giorni di vita normale (che poi, tanto normale, non lo era più) si sovrappone l’immagine precisa, e tuttavia confusa, del mio stordimento dopo la dichiarazione di fallimento in un’aula del Tribunale.

    II

    Sto scendendo gli scalini del Tribunale e accanto mi passa gente che entra e che esce, alcuni di fretta, altri con calma, tenendo in mano una borsa o semplicemente una cartella. Tutti mi appaiono immersi nella più completa indifferenza e mi sembra di assistere a un video a velocità accelerata di gente che riempie una piazza, come a volte si vede nelle comiche dei film in bianco e nero. Io ho due persone vicino che mi hanno accompagnato, penso il commercialista e l’avvocato, ma non ne sono proprio sicuro.

    Appena qualche istante fa, il tribunale, per bocca di un giudice (penso) ha pronunciato la sentenza di fallimento della mia azienda. Come mi sento? In un completo stato confusionale in cui la logica non esiste. La testa non mi aiuta a trovare un percorso cui indirizzarmi. Non ricordo dove ho parcheggiato la macchina o se ero in compagnia di altri oppure se sono arrivato in treno.

    Mi è sempre piaciuto viaggiare in treno, è un momento di riposo mentale, in cui fantasticare fissando il finestrino con il paesaggio che, a seconda di come sono seduto, a volte mi corre frettolosamente incontro, altre rimane alle mie spalle.

    La mia azienda è fallita. Di sicuro questa è la definizione giusta, ma penso sia più opportuno dire che io sono fallito. Il commento della gente non è: «La sua azienda è fallita», bensì, con voce chiara e in tono rimarchevole e denigratorio: «Lui è fallito».

    Basta aggiungere davanti un semplicissimo articolo «un» per farlo suonare ancora più dispregiativo. «Lui è un fallito.» Questa definizione è a trecentosessanta gradi e non riguarda una questione finanziaria con delle attenuanti e delle responsabilità precise, ma tutta la persona.

    È pesante accettare questo marchio: Io sono un fallito. Un poco di buono, uno che non ha concluso nulla, non ha credito come persona, come essere umano, che non merita rispetto né considerazione. Magari qualcuno con cattiveria insinuerà che io sia un fallito, però con i soldi in tasca per ricominciare e andare avanti. Insomma, quello che oggi viene considerato un furbo.

    Mi viene spontaneo mettere la mano in tasca e aprire il portafoglio. Ho quarantasette euro e cinquanta centesimi e forse in casa, nel mio cassetto, una busta con mille euro. Nessuna delle due persone che mi camminano accanto si fa scappare una parola, tanto che il dubbio che non siano davvero con me è forte.

    All’improvviso dico: «Non mi ricordo dove ho lasciato la macchina».

    «Sei in macchina con me.» Uno guarda l’altro e scrolla la testa.

    Per tutto il viaggio di ritorno la conversazione è a singhiozzo, intervallata da lunghi silenzi, e le poche parole sono inviti a non abbattermi, ché ho fatto tutto il possibile pur di salvare l’azienda, e troverò presto una soluzione come dipendente nel settore per la mia esperienza. Forse le parole erano altre, forse non c’era nessun dialogo, ma solo la speranza imbarazzata di arrivare quanto prima a destinazione, per essere sollevati dal disagio.

    Ancora non è mezzogiorno e in casa non trovo nessuno. Mia moglie è al lavoro e rientra nel tardo pomeriggio, mia figlia ha lezione all’università e tornerà molto tardi, o addirittura la sera per cena. Già si conosceva questa conclusione, perché da mesi l’azienda era chiusa, e l’unica pratica in corso era quella del fallimento, con la cassetta delle lettere piena di avvisi di raccomandate da ritirare da parte dei creditori e le tre banche con cui operavo.

    Mi siedo sul divano e fatico a rendermene conto, ora che la dichiarazione di fallimento è stata scritta. Penso agli anni in cui ho iniziato a lavorare e poi la scelta e la convinzione di mettere in piedi la mia azienda. Ci ho sempre creduto e questi vent’anni rappresentano la sua storia.

    Mi alzo come se il divano fosse diventato improvvisamente scomodo e prendo dal rubinetto un bicchiere d’acqua, poi metto la giacca nell’appendino, mi sfilo la cravatta e mi rimbocco le maniche della camicia.

    Penso ai miei dipendenti, alle loro famiglie, che comunque ho cercato di proteggere e difendere fino all’ultimo. Avevo addirittura proposto loro di creare una cooperativa e continuare l’attività. Forse avrebbero avuto maggiori agevolazioni da parte dei creditori, ma è mancato il coraggio, o forse la situazione li ha fatti desistere.

    Penso a mio nonno, il quale mi raccontava spesso che ai suoi tempi, quando un titolare di azienda si trovava in difficoltà e non riusciva a far fronte agli impegni, per la vergogna e il disonore preferiva una corda al collo per mettere la parola «fine».

    Mio padre mi ha sempre insegnato a vigilare attentamente e a fare il passo secondo la lunghezza della gamba, per non trovarmi in difficoltà, oltre che ad avere sempre una riserva di accantonamento per i momenti più difficili. E che, se proprio si percepisce un quadro negativo, senza una via di uscita, è meglio chiudere subito, quando il debito si può controllare e ripagare con tutti i risparmi, o vendendo anche la casa, pur di salvare l’onore.

    Io sono un fallito. Di una cosa sono certo. Non ho mai fatto il passo più lungo della gamba. Per scelta mia, come principio generale di vita, ho sempre seguito la via della correttezza. I dipendenti hanno sempre percepito la busta paga, leggermente superiore alle tariffe sindacali, i contributi sono sempre stati versati con regolarità, le ore di straordinario retribuite in busta paga, nonostante alcuni inviti in senso contrario solo per disporre di un «tesoretto», così lo chiamava qualche dipendente, da gestire all’oscuro delle famiglie.

    Prima di assumere qualcuno, mi sono sempre preoccupato che avesse il libretto di lavoro in regola e a tutte le commissioni è sempre seguita una fattura. Il commercialista spesso mi faceva notare i costi dell’azienda e il basso margine che restava, ma ho sempre risposto che, se c’era il lavoro, andavamo tutti bene.

    Certo che a mia moglie non sfuggiva occasione per vagheggiare un miglior tenore di vita, una macchina più vistosa dell’utilitaria, di elencare tutte le sue amiche che andavano in crociera, in vacanza nei posti alla moda, per non parlare di serate a cena nei ristoranti stellati.

    «Hai il tuo lavoro che ti dà un buono stipendio e l’hai sempre gestito per conto tuo» le rispondevo.

    Ma questo non le bastava e quasi mi accusava di non essere adatto a fare l’imprenditore.

    «Non hai la mentalità giusta» era la sua risposta a tutto, per troncare ogni discussione che sarebbe logico ci fosse stata all’interno di una famiglia.

    Mia figlia forse nella crescita è stata più influenzata dai suoi discorsi che dai miei principi. Forse non sono stato un buon marito e nemmeno un buon padre. Anzi, senza «forse».

    Poi nel lavoro è arrivata un po’ di crisi, ma non l’ho mai fatta pesare sui miei impegni di pagamento. Però c’erano i primi segnali dell’effetto di questa difficoltà sull’andamento dell’azienda. A far precipitare le cose, due commesse di forte consistenza consegnate al destinatario, e tuttavia mai onorate a causa di due grossi fallimenti, ritenuti impossibili per il buon nome delle aziende sul mercato. I curatori nominati avevano anche proposto un concordato, ma alcuni creditori non hanno accettato e questa è la conseguenza.

    Anche il mio commercialista aveva proposto un concordato ai creditori e, pur se molti avrebbero accettato per il buonsenso secondo cui «meglio poco che nulla», le banche non hanno dimostrato nessuna flessibilità. O forse attendevano in extremis l’intervento a garanzia di mia moglie o di mio suocero, che non è mai arrivato.

    In casa, mia moglie è stata coerente con il suo comportamento pregresso. Mi ha attaccato duramente incolpando la mia debolezza, e soprattutto si è mostrata preoccupata dell’immagine che ne avrebbero ricavato le amiche o il vicinato. Mia figlia non ha saputo aggiungere nulla al monologo della madre, e forse questo mi ha fatto più male.

    Io per mesi ho perso il sonno e ho sempre pensato fino all’ultimo giorno a una soluzione. Speravo di trovare un compratore disposto a salvare il nome. Sono convinto che sia tutto imputabile alla mancanza di liquidità. Una buona iniezione di denaro avrebbe potuto garantire in tempi medi la ripresa dell’azienda.

    In questi casi penso sia importante trovare nel nucleo familiare una forte solidarietà per superare la difficoltà del momento. Non penso ci sia cura migliore. Se quest’attenzione viene a mancare o, come nel mio caso, l’evento diventa soltanto un’opportunità per scagliarsi contro il coniuge e lanciare frecce da ogni parte, ti crolla tutto addosso, si polverizza l’autostima e manca quel minimo di forza che serve per rialzarsi e cercare una direzione in cui rinascere. E l’unica cosa da fare rimane fuggire da tutto.

    III

    Qui in stazione ho passato la mia prima notte. Sono appena le cinque e non sono riuscito a chiudere gli occhi un attimo, ma tutto questo era prevedibile. Sono soltanto all’inizio, però piano piano mi abituerò e potrò imparare come adattarmi a questa nuova vita, se «vita» si può chiamare.

    Il primo treno parte alle cinque e quaranta. È un regionale, tuttavia ho fatto il biglietto per una fermata intermedia. Le grandi città non mi sono mai piaciute e penso che incapperei in più problemi. Forse in una a dimensione d’uomo troverò maggiore comprensione. Poi ci rifletto meglio e mi sembra una grande fesseria.

    Non c’è ressa e ho potuto sfruttare il bagno di servizio per lavarmi bene la faccia e asciugarmi con i rotoli della carta a strappo. Mi sistemo un po’ i capelli, passo la mano sulla barba. Il suo aspetto incolto può ancora passare per voluto. Le poche persone che comincio a incontrare rimangono nella più assoluta indifferenza e questo mi fa pensare di non avere ancora l’aspetto di un barbone.

    All’edicola ci sono già i giornali del mattino e la tentazione di prendere un quotidiano della mia città è forte. Di certo non per leggere delle sagre o delle delibere del sindaco, ma per vedere se a casa mia moglie o mia figlia hanno già denunciato ai carabinieri la mia scomparsa.

    Non so se nei prossimi giorni riuscirò a resistere a questa tentazione, forse solo per vedere se hanno diramato una foto, dove sono indirizzate le ricerche e cos’hanno scritto. Spesso nella cronaca locale, per questi avvenimenti, dicono che hanno fatto ricerche nel fiume che attraversa la città in un punto preciso, dove a volte avvengono simili episodi. Aggiungono qualche informazione raccolta da chi ha visto la persona scomparsa nelle ultime ore e, quasi fosse una regola, che era in cura per una forte depressione o, come nel mio caso, che l’unica certezza è che aveva problemi finanziari. Ma sono proprio sicuro di volerlo sapere? Mi chiedo, nel caso in cui abbiano pubblicato una foto, se hanno scelto la più recente o quella in cui sono venuto meglio, magari di dieci anni fa.

    In treno mi siedo in uno scompartimento da solo e nel sedile accanto lascio il mio zaino, però poi si aggiungono altre due persone all’apparenza della mia età, un uomo e una donna. Lui, non appena si è sistemato, si nasconde dietro il giornale, mentre la signora gira continuamente lo sguardo per evitare l’imbarazzo. Forse vorrebbe avviare una conversazione qualunque solo per ingannare il tempo, mentre io continuo a fissare il paesaggio fuori dal finestrino senza nessuna concentrazione o interesse.

    Chi sono le persone che viaggiano in treno, e poi a queste prime ore del mattino? Magari lo fanno per lavoro, ma dato l’orario non credo proprio. Magari devono partire per un lungo viaggio, oppure per raggiungere un aeroporto. Chissà perché non si pensa mai che qualcuno sia in viaggio solo per scappare da qualcosa e senza una meta da raggiungere.

    Alla mia fermata, sono l’unico ad alzarmi per scendere. Il signore rimane sempre nascosto dietro il giornale mentre la signora prova ad accennare un timido «arrivederci» con un leggerissimo movimento delle labbra.

    Io prendo il mio zaino e mi avvio all’uscita.

    A quest’ora si trova molta più gente in movimento, e ancora una volta, davanti all’edicola, mi viene naturale fermarmi per dare un’occhiata alle locandine dei quotidiani. Più o meno i titoli delle notizie sono gli stessi che a casa mia.

    Quando per esigenze di lavoro dovevo prendere il treno, la prima cosa, arrivato a destinazione, era sempre salire su un taxi o consultare i numeri degli autobus per raggiungere la mia destinazione. Tuttavia oggi nessuna delle due scelte è possibile, non ho una meta, e allora semplicemente mi incammino.

    Certo, non mi sono documentato per sapere se c’è una cattedrale da visitare, un museo, una mostra, un palazzo storico. Il mio pensiero è trovare un parco o una zona che appaia tranquilla, dove possa ricavare un riparo.

    Ancora sono digiuno e mi andrebbe qualcosa di caldo e un panino. Mi guardo intorno alla ricerca di un bar molto appartato e magari a buon prezzo, devo badare alle spese. Nel portamonete sono rimasti circa venticinque euro, poi all’interno del piumino, in una tasca, ho una busta con dentro mille euro.

    Faccio molta attenzione a questa tasca e ogni tanto sento con le dita se ancora vi si trova la busta. Era una somma che avevo accantonato da tempo per il compleanno di mia figlia, che coincide con il Natale, e ci tenevo a farle un bel regalo.

    Prima di partire, volevo lasciare la busta sopra la sua scrivania con un biglietto, ma non ho avuto il fegato. Ho pensato che all’inizio del mio viaggio mi sarebbero serviti, non certo per dormire in una pensioncina o frequentare un ristorante, piuttosto per prendere qualcosa in una rosticceria e lo stretto necessario per spostarmi, prima di capire se c’erano altre possibilità di assistenza: la Caritas, una casa di accoglienza, qualche associazione di volontariato per i senzatetto, magari un convento e tutto questo almeno per l’inverno, per stare al riparo

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