L'enigma del turco
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Anteprima del libro
L'enigma del turco - Stefano Cassini
I
Come tutte le mattine Boris si alza presto. Alle sette deve essere all’albergo per servire le colazioni e sistemare i tavoli, ma oggi pomeriggio potrà staccare, fiondarsi verso Bolzano e da lì iniziare la sua settimana di vacanza che lo porterà a casa, in Russia, a trovare la sua famiglia.
Nel primo pomeriggio tutto è a posto e la sala ristorante è pronta per accogliere i suoi ospiti per la cena.
«Ecco, capo, i tavoli per la cena sono pronti; se non ha altro da chiedere io andrei.»
«No, no. Vai pure, figliolo, e fai buon viaggio» risponde con tono quasi paterno il signor Franceschetti, il caposala.
«Grazie. Ci vediamo tra una settimana.»
Prima di uscire decide anche di fare un ultimo saluto allo zio. «Io vado. Devo dire qualcosa a papà?»
«Niente di particolare; saluta tutti e fa’ buon viaggio» risponde zio Andrej.
Il ragazzo percorre in un battibaleno le poche centinaia di metri che separano l’hotel dalla sua abitazione in strada Salejada e raggiunge i suoi due amici: «Ciao, ragazzi, eccomi; il tempo di una doccia e sono pronto a partire».
L’accoglienza, però, non è quella aspettata: «Non parti più».
«Come non parto più? Che significa?» chiede sorpreso.
«Significa che c’è stato un cambio di programma.»
Il giovane pensa subito che si tratti di uno scherzo, ma purtroppo così non è.
«Ci siamo accorti che mancano diecimila euro dal malloppo; quindi sarà meglio, primo, tu ci dica che ci sono ancora e, secondo, che tu li restituisca.»
Diecimila euro sono una bella somma, se si considera che il trio ha da poco iniziato la sua attività malavitosa in Italia.
Boris cerca di difendersi dall’accusa: «Ma è impossibile, avete contato bene? Magari sono stati messi da qualche altra parte e bisogna solo ricordarsi dove».
Il pugno che riceve alla bocca dello stomaco gli fa capire che deve dire la verità, non ha alternative.
«Va bene, va bene» riesce a dire tra un colpo di tosse e un altro «che ne pensate se vi dico dove sono ed esco dal giro, promettendo di non dire a nessuno di voi?»
Eh no, Boris, non sei nella condizione di dettare i termini della resa e il secondo pugno, quello che fa cedere le tue pur possenti gambe, è la risposta.
«Ci hai deluso sai, amico. Ci fidavamo di te, ti abbiamo messo nella banda perché ci sembravi leale. O è quella puttanella che ti ha convinto a fare il doppio gioco?»
«No, Sonja non sa nulla. È un’idea mia.»
Il ragazzo cerca di convincere Ivan, il più determinato.
«Questo lo vedremo in seguito. Ora finisco con te.»
«Cosa vuoi fare, Ivan?» interviene Michail. Dopotutto lui e Boris si conoscono dall’infanzia. Purtroppo, questa è l’ultima frase che Boris sente perché la botta in testa gli fa perdere i sensi. Ivan fa capire a Michail che non si possono permettere una mina vagante in giro.
Aspetteranno che faccia buio per caricarlo in macchina e portarlo dove, poi, sarà giustiziato senza il minimo rimorso.
II
«Cavalese? Cosa cavolo vuol dire Cavalese?» Gabriele è su tutte le furie; ha appena aperto quella busta con il timbro ministeriale che ha trovato sulla sua scrivania, restando molto sorpreso. «Ruggeri, me lo dica sotto giuramento che questo è uno scherzo idiota, seppur riuscito bene, di tutti voi, Tarozzi in testa, per ridere alla faccia mia.»
«No, dottore, non ne so nulla.»
«E tu, Claudia, c’entri qualcosa?»
«Tesoro, è una novità anche per me.»
Queste le risposte che ottiene alle sue domande. Gabriele inizia a esaminare la missiva in tutti i suoi particolari: la gira sottosopra, fronte e retro, controluce; qualsiasi cosa pur di dimostrare che quel pezzo di carta, con tanto di timbro ministeriale, non provenga da Roma. Un’ultima cosa gli resta da fare per verificare l’autenticità del documento.
«Farò una figura barbina, ma io telefono giù.»
Purtroppo per te, commissario Poli, la telefonata che fai è sprecata. Confermato il trasferimento, come promozione ci mancherebbe, al distaccamento della polizia stradale della località trentina.
«Dai, Poli, si tratta di essere il comandante; voglio dire, saranno tutti ai tuoi ordini e, visto che parliamo di polstrada, non avrai grossi sbattimenti. Io ci metterei la firma.»
«Ah, la firma? E dimmi, esimio collega, quante volte sei andato in moto?»
«Mai» risponde il giovane collega, intuendo che Gabriele a questo punto sbotterà come un vulcano che per troppo tempo ha sopito la sua natura.
«Ecco, appunto. Non ho mai visto nemmeno un motorino, abito a Milano da quando sono nato, mi occupo d’investigazioni e vengo scelto per dirigere un distaccamento di polizia stradale a Cavalese. Qualcuno sa dirmi dov’è la logica in tutto ciò?»
Che vi avevo detto?
«Amore, appena ti calmi un attimo, ti consiglierei di provare a sentire la questura di Trento; in fondo, dopo la storia di Moena, ti conoscono bene; e poi lì ora c’è il dottor De Bertolis.»
Drin, drin.
«Pronto, ufficio del commissario Poli. Chi? Va bene, passamelo… Buongiorno comandante, il commissario è in riunione, vedo se posso disturbarlo.»
Ruggeri, con quel suo fare professionale da far invidia a molte segretarie d’azienda, ha schiacciato il tasto di attesa e chiede al suo comandante se può passargli un certo Zorzi della polizia di Moena.
«Giorgio? Cosa vorrà, non ha mai chiamato in ufficio. Me lo passi.»
«Pronto? Gabriele, sei tu? Ma è vero che se adesso faccio l’autostop vieni tu e mi arresti?»
La risata che ne segue – e che tutti sentono in vivavoce – non fa che gettare benzina sul fuoco ma Giorgio Zorzi, prima che collega, è amico d’infanzia perciò non si può mandare a quel paese, anzi. «Giorgio, vecchio filibustiere. Vedo che la notizia è già arrivata alla scuola.» A Moena c’è il centro addestramento alpino e cinofilo della polizia; vien da dire «lo sanno pure i cani». «Che si dice?»
Gabriele spera, visto il tempismo dell’amico, di sapere come sia diventata possibile quest’operazione di promozione-trasferimento.
«Non dirmi che non sapevi niente. Qui si dice da tempo che il nuovo questore avrebbe portato qualcuno dei suoi uomini più fidati, alla prima occasione possibile. Stamattina ho saputo che sei il primo estratto.»
Commissario Poli, davvero non ricordi cosa era successo?
Ottobre dell’anno precedente
«I commissari Poli e Tarozzi sono fuori per un’indagine.»
È Claudia che si trova a dover fare gli onori di casa con il vicequestore De Bertolis in visita, come suo solito all’improvviso, in commissariato.
«Bene, bene. Posso, allora, rubarle qualche minuto, signorina?»
Seppur perplessa per non essere stata chiamata dottoressa, Claudia acconsente; accantona il block notes, su cui stava prendendo appunti sul lavoro da fare nel pomeriggio, e invita il magistrato a sedersi.
«Da quanto tempo è con noi?» esordisce De Bertolis.
«Sono qui a Milano da fine aprile, dottore, perché?»
«Vede, penso che il commissario Poli, con il quale so che lei è in confidenza, le abbia detto del mio imminente trasferimento.»
Al gesto di assenso della ragazza, il dirigente si confessa in maniera inaspettata.
«Quelli che sto seguendo sono i miei ultimi casi, perché dal mese prossimo sarò nella mia Trento.»
«Sono felice per lei, dottore» esclama con sincerità Claudia.
«Grazie. Quello che mi preme dirle, però, è che non vorrei andarmene lasciando qualche indagine irrisolta.»
«Non credo si debba preoccupare; anche se io sono la meno indicata per dirglielo.»
E così lo ragguaglia sul fatto che in corso non ci sono casi impegnativi, grazie al cielo.
«E io mi fido della sua rassicurazione, anche perché so che lei non svolge mai compiti marginali, tutt’altro.»
Cosa? Il tutto d’un pezzo De Bertolis, il vicequestore che nessun commissario di polizia vorrebbe a capo della propria indagine, si sta lasciando andare a complimenti non formali? E poi con lei, che al momento è poco più di un gregario?
«Giochiamo a carte scoperte, dottoressa» ora il piglio torna a essere quello consueto «lei ci sa fare ed è pronta, a mio parere, per assumere un incarico di maggior rilievo. Continui così e le auguro che chi prenderà il mio posto sappia valorizzarla.»
E con questa frase il vicequestore si alza, le stringe la mano ed esce lasciandola senza parole e con un’espressione inebetita sul volto.
«Perché sei così silenziosa?»
Sulla via del ritorno a casa Claudia, effettivamente, non proferisce parola, intenta com’è a pensare al discorso fattole da Giampietro De Bertolis.
«Ti ho detto della visita del dottor De Bertolis di stamane. Be’, non mi andava di dirlo davanti a Tarozzi, ma mi è sembrato malinconico e addirittura fragile.»
«Scusa, scusa. Stai parlando di Mammasantissima De Bertolis o di un suo clone?» la interrompe.
«Dico sul serio. Certo enigmatico sull’idea, così a me è parso, di una possibile mia valorizzazione che il suo successore dovrebbe tenere in conto, ma dispiaciuto perché lascia una squadra vincente ben orchestrata da te, e scusa se è poco. Inoltre, ha detto che se ne va, ma ha grandi progetti di sviluppo per la questura di Trento, che tuttavia sarà difficile mettere in pratica senza uomini di fiducia.»
«Peccato non esserci stato, allora.»
«Come ha potuto farmi questo? No. Devo assolutamente telefonargli e dirgli di rinunciare a me. A costo di perdere l’unico treno per la mia carriera.»
Così, caccia tutti dall’ufficio e compone il numero della questura del capoluogo trentino, pronto a rivendicare le sue ragioni.
«Ma Poli, sia ragionevole, come potrei non avvalermi di un elemento come lei. Facciamo così: se non è impegnato in qualcosa di gravoso, si prenda un giorno di libertà e venga su a trovarmi. Parlarne a quattr’occhi sarà la cosa migliore.» Questa era stata la risposta di De Bertolis alla richiesta di Gabriele.
Così, due giorni dopo, ecco il nostro eroe nell’ufficio del neo questore, con a fianco Claudia, deciso a vendere cara la pelle per annullare il trasferimento.
«Poli! Oh, c’è anche lei dottoressa, che piacere rivederla.