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Pieces of you: Edizione italiana
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E-book195 pagine2 ore

Pieces of you: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Dallas Muller ha tutto ciò che non si sarebbe mai aspettato di avere. È proprietario di una fiorente officina di moto a Newcastle, Australia, ed è follemente innamorato di Justin Keith, suo ragazzo da quattro anni.
Justin ha sempre faticato a trovare il suo posto nel mondo, incapace di capire il proprio valore o cosa voglia dire essere amato, finché non ha conosciuto Dallas. Per alcuni vivere e lavorare insieme può essere troppo stressante, ma per Dallas e Justin è la sistemazione perfetta.
Quando un terribile incidente manda in subbuglio il loro mondo, a Justin non rimane più alcun ricordo di Dallas e della loro relazione. Cercare di rimettere insieme il puzzle è quasi impossibile, dato che alcuni pezzi sono bianchi e altri introvabili. Dallas deve lasciare che Justin ritrovi la strada che lo porta a lui e sperare solo che il loro amore illumini il cammino.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2023
ISBN9791220706407
Pieces of you: Edizione italiana

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    Anteprima del libro

    Pieces of you - N.R. Walker

    1

    JUSTIN

    Dallas mi fece comparire davanti una tazza di caffè sul bancone della cucina. «Oggi dovrai prendere il furgone,» disse, indicando con un cenno della testa la giornata uggiosa e tutta nuvole.

    Sospirai. «Grazie,» mormorai prima di bere un sorso. Non ero sicuro se l’ordine provenisse dal mio ragazzo o dal mio capo. Anche se probabilmente non era giusto da parte mia pensare così. Dallas era sia il mio ragazzo che il mio capo e non avevamo mai avuto un problema con quella vaghezza. Ero solo di umore schifoso.

    Non ero esattamente di cattivo umore. Solo, non ero un tipo mattiniero. E il tempo piovoso non aiutava, considerato che ero un meccanico specializzato in moto e quel giorno avrei lavorato sotto la pioggia. Amavo il mio lavoro e amavo Dallas. Tuttavia non amavo la mattina. Mentre usciva dalla cucina mi diede una stretta al braccio e represse un sorriso.

    Avevo conosciuto Dallas quando avevo venticinque anni. Mi ero ritrasferito a Newcastle dopo due anni a Darwin. La migliore officina per motociclette della città cercava un nuovo meccanico e io ero il candidato perfetto. Cercavano uno che fosse esperto del marchio KTM, entusiasta e gran lavoratore, e lo trovarono. Io avevo bisogno di lavoro e di certo non ero alla ricerca di un ragazzo, ma insieme all’impiego perfetto trovai il tipo perfetto per me.

    Era alto e bellissimo, con i capelli castani, barbetta incolta lungo il contorno della mandibola e penetranti occhi nocciola-grigio. Inoltre era del genere tutto d’un pezzo e taciturno che non parlava mai molto. Era un gran lavoratore, severo ma giusto, e tutti lo rispettavano.

    Aveva anche modi gentili e pacati, un bizzarro senso dell’umorismo, e avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare una persona. Non guastava il fatto che condividevamo la passione per le moto e che a nessuno dei due davano fastidio le unghie macchiate di unto e l’odore costante di benzina sulla pelle.

    Essere un meccanico gay era già abbastanza difficile. Non mi era mai successo di rivolgere una seconda occhiata a un uomo, in nessuno dei lavori che avevo svolto. La tipica sala relax di un’officina includeva calendari con donne nude e tizi che si vantavano del loro punteggio, che l’avessero segnato in camera da letto o nelle partite di football del fine settimana.

    Ma non Dallas, e non in quell’officina. Dallas era diverso. E quando avevo cominciato a lavorare con lui avevo creduto di immaginarmi il modo in cui il suo sguardo si soffermava giusto un secondo di troppo o in cui si soffermava a sorridermi… perché mai e poi mai, cavolo, era possibile che mi guardasse così.

    Non ero lì da tanto quando Davo, altro meccanico e buon amico di Dallas, mi aveva chiesto se avevo la ragazza. Avevo liquidato la questione con una risata, scuotendo la testa, non volendo far trapelare il mio orientamento sessuale, ma poi mi aveva chiesto se avevo il ragazzo.

