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Lady Nicotina. Riflessioni di un ex fumatore
Lady Nicotina. Riflessioni di un ex fumatore
Lady Nicotina. Riflessioni di un ex fumatore
E-book360 pagine5 ore

Lady Nicotina. Riflessioni di un ex fumatore

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Info su questo ebook

Oggi, il narratore di questa storia è sposato, e non fuma più. Tuttavia, non riesce a non ripensare ai suoi tempi da scapolo, quando, insieme ai suoi compagni, fumava e venerava la miglior miscela di tabacco mai esistita, l’Arcadia. Rievoca così i tempi in cui con i suoi amici si tenevano svegli per raccontarsi le loro fantasticherie sull’amore, in cui scommettevano su quando una confezione di tabacco sarebbe volata via da davanti alla sua finestra, e in cui elencavano i danni del non fumare. Un’opera che è un inno alla stravaganza e all’originalità, oltre che una perla dell’umorismo surreale.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2023
ISBN9788892967717
Lady Nicotina. Riflessioni di un ex fumatore
Autore

James Matthew Barrie

J. M. (James Matthew) Barrie (1860--1937) was a novelist and playwright born and educated in Scotland. After moving to London, he authored several successful novels and plays. While there, Barrie befriended the Llewelyn Davies family and its five boys, and it was this friendship that inspired him to write about a boy with magical abilities, first in his adult novel The Little White Bird and then later in Peter Pan, or The Boy Who Wouldn't Grow Up, a 1904 play. Now an iconic character of children's literature, Peter Pan first appeared in book form in the 1911 novel Peter and Wendy, about the whimsical adventures of the eternal boy who could fly and his ordinary friend Wendy Darling.

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    Anteprima del libro

    Lady Nicotina. Riflessioni di un ex fumatore - James Matthew Barrie

    GEMME

    frontespizio

    James Matthew Barrie

    Lady Nicotina – Riflessioni di un ex fumatore

    Titolo originale dell’opera:

    My Lady Nicotine – A Study in Smoke

    ISBN 978-88-9296-771-7

    Traduzione: Andrea Cariello

    © 2021 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Il matrimonio e il fumo a confronto

    ENG

    Le circostanze in cui smisi di fumare furono queste.

    Non ero che uno scapolo che si trascinava verso quella che adesso vedo come una tragica mezza età. Mi ero talmente abituato al fumo che mi usciva dalla bocca, che mi sentivo incompleto senza di lui. In realtà arrivava il momento in cui riuscivo a trattenermi dal fumare, se non avevo altro da fare, ma difficilmente durante le ore di lavoro. Quando mettevo da parte la pipa, mi ritrovavo subito dopo a vagare inquieto intorno al tavolo. Nessun mendicante cieco si è mai ritrovato a dipendere tanto dal proprio cane guida, o è mai stato più restio a liberarsene.

    Sto molto meglio senza tabacco e ormai fatico a immedesimarmi nell’uomo che ero una volta. Persino ricordarlo così com’era e considerarlo senza pregiudizio è compito arduo, perché dimentichiamo i vecchi noi stessi a cui abbiamo voltato le spalle, così come dimentichiamo com’era una strada una volta che è stata ricostruita. Per caso uno schiavo liberato rabbrividisce ogni volta che sente lo schiocco di una frusta? Immagino di no, dal momento che ricordo solo vagamente, e senza una profonda sofferenza, gli orrori dei miei giorni da fumatore. C’erano notti in cui mi svegliavo con un dolore al cuore che mi faceva mancare il respiro. Non osavo muovermi. Dopo forse dieci minuti di terrore, cambiavo posizione solo di qualche centimetro alla volta. Durante il giorno, quella fitta l’avvertivo meno spesso, ma in quei momenti credevo di essere sul punto di morire mentre parlavo con i miei amici. Non ho mai fatto parola di queste esperienze ad anima viva. In realtà, sebbene fra i miei conoscenti ci fosse un uomo di medicina, nelle rare occasioni in cui mi domandava della quantità di tabacco che consumavo settimanalmente, lo ingannavo con astuzia. Spesso, al buio, non solo giuravo di smettere di fumare, ma mi domandavo come mai mi piacesse. La mattina dopo, passavo direttamente dalla colazione alla pipa, senza il minimo conflitto interiore. Di recente, mentre decidevo di liberarmi di quell’abitudine, ho capito che avrei fatto meglio a cercare di dormire. Mi ingannavo in modi elaborati, ma sapere quante once di tabacco stavo fumando ogni settimana diventò fastidioso. Spesso fumavo sigarette per ridurre il numero dei sigari.

    D’altro canto, se si escludono questi intensi dolori, mi sentivo piuttosto bene. L’appetito era buono come adesso, lavoravo con lo stesso entusiasmo di adesso, e sicuramente di più. In un certo senso, credo di aver provato gli stessi dolori quando ero ragazzo, prima di iniziare a fumare, e tutt’ora non ne sono del tutto immune. Erano più frequenti nei miei giorni da fumatore, ma non ho altre ragioni per addebitarli al tabacco. Magari un dottore, lui stesso un fumatore, li avrebbe sminuiti. Comunque, una volta accesa la pipa, come dire, ci badavo attentamente. Al primo indizio che stavano per presentarsi, posavo la pipa e smettevo di fumare… finché non passavano.

    Non voglio dire che non sarei riuscito a smettere con il tabacco senza aiuto, una volta convinto che mi stava facendo male. Ma ero riluttante a convincermene. Vorrei poter dire che ho smesso di fumare perché lo consideravo una meschina forma di schiavitù, da condannare per ragioni morali e fisiche. Ma sebbene ora io ormai veda chiaramente la follia del fumare, rimasi cieco al riguardo per alcuni mesi dopo la mia ultima pipa. Abbandonai il mio più piacevole sollazzo – così lo consideravo – solo perché la donna disposta a gettarsi fra le mie braccia mi disse che dovevo scegliere fra il fumo e lei, per nessun’altra ragione. Questo fece slittare il nostro matrimonio di sei mesi.

    Ormai sono giunto, come chi legge noterà, a guardare il fumo con gli occhi di mia moglie. I miei vecchi amici scapoli si lamentano perché non consento che si fumi in casa, ma sono sempre pronto a spiegare la mia posizione, e non ho un briciolo di pietà per loro. Se qui non ci posso fumare io, nemmeno loro possono. Quando li incontro alla vecchia pensione, si vendicano soffiandomi quasi in faccia i loro anelli di fumo. Quella di fare anelli di fumo è l’ambizione umana più ignobile. Una volta ero membro di un club per fumatori, dove ci allenavamo a fare gli anelli. Il più bravo alla fine dell’anno vinceva in premio una scatola di sigari. Quelli sì che erano bei tempi! Spesso ci ripenso con nostalgia. Ci incontravamo in un’accogliente sala sullo Strand. Me la ricordo ancora benissimo. Tabelle orarie sparse ovunque con cui potevamo accendere le pipe. Alcuni fumavano pipe d’argilla, ma per la miscela Arcadia non c’è niente di meglio di una pipa di radica. La mia radica era la più dolce mai vista. È strano ricordare un tempo in cui una pipa sembrava la mia migliore amica.

    La mia condizione attuale è così felice che posso soltanto guardarmi indietro meravigliato per aver esitato ad abbandonarmici. La casa l’abbiamo presa quando ancora sostenevo che sarebbe stato pericoloso smettere di fumare di colpo. All’epoca il mio ideale di vita coniugale non era quello di adesso, e ricordo Jimmy che cercava di convincermi a stabilirmi in questa casa perché la grande stanza con tre finestre al piano di sopra era il sogno di ogni fumatore. Immaginava lui e me lì in estate a fare anelli di fumo, senza giacca e con i piedi fuori dalle finestre, e diceva che lo stanzino sul retro, che dava su un muro spoglio, sarebbe stato un salotto perfetto per mia moglie. Al momento il suo entusiasmo mi trascinò, ma ora capisco quanto fosse egoistico. Ho davanti a me la faccia di Jimmy quando ci fece visita per la prima volta e scoprì che lo stanzino non era diventato il salotto. Jimmy è un bell’esemplare di uomo, non senza doti, ma distrutto dalla devozione per la sua pipa. Ancora oggi pensa che i vasi sulle caminiere siano fatti apposta per contenere i fiammiferi da pipa. Siamo quasi sicuri che quando sta da noi fumi in camera, un’abitudine detestabile che non riesco a tollerare.

    Due sigari al giorno a nove pence l’uno fanno ventisette sterline, sette scellini e sei pence l’anno; quattro once di tabacco alla settimana a nove scellini alla libbra fanno cinque sterline e diciassette scellini all’anno. Sommati, sono trentatré sterline, quattro scellini e sei pence. Se calcoliamo la spesa annuale di tabacco in questo modo, restiamo naturalmente sorpresi, e la nostra stravaganza ci colpisce ancor di più dopo aver pensato a tutti i modi più soddisfacenti in cui avremmo potuto spendere quel denaro. Con trentatré sterline, quattro scellini e sei pence si possono comprare tappeti orientali per il salotto, una cuffietta primaverile e un bel vestito. Queste sono cose che danno un piacere duraturo, mentre per un sigaro non si prova più alcun interesse, una volta buttato via il mozzicone. A mio giudizio, dovrei dire che è stata la mancanza di riflessione più che l’egoismo a fare di così tanti scapoli dei forti fumatori. Quando un uomo si sposa, i suoi occhi si aprono a tante cose di cui era del tutto ignaro prima, fra le quali c’è il piacere di aggiungere ogni mese un elemento d’arredo al salotto, oltre all’avere una camera da letto rosa e dorata, che resta sempre chiusa a chiave. Se gli uomini pensassero che con ogni sigaro potrebbero comprare parte di un nuovo sgabello da pianoforte alla moda in lussuosa terracotta, e che per ogni scatola di tabacco acquistata si dice addio a un vaso in cui coltivare gerani morti, esiterebbero di certo. Invece non ci pensano fin quando non si sposano, e poi sono costretti a farlo. Dal canto mio, non riesco a capire come mai agli scapoli sia consentito fumare quanto vogliono, mentre a noi è vietato.

    Il solo odore di tabacco è rivoltante, perché non va via dalle tende, e c’è poco piacere nell’esistenza se le tende non sono perfette. Quanto a un sigaro dopo cena, non fa che renderti fiacco e assonnato e non incline alla compagnia femminile. Un modo molto più piacevole per trascorrere la serata è passare direttamente dalla cena al salotto per ascoltare un po’ di musica. Sentire la nipote di tua moglie che canta: «Oh, quando noi due eravamo piccioncini!» ti dona tranquillità. Anche se non sei appassionato di musica, come nel mio caso, nel salotto ci sono tante cose a rallegrarti. Ci sono i ventagli giapponesi alle pareti, che sono roba preziosa, anche se il tuo gusto per l’arte può non essere abbastanza educato da saperlo, eccetto che per sentito dire. Ed è un piacere udire che sono stati comprati con il denaro che, nei passati giorni di follia, sarebbero stati scialacquati per una scatola di sigari. Allo stesso modo, ogni carina sciocchezzuola nella stanza ti ricorda quanto più saggio sei adesso rispetto a una volta. È addirittura gratificante, in estate, stare alla finestra del salotto e guardare i tassisti passare con dei sigari in bocca. Allo stesso tempo, se io potessi legiferare, proibirei alle persone di fumare per strada. Se sono uomini sposati, si stanno fumando parascintille da salotto e bordi di caminiere per la stanza rosa e dorata. Se sono scapoli, è scandaloso che gli scapoli si prendano il meglio di tutto.

    Niente è più deplorevole del modo in cui alcuni uomini di mia conoscenza diventano schiavi del tabacco.

    O, peggio ancora, idolatrano un particolare tipo di tabacco. Conosco un tizio che considera una particolare miscela talmente superiore a tutte le altre che si farebbe tre miglia a piedi pur di averla. Di certo chiunque ammetterà che è deprecabile. Non è nemmeno questa grande miscela, perché in passato l’ho provata qualche volta, e se a Londra c’è un uomo che ne capisce di tabacco, quello sono io. C’è solo una miscela a Londra che merita l’aggettivo «superba». Non dirò dove la si può trovare, perché finirebbe che di sicuro tanti folli fumerebbero più che mai, ma non ho mai trovato niente di paragonabile. È squisitamente dolce, eppure piena di fragranza, e non brucia mai la lingua. Se la provi una volta, la fumerai per sempre. Schiarisce il cervello e ammorbidisce il temperamento. Quando andavo via in vacanza da qualche parte, portavo con me la quantità di quella salutare miscela che credevo mi sarebbe bastata per tutto il periodo, ma poi rimanevo sempre senza. Allora telegrafavo a Londra per averne dell’altra, e stavo male finché non arrivava. Come strappavo via il coperchio di quel barattolo! Quello sì che è un tabacco per cui vale la pena vivere. Ma sto meglio senza.

    Di tanto in tanto mi capita ancora di sentirmi un po’ giù dopo cena, non saprei dire perché, e se mia moglie mi lascia solo, vago per la stanza inquieto come se mi mancasse qualcosa. Di solito, tuttavia, mi porta con lei in salotto e mi legge a voce alta le sue lettere piacevolmente lunghe da mandare a casa, oppure mi suona della musica gentile. Se la musica è dolce e triste, mi porta via fino alla scala di una pensione, che io salgo felice, per poi aprire una porta pesante all’ultimo piano, dove accendo il lume a gas. È una piccola stanza quella in cui mi trovo nuovamente, e molto impolverata. Una catasta di giornali e riviste alta quanto un tavolo si trova nell’angolo più lontano. La poltrona di giunchi sembra riprodurre esattamente la forma della schiena di Marriot. Ciò che resta (una volta acceso il fuoco) di una foto giace sul tappeto del camino. Gilray entra senza essere stato invitato. Ha lasciato detto di mandare da me i suoi ospiti. La stanza si riempie. La mia mano cerca un barattolo marrone lungo la caminiera. Ora il barattolo è fra le mie ginocchia. Carico la pipa…

    Dopo un po’ la musica si ferma e mia moglie mi mette la mano sulla spalla. Forse ho un piccolo sobbalzo, poi lei mi dice che mi ero addormentato. Questo è il libro dei miei sogni.

    Il mio primo sigaro

    ENG

    Non fu nelle mie stanze, bensì trecento miglia più a nord, che imparai a fumare. Credo di poter dire con certezza che non mai è stato fumato un primo sigaro in circostanze analoghe.

    All’epoca ero uno studente e vivevo con mio fratello, che era già un uomo. Le persone fraintendevano la nostra parentela e mi scambiavano per suo figlio. Mi chiedevano come stava mio padre, e se lui sentiva, mi guardava accigliato. Tutt’oggi sembro così giovane che la gente che si ricorda di me da piccolo adesso pensa che io sia il fratello minore di quel ragazzo. A breve racconterò uno strano malinteso di questo tipo, ma al momento sto pensando alla sera in cui nacque la figlia più grande di mio fratello, forse la sera più stressante che io e lui abbiamo passato insieme. Per quel che ne sapevo, la faccenda fu davvero improvvisa, e mi sentii dispiaciuto per mio fratello quanto per me.

    Eravamo entrambi seduti nello studio, lui su una poltrona messa vicino al fuoco e io sul divano. Non so dire a che ora iniziai ad avere il vago sospetto che qualcosa andava storto. Si impadronì gradualmente di me e mi fece sentire molto a disagio, anche se non lo diedi a vedere, ovviamente. Sentii delle persone fare su e giù per le scale, ma in quel momento non sospettavo nulla. Relativamente presto durante la sera ebbi la sensazione che mio fratello avesse qualcosa per la testa. Di norma, quando venivamo lasciati soli sbadigliava o tamburellava con le dita sul bracciolo della poltrona per dimostrare di sentirsi a disagio, oppure io simulavo tranquillità giocando con il cane o dicendo che la stanza era chiusa. Poi uno di noi si alzava, diceva di aver lasciato un libro in salotto e andava a cercarlo, premurandosi di non tornare prima che l’altro fosse andato via. Con queste furbizie ci andavamo incontro l’un l’altro. In quell’occasione, tuttavia, lui non adottò nessuno dei soliti metodi, e nonostante io fossi andato diverse volte in camera mia a origliare attraverso la parete, non sentii nulla. Alla fine qualcuno mi disse di non andare di sopra, così tornai nello studio con la sensazione di essere ormai a conoscenza del peggio. Lui era ancora sulla poltrona e io mi rimisi sul divano. Dal modo in cui mi guardava da sopra la pipa riuscivo a capire che si stava domandando se sapessi qualcosa. Non credo di aver mai apprezzato mio fratello più di quella sera, e volevo che capisse, qualsiasi cosa fosse accaduta, che non sarebbe cambiato nulla fra noi. Ma la faccenda del piano di sopra era troppo delicata per parlarne, e tutto quello che potevo fare era cercare di distrargli la mente da quel pensiero facendolo parlare un po’ di politica. Mio fratello è proprio quel genere di persona. Conosce una montagna di cose, eppure suppongo che non abbia mai letto un libro – che fosse un almanacco o un volume di poesie – senza aver colto in fallo l’autore da qualche parte. Lui legge i libri a questo scopo. Di norma evitavo di discutere con lui, perché si irritava se avevo ragione e si infuriava se avevo torto. Quindi era rischioso buttarsi sulla politica, ma pensavo che le circostanze lo richiedessero. Con mia sorpresa mi rispose in maniera sconclusionata, bloccandosi di tanto in tanto a metà frase e con l’aria di chi prestava ascolto a qualcosa. Lo misi alla prova con la storia e menzionai il 1882 come data della battaglia di Waterloo, semplicemente per dargli la sua occasione. Ma se la lasciò sfuggire. Dopo di ciò ci fu silenzio. Ogni tanto si alzava dalla poltrona, come con l’intenzione di uscire dalla stanza, poi si sedeva di nuovo, come se ci avesse ripensato. Fece così diverse volte, scrutandomi sempre con attenzione. Pensando a come facilitargli le cose, presi un libro e feci finta di leggere con grande attenzione