Stefania abita al piano di sopra
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Anteprima del libro
Stefania abita al piano di sopra - Alvaro Collini
CAPITOLO UNO
Eravamo ai primi giorni di ottobre. Era davvero incredibile pensare che fino alla settimana precedente si potesse andare in spiaggia durante le ore centrali della giornata, mentre da quel giorno ci trovavamo in casa con il riscaldamento acceso. Era domenica, il cielo era di un azzurro splendido, il sole non era velato neppure da una piccola nuvola, anche se l’aria rimaneva fresca e la temperatura non superava i dieci gradi. Erano sufficienti un giubbotto sopra il maglione e una sciarpa al collo.
Stefania suonò il campanello della porta di casa e mi chiese se avevo voglia di fare una passeggiata in spiaggia. Il mare era ad appena quattordici chilometri e la nostra meta sarebbe stata Pinarella. Lì per la prima volta ho visto il mare, da bambino. Alle spalle della spiaggia, molto ampia, c’è una bellissima pineta che prosegue per tre chilometri. L’acqua del mare aumenta di profondità in modo molto graduale, almeno per una cinquantina di metri. Questo facilita le camminate con le gambe immerse in acqua, con un effetto simile all’idromassaggio. Inoltre rappresenta una sicurezza per i bambini, che possono giocare o fare il bagno tranquillamente.
Non ho avuto molte occasioni di viaggiare e di poter fare dei confronti con altre spiagge, un po’ per pigrizia e scarso interesse da parte mia. Per questo Pinarella rimane per me il posto di mare più bello del mondo.
Spesso mi capitava di passeggiare in spiaggia con Stefania, sia nei mesi autunnali sia in pieno inverno, e di solito era lei a propormelo. Scoprii presto che aveva un grande bisogno di parlare: di me si fidava e aggiungeva che ero l’amico ideale. Anch’io mi trovavo molto bene con lei e la cosa mi faceva piacere.
Durante l’inverno, tutti imbottiti di abiti pesanti, la sciarpa intorno al collo, il berretto in testa e il respiro che si condensava non appena usciva dalla bocca, sembravamo più due pupazzi di neve.
Il mare fuori stagione ha tutto un altro fascino che risulta difficile da spiegare a parole. È pieno di emozioni che si avvertono e rimangono gelosamente dentro. A vederlo così, spoglio di ombrelloni, sdraio, con i bagni chiusi da pannelli di latta ben ancorati e al riparo da eventuali burrasche, sembra impossibile immaginarlo come si trasforma in piena estate. Gli scavatori provvedono anche a innalzare un muro di sabbia come riparo dalle forti mareggiate. Spesso sulla spiaggia si trovano bottiglie di plastica, grossi rami di alberi, qualche tanica, qualche scarpa: tutti rifiuti spinti dalle correnti marine. E ancora, tante conchiglie morte che emanano un forte odore di putrefazione.
Quel giorno il mare era piatto come una tavola. Non c’era il vento che increspava la superficie, anzi, essa sembrava levigata come marmo. La bassa marea allargava ancora di più la vista della spiaggia. Qualche cane lasciato libero si divertiva a correre sulla spiaggia e a tuffarsi dentro il mare. Poi si fermava al sole e si scrollava di dosso l’acqua rimasta. Diverse persone munite di secchio, stivali di gomma e una paletta raccoglievano poverazze e qualche cannolicchio. Stefania e io camminavamo, senza nessuna fretta di guardare l’orologio. Commentavamo quello che vedevamo intorno. Poi lei iniziò a parlare del grande problema che le stava a cuore e io l’ascoltai.
Anche Stefania viveva sola. Lavorava in un grande supermercato della città, al reparto frutta e verdura. Aveva due anni più di me e abitava nel mio stesso palazzo, al piano sopra il mio. L’argomento di cui sentiva il forte bisogno di parlare era sempre lo stesso. Cambiava solo nelle sfumature di qualche nuova situazione, ma il centro non si spostava.
La domenica era sempre sola, anche se aveva diverse amiche. Si sa che per un single la domenica e tutti i giorni di festa sono a volte i più amari. Infatti, quelli sono i giorni che più facilmente si dedicano alla famiglia, ai figli, al marito, a un’uscita a pranzo o a cena. Magari ci si annoia e tutto appare scontato, ma così richiede l’apparenza. Il buffo di questa situazione è che gli uni invidiano quasi sempre gli altri. Io, invece, sto molto bene anche da solo e ho sempre tante cose da fare. Poi la domenica pomeriggio mi sintonizzo su Sky e mi diverto o mi arrabbio con il calcio.
Abito in questo bilocale da tredici anni. Avevo poco più di ventitré anni e già un lavoro quando sentii l’esigenza di vivere fuori casa in modo autonomo. Nessuno screzio con i miei genitori, neanche la minima incomprensione. Solo una mia esigenza d’indipendenza e di cavarmela da solo anche nelle cose più noiose, come il bucato, la spesa e il pagamento delle bollette. Quando i miei mi invitano a cena, vado sempre volentieri: mi sembra di parlare con loro molto di più rispetto a quando vivevo a casa, credo che mi considerino più grande e non l’eterno bambino.
Il quartiere dove abito si chiama Sant’Egidio ma è parte integrante della città di Cesena, capoluogo di provincia insieme a Forlì. Non c’è nessun cartello che lo indichi. Soltanto gli abitanti, poco più di seimila persone, conoscono meglio la sua esistenza. C’è un grande complesso scolastico con molto verde che include la scuola d’infanzia, le elementari e le medie. Un palazzo vecchio destinato al consiglio di quartiere per raccogliere le lamentele o le pretese che migliorino i servizi pubblici e quelli sociali. C’è una parrocchia, che per la sua estensione è molto importante nel supporto alla diocesi. Non ci sono, tuttavia, molti sacerdoti: si limitano al parroco e a un cappellano. Si avverte la forte crisi delle vocazioni che domina tutta la Chiesa: da qualche anno ogni tanto si alternano preti stranieri. Alcuni dicono per fare esperienza, altri per essere di aiuto. A me piace associare la loro presenza a dei veri e propri stage, come nelle industrie o in qualsiasi posto di lavoro. Globalizzazione vuol dire anche questo.
Io non frequento la chiesa come luogo della cristianità, non certo per pigrizia o per la solita sciocca scusa: lavoro tutta la settimana e la domenica si accumulano tante cose da fare. Poi mi piace anche rimanere a letto più del solito per recuperare qualche ora di sonno. Ho sempre pensato che sia il pretesto più stupido che si possa trovare. Forse chi ha la passione per la caccia o la pesca non si alza di buon’ora per preparare tutta la sua attrezzatura e partire per un fiume o un lago artificiale, oppure per macinare chilometri in aperta campagna per cacciare un fagiano o una lepre? No, la mia è una scelta ponderata e maturata da un preciso non credo. Se ne parlerà.
A volte al computer, con il programma di Google Maps, mi diverto a guardare dall’alto Sant’Egidio e scoprirlo diverso, più grande, con le strade più strette per la particolare inquadratura. Per questo non riesco a distinguerlo da un’altra grande città come Bologna o Milano.
La curiosità più forte è vedere il condominio in cui abito. Lo osservo dall’alto, poi lo inquadro e lo giro, ora a destra ora a sinistra. Pensare che io trascorra lì dentro gran parte della mia giornata mi strappa un sorriso con un po’ di tenerezza. Al computer sembra più bello. Non sembra vecchio ma più un oggetto antico e di valore. Nella realtà non è così. È molto malandato e ha bisogno di una ristrutturazione profonda.
Come sempre succede in questi casi, all’assemblea condominiale il problema ogni volta è rimandato per un unico motivo. Quasi tutti trovano che costi troppo e, i pochi che potrebbero permettersi la spesa, contestano il preventivo, che è sempre da rivedere e confrontare. Il risultato è sempre che l’argomento viene rinviato alla seduta successiva perché tutti sono convinti che il prezzo possa scendere e che il degrado arresti la sua corsa. Io sono in affitto e per me è facile riconoscere che il condominio ha bisogno di essere ristrutturato, ma i proprietari ragionano in modo totalmente diverso da me. All’inizio il diverso atteggiamento davanti allo stesso problema mi faceva arrabbiare, ora scrollo le spalle e passo oltre. Tanto non cambia nulla e sarà sempre così. Alla fine si decideranno o si interverrà per impellenti allarmi di pericolo. Come le grondaie tutte arrugginite e bucate, i cornicioni del sottotetto o dei balconi che ogni tanto lasciano cadere pezzi di intonaco con un rumore sordo. Per fortuna non è mai capitato che qualcuno si trovasse nella loro traiettoria. Nemmeno questa paura o allarme fa venire ai miei proprietari di casa la voglia di iniziare la ristrutturazione.
Lavoro come impiegato in una ditta di medie dimensioni che vende prodotti idrosanitari. Di preciso, la mia mansione consiste nel seguire gli ordini che arrivano dai rappresentanti per conto delle piccole e medie imprese di idraulici. Spetta a me il compito di evaderli e registrare le commesse nei rispettivi registri del singolo cliente e del rappresentante che ha raccolto l’ordine. Ovviamente la procedura è tutta automatizzata. Devo stare comunque attento a non confondere i codici sia dei clienti sia dei rappresentanti o della merce in uscita. I motivi per cui ho questo ruolo sono diversi: innanzitutto è importante emettere le fatture con i relativi pagamenti rispettando le scadenze concordate. In secondo luogo, è utile determinare il volume del rappresentante di vendita per stabilire le relative provvigioni. Infine, devo avere sempre sotto controllo il carico e lo scarico della merce in magazzino. All’inizio mi chiamavano ragioniere, poi solo Enrico. Non mi dispiace il lavoro che faccio: non mi gratifica, ma non mi crea neanche insofferenza o depressione. Mi diverte il rapporto con i rappresentanti, che sono sempre di buon umore e hanno sempre un argomento divertente per non lasciare il vuoto. Anche con i clienti ho modo di parlare molto, soprattutto per reclami o richieste di favori. Tuttavia, poiché parliamo esclusivamente al telefono, abbiamo conversazioni meno accese che ci mettono meno a disagio.
Resta comunque il mio primo impiego e cerco di tenermelo stretto. È vicino a casa, lo stipendio mi basta, e gli aspetti positivi sono molto più numerosi di quelli negativi. Alla faccia degli esperti che parlano di globalizzazione in tv, che intimano di prendere esempio dai paesi del nord Europa e di imparare a essere più versatili. Di adattarsi ai cambiamenti magari inventandosi professioni a cui non avevamo mai pensato prima. Non condivido queste teorie. Sono contrario a tutti quegli esperti di problemi familiari che sproloquiano sulla famiglia unita, sull’interesse dei figli, martellando sull’importanza della presenza costante dei genitori, molto spesso semplicemente troppo presi dal lavoro. Immaginiamo un padre che trova lavoro all’estero. Com’è possibile per lui ritrovarsi magicamente insieme ai propri figli, all’ora di pranzo e all’ora di cena, per giocare con loro e ascoltare i loro problemi? Nemmeno se avesse il teletrasporto!
Ho appena detto che lo stipendio mi basta e il motivo principale è che vivo solo. Non ho una mia famiglia e nemmeno una ragazza con cui costruire qualcosa di serio. Ho molte amiche e amici e spesso la mia casa è il luogo migliore per ritrovarci. Anche per guardare una partita di calcio, o per una cena improvvisata, solo per la voglia di restare insieme.
Credo di essere fortemente predisposto a essere un single, per scelta e convinzione, ma a volte ho anche il dubbio di non aver mai incontrato la donna giusta al momento giusto. A volte per colpa mia, altre per colpa della persona che avevo di fronte.
Quando scendo o salgo le scale del condominio, se incontro qualcuno saluto sempre per primo. Scambio anche qualche parola. Alcuni rispondono al mio saluto, altri borbottano una risposta un po’ impacciata. Altri ancora proseguono senza nemmeno alzare la testa o accennare un solo movimento delle labbra per una specie di sorriso.
Io non mi arrabbio mai, anzi faccio pure le mie divertite riflessioni: Che soggetto! Quello è sempre incazzato! Questo deve avere qualche problema! Comunque nessuno ha avuto mai appunti da farmi per qualche mia scorrettezza, nemmeno per l’auto parcheggiata nel cortile in malo modo, che ostacola l’ingresso a chi possiede un garage.
Se a volte ci troviamo a cena a casa mia con gli amici e mi sembra che la serata sia stata un po’ troppo rumorosa, al mattino mi scuso sempre con i vicini, chiedo sempre se la sera prima abbiamo disturbato. Lo so bene che forse abbiamo esagerato in qualche risata o commento ed è come se questo fosse il mio modo per farmi perdonare.
In queste occasioni non ho mai invitato Stefania. Sia chiaro che non è per uno stupido imbarazzo o disagio, anzi, sono certo che sarebbe ben accolta e lei stessa si troverebbe a suo agio. Il nostro rapporto è sempre stato particolare e riguardava solo noi due. Non lo abbiamo mai condiviso con i suoi amici né con i miei. Non ne abbiamo mai parlato, ma il tutto sembra sottinteso e scontato e ci trova di comune accordo. Lei sapeva di potermi parlare del suo problema senza imbarazzo o freni inibitori, ma soprattutto ha sempre avuto la certezza che io l’ascoltassi con tutta l’attenzione e la riservatezza possibili. Difficilmente l’ho interrotta prima della sua conclusione. Ho imparato a lasciarla parlare finché non mi accorgo che sta iniziando a ripetersi. Solo allora mi permetto di fare qualche osservazione, una critica, di suggerirle un consiglio senza mai giudicarla. Sapevo anche che non accoglieva nulla di ciò che dicevo nel tentativo di provare a cambiare qualcosa. Non mi sono mai arrabbiato per tutti questi vani ripensamenti.
Perché allora ho insistito? Stefania era la mia più cara amica. Stava male per tutto quel groviglio di tormenti e se io potevo darle solo un po’ di sollievo, ciò ripagava tutta la mia buona dose di ascolto. In fondo, speravo sempre che un giorno mi dicesse di essersi improvvisamente liberata, che si sentiva rinata.
Chissà se poi avremmo continuato a fare le lunghe passeggiate al mare.
Ero convinto di sì.
CAPITOLO DUE
Il sabato o la domenica mattina amo uscire da casa e comprare il giornale all’edicola poco distante. Trovo sempre un certo fascino nel vedere i pacchi dei giornali ammassati, le copertine dei settimanali esposte, tutte le offerte abbinate a un cd musicale o a qualche film in dvd. Mi incuriosisce anche leggere i principali titoli riportati nelle locandine dei quotidiani locali. Persino l’aria che si respira davanti a tutta questa carta stampata sembra intrisa di un odore particolare. Subito dopo mi piace fermarmi al bar e fare colazione. La mattina presto c’è ancora posto ai pochi tavoli. Mi siedo e mi gusto un caffè d’orzo in tazza grande e una brioche salata con formaggio, prosciutto cotto e una foglia di insalata.
Ultimamente al banco c’è una ragazza con i capelli lunghi e neri ed è di una gentilezza fuori dal comune, persino più accentuata di quella che il suo ruolo impone. Continuo a osservarla anche dal tavolo ed è così con tutti. C’è qualcosa in lei che mi incuriosisce e mi stimola a trovare un pretesto per dialogare, che vada oltre il servizio di una colazione. Il pretesto può anche essere banale: in fondo non c’è mai la cosa giusta da dire quando si avvicina qualcuno. La paura di rovinare tutto sul nascere per ora mi ha fatto sempre desistere.
A volte la risposta è semplicemente professionale e le consente di mantenere la giusta distanza con tutti i clienti. Per questo continuo a crogiolarmi nei soliti luoghi comuni e spero sia lei a rivolgermi una domanda che non sia quello striminzito: «Il solito?».
Con il quotidiano e la rivista settimanale del sudoku, poi, rientro a casa e mi piace fermarmi su una panchina del cortile condominiale. Quando è possibile, la sposto per sentire tutto il sole di quest’autunno scaldarmi il volto. Il suo calore mi arriva piacevolmente anche se con una debolezza quasi malaticcia, senza quell’aggressività che ha nei mesi estivi.
Diversi anni prima, una mattina d’autunno come questa, poco prima di mezzogiorno, vidi rientrare Stefania. Scese dalla macchina vicino alla porta d’ingresso e cominciò a scaricare tutte le buste della spesa, oltre a due confezioni di acqua minerale. Poi parcheggiò nel suo posto privato.
Io stavo leggendo il giornale e spontaneamente chiesi: «Serve aiuto?». Senza attendere la risposta, mi alzai dalla panchina e mi avvicinai.
«Sei molto gentile. Non nascondo di avere bisogno e poi oggi sono molto di fretta e stanca» fu la sua risposta immediata, accompagnata da un breve sguardo d’intesa.
Molta parte della spesa era da sistemare in cantina mentre una sporta e un cestello d’acqua erano da portare in casa. Non esitai a prenderli in mano entrambi e mi avviai verso le scale. Prontamente Stefania intervenne per liberarmi di un peso, ma non lo permisi. Ci conoscevamo, Stefania e io, già da qualche tempo, anche se le nostre conversazioni erano state piuttosto superficiali e ristrette alla sfera condominiale.
Sapevo che lavorava in un supermercato al reparto frutta e verdura. Spesso per la mia spesa andavo da lei a farmi consigliare. Alla fine la mia scelta non si spostava dalla confezione di insalata mista già pronta, e come frutta sceglievo sempre le mele Golden della Val di Non. Non deviavo mai, salvo qualche eccezione nei mesi estivi. Sapevo che viveva sola e che non era rimasta in buoni rapporti con i genitori, anzi, non si frequentavano proprio. Non conoscevo le ragioni, così come non c’era mai stata occasione di sapere se Stefania avesse una relazione.
Penso che anche lei avesse la stessa scarsa conoscenza della mia vita privata.
Arrivati davanti al suo ingresso, appoggiai a terra il cestello dell’acqua e la sporta, e con un sorriso chiesi se dovessi sistemarla anche dentro casa. Mi ringraziò ancora per la gentilezza e dai nostri occhi che si incrociarono per il saluto ebbi l’impressione che, nello stesso momento, ci sentissimo un po’ più amici.
Con le spalle già voltate per scendere al mio appartamento, mi disse: «Se non fossi di fretta, ti inviterei in casa e ti preparerei volentieri un piatto di pasta al pomodoro e basilico».
Alzai un braccio senza voltarmi e risposi: «Ti ringrazio, è come se l’avessi già mangiato. Ora in casa mi preparo solo il caffè».
Non mi era mai successo di avere un invito e avvertire la sensazione di sentirmi meno estraneo o indifferente come con tanti altri condomini. Mentre in casa stavo mangiando il mio piatto di maccheroncini al pomodoro con la televisione accesa sul secondo canale per il telegiornale delle ore tredici, sentii qualcuno che scendeva le scale.
Poteva essere chiunque: la cosa era del tutto normale e mai mi ero posto la minima curiosità.
Per la prima volta pensai potesse essere Stefania: non soddisfatto, mi alzai da tavola e andai alla finestra del bagno che si apre sul cortile del condominio. Da lì la vidi partire in macchina molto di fretta e con una guida che definirei arrabbiata.
Anche se ancora oggi guardare il telegiornale delle tredici è rimasta un’abitudine, quella volta non attirò la mia attenzione. Le poche parole scambiate, quel suo modo di dire grazie, il suo invito a pranzo, mi stavano facendo venire la curiosità di conoscerla o almeno di sapere di più su di lei. Mi appariva come una donna piena di mistero. Non era una brutta donna ma neppure un tipo che avrebbe fatto girare la testa. Di certo non era appariscente nel modo di porsi o di vestire. Direi piuttosto che amasse passare inosservata poiché camminava sempre con lo sguardo in basso e che invitava poco alla comunicazione.
In certi giorni, soprattutto se metteva gli occhiali scuri e un foulard annodato al collo, trasmetteva tutta la sua chiusura e l’isolamento all’ambiente intorno. Chi era Stefania? Non sapevo darmi una risposta a questo interrogativo, eppure abitava al piano di sopra.
È difficile spiegare come all’improvviso cresca dentro di noi la curiosità di sapere e conoscere quello che abbiamo sempre avuto vicino e su cui non ci eravamo mai soffermati prima.
Siamo sempre stati in qualche modo estranei, quasi sconosciuti. Poi un gesto, uno sguardo diverso, un sorriso inaspettato, una parola diversa dal solito colpiscono come