    Mi ero paralizzato, mentre da qualche parte nell’officina una chiave a settore cadeva sul pavimento di cemento.

    «Non sarebbe un problema,» aveva detto Davo sorridendo eccessivamente. «Cioè, a noi qua sta bene. Non è vero, Dallas?»

    Avevo rivolto un’occhiata a Dallas, verso il punto in cui stava raccogliendo la chiave a settore, mentre cercavo di non andare nel panico e mi chiedevo quale fosse il modo migliore per negare tutto.

    «Certo che ci sta bene,» aveva mormorato lui, scoccando un’occhiataccia a Davo prima di tornare a occuparsi della moto a cui stava lavorando.

    Davo aveva riso e si era allontanato, divertito per qualcosa, e io avevo cercato di non rimuginarci su. Ma conoscevo tipi che erano stati bullizzati o, peggio, picchiati al lavoro dopo l’outing fatto da qualcuno. Quel pomeriggio, al momento di staccare, mi stavo ripulendo nella sala relax quando era entrato Dallas. Non avevo notato che tutti gli altri erano andati, ma l’officina appariva deserta.

    Avevo pensato senza ombra di dubbio che stesse per licenziarmi. Oppure saltarmi addosso per bloccarmi mentre gli altri, a turno, mi pestavano a sangue. Invece lui era apparso a disagio, persino in imbarazzo; si era grattato la barba e aveva deglutito energicamente. «Io, ehm…» Aveva espirato. «Volevo solo farti sapere che se sei gay, va bene. Cioè…» Aveva scosso la testa. «Gesù.»

    «Non sono gay,» avevo mentito.

    «Perché io lo sono,» aveva detto contemporaneamente. Mi aveva fissato. «Ah.» Si era accigliato, e mi era dispiaciuto vedere la sua espressione ferita.

    «Oh, ehm… Merda,» avevo balbettato.

    «Tutto okay?» aveva chiesto, mettendomi una mano sulla spalla. La sua mano era enorme e così calda da scottarmi attraverso la salopette. «Mi fai un bel respiro?»

    Ricordavo di aver inspirato, portandomi una mano alla fronte. «Sì, grazie. Ho pensato…»

    Dallas aveva ritratto la mano e si era appoggiato al lavello, l’aria disinvolta come sempre. «Hai pensato cosa?»

    «Voglio dire, sono dichiarato. La gente sa… che sono gay, intendo. Solo che non lo pubblicizzo, specialmente al lavoro, perché a volte…»

    «A volte la gente è stronza.»

    Avevo annuito prontamente. «Sì. Ma Davo…»

    Aveva sogghignato. «Davo è okay. È mio amico. I ragazzi qui lo sanno, e cavolo, anche la maggior parte dei clienti. Non hanno problemi con me. Be’, se ce li hanno sono troppo codardi per dire qualcosa.»

    Gli avevo sorriso e lo avevo fissato in quei suoi occhi castano-grigio. Il mio stomaco aveva fatto una capriola, e lui mi aveva rivolto un sorriso sghembo. E quello era stato l’inizio di mesi di occhiate un po’ troppo lunghe, di sorrisi timidi e tensione sessuale al massimo. Fino a quando Davo e Sparra ci avevano chiamato in sala relax per dirci quando è troppo è troppo. Erano stufi del nostro girarci intorno e trattenere il fiato, del mio nervosismo e dell’esasperazione di Dallas. «Voi due non uscite da questa stanza finché non avete risolto,» aveva detto Davo sbattendosi la porta alle spalle.

    Dallas non voleva avere una relazione con un dipendente, portava a confondere i limiti, aveva detto. Io avevo annuito, perché capivo, aveva perfettamente senso, e nemmeno io andavo pazzo all’idea di mettere su casa con il capo. Aveva annuito e io avevo annuito, e per alcuni lunghi secondi eravamo rimasti fermi, cercando di respirare, come se non ci fosse ossigeno nella stanza. Si era leccato le labbra e, porca puttana, quegli occhi…

    Avevo fatto un passo in avanti ancora prima di capire quel che facevo, lui aveva attraversato la stanza, mi aveva preso il viso e messo la lingua in bocca prima che potessi pensare.

    Ma non avevo bisogno di pensare…

    Perché sapevo.

    «Cos’hai da sorridere?» mi chiese Dallas.

    Avevo ancora lo sguardo fisso oltre la finestra schizzata di pioggia. «Niente, ricordavo il nostro primo bacio.»

    Lui rise e posò la tazza vuota nel lavello. «Quello stronzone di Davo. Sai che se ne prende ancora il merito?»

    «Oh, lo so. Me lo dice sempre.»

    Dallas si avvicinò, mi sollevò la mandibola e mi posò un bacio delicato sulle labbra. «E io ancora lo ringrazio.» Gli vibrò il telefono e lui emise un gemito. «Il primo della giornata.»

    Erano appena le sei e trenta. Annuii e presi un sorso di caffè. «Sarà tutta così, pare.»

    Lui osservò il tempo fuori dalla finestra e fece sì con la testa. «Vado ad attrezzare il furgone.»

    «Scendo tra un secondo.» Il tragitto verso il posto di lavoro consisteva in una singola rampa di scale, dato che vivevamo nell’appartamento sopra l’officina. Be’, Dallas era il proprietario dell’edificio, che includeva sia attività che casa. Un’unità con due camere da letto, che non sarebbe apparsa su una rivista di abitazioni chic, ma che era perfetta per noi.

    Finii il mio caffè e mi infilai gli scarponi, grattai dietro l’orecchio Squish, il gatto, mi misi in tasca telefono e chiavi e mi chiusi la porta alle spalle.

    Per le sette meno dieci avevo finito di caricare il furgone insieme a Dallas, e lui mi porse il suo impermeabile ad alta visibilità. «Non so se ti terrà completamente asciutto,» disse mentre la pioggia fuori scrosciava.

    «Se torno fradicio, sarà troppo chiedere al capo di togliermi la divisa bagnata? Sai, questioni di sicurezza sul lavoro eccetera.»

    Dallas mi rivolse il mio sorrisetto preferito. «Nah, troppe scartoffie da compilare.»

    Rimasi a bocca aperta, provocandogli una risata, e mi diede un rapido bacio proprio mentre Davo correva dentro con il giubbotto tirato sulla testa.

    «Sta diluviando,» disse. Si tolse il giubbotto con un sogghigno, poi si scrollò via l’acqua come un cane.

    Sparra seguì a breve distanza, tutto sgocciolante. «Bel tempo per le papere, oh.»

    «Già, voialtri godetevi una giornata orribile qua all’asciutto nell’officina. Io ho già una chiamata fuori,» dissi mostrando il mio PalmPilot.

    «Ehm, facciamo due,» disse Dallas guardando il suo cellulare. Cliccò sullo schermo, e una seconda prenotazione comparve anche sul mio.

    «Fantastico,» mugugnai. «Voi godetevi la vostra seconda tazza di caffè. Io me ne vado fuori sotto ‘sto diluvio.» Indicai con un cenno della testa l’acquazzone che soffiava dentro dalla serranda aperta.

    Davo e Sparra risero e mi mostrarono il medio mentre sparivano in sala relax. Dallas scosse la testa sorridendo. Mi sistemò il collo del giaccone e mi baciò. «Stai attento.»

    «Sempre.»

    Guardò la pioggia con un sorrisetto. «Io, uhm, ti farò avere il rapporto compilato per quando torni.»

    «Rapporto?»

    «Quello sui vestiti bagnati,» mormorò, la voce roca e carica di promesse.

    Ridendo salii sul furgone. La prima fermata era Glendale, non lontano, con quella pioggia forse quindici minuti al massimo. Azionai i tergicristalli alla massima potenza, alzai il riscaldamento per non far appannare il parabrezza e partii.

    Doveva essere l’ennesimo martedì come tanti di una vita come tante. Una giornata di lavoro, di risate con i ragazzi in officina al pomeriggio, magari una corsetta dopo il lavoro. Oppure, se la pioggia fosse proseguita, magari io e Dallas ci saremmo rannicchiati insieme a Squish sul divano per vedere un po’ di TV, poi saremmo andati a letto e avremmo fatto l’amore fino a tardi, senza alcuna fretta.

    Assolutamente ordinario, assolutamente banale e assolutamente meraviglioso. Era tutto quello che avevo sempre voluto e non avevo mai osato sperare. Finché non avevo conosciuto Dallas e lui aveva sistemato ogni stortura della mia vita. Era ridicolo quanto fossi felice. Persino quando al mattino mi svegliavo scontroso, lui comunque mi sorrideva e mi amava, a dispetto di tutto.

    La vita era quasi perfetta, cavolo. A dire il vero non c’era una sola cosa che avrei cambiato, se ne avessi avuto l’occasione. Neanche una.

    Mi fermai in coda in attesa che il semaforo diventasse verde. La pioggia era calata un po’, anche se i fanali posteriori dei mezzi di fronte a me erano ancora rifratti dall’acqua e dalle luci. Passarono alla radio i Cold Chisel, quindi alzai il volume e cominciai a cantare sulle note di When the War Is Over. Dallas e io non avevamo propriamente una canzone nostra, ma se l’avessimo avuta sarebbe stata quella. Una canzone sull’imparare a vivere di nuovo; un vero classico australiano sulla vita.

    La vita…

    È buffo quel che dicono su come la vita ti passi davanti agli occhi appena prima di morire. O sul fatto che un momento prima che la vita finisca vedi tutto con profonda chiarezza.

    Non mi successe niente del genere.

    Mentre seguivo la lenta scia di traffico attraverso l’incrocio, con il semaforo ancora verde, e proprio mentre Jimmy Barnes stava per intonare la sua parte della canzone, sentii uno stridere di freni e un fracasso di clacson. Per caso guardai fuori dal finestrino proprio mentre il camion veniva dritto verso di me planando sopra uno strato d’acqua. Sbandava e scivolava e arrivava molto veloce e allo stesso tempo al rallentatore.

    No, non mi passò la vita a flash davanti agli occhi, né ci fu alcun momento di chiarezza profonda. Quando la griglia del radiatore del camion si scagliò verso di me, ebbi un ultimo pensiero che sarebbe stato divertente, se fosse stato davvero l’ultimo.

    Ah, fantastico, cazzo. Proprio mentre la canzone arriva al mio punto preferito.

    Attesi il rumore dell’impatto, del vetro che si frantumava e del metallo che si contorceva. Attesi il dolore. Ma non giunse mai.

    2

    DALLAS

    Controllai l’orologio alle nove meno due. Due minuti dall’ultima volta che l’avevo guardato. Justin non si era fatto sentire, e lui dava sempre un colpo di telefono. Doveva aver finito da un pezzo il primo lavoro.

    «Sta bene,» disse Davo, beccandomi a guardare l’ora per la ventesima volta. Stavamo lavorando insieme a una moto in fondo all’officina. «Da un secondo all’altro arriverà inzuppato come un ratto, lamentandosi della pioggia. Vedrai.»

    «Grugnii, non condividendo la sua certezza.

    «Ehm, Dallas? Capo,» mi chiamò Sparra con voce nervosa.

    Davo e io ci girammo proprio mentre entravano due agenti in uniforme. Mi si gelò il sangue e rivoltò lo stomaco. «Posso aiutarvi?» chiesi.

    «Questo è il 44 di Carney Road?» domandò uno degli agenti.

    «Sì, esatto.»

    Parlò il suo compagno: «Abbiamo questo indirizzo come residenza del signor Justin Keith.»

    Quasi mi cedettero le ginocchia. «È corretto. Vive di sopra con me.» Deglutii con forza e sentii i polmoni restringersi.

    «Lei è Dallas Muller?»

    «Sì, esatto.» Mi stavo sforzando di non dare di matto. «Sono il suo fidanzato. E il suo capo. Viviamo insieme. Va tutto bene?»

    Magari fu il mio tono o il vero e proprio panico nella mia voce, ma il primo poliziotto mi prese a compassione. «C’è stato un incidente, signor Muller. Deve venire con noi.»

    Incidente.

    «È…?» Cazzo. No, non si erano tolti il capello. I poliziotti si tolgono il cappello se la notizia è veramente brutta, giusto?

    «È stato portato al John Hunter. Il veicolo che guidava è stato tamponato da un camion.»

    Dopo questo non sentii molto altro. Le gambe non mi volevano più sostenere e l’aria si era fatta spessa e pesante…

    Ricordo le espressioni inorridite sui visi di Davo e Sparra. Davo mi prese le chiavi, mi disse che avrebbe badato

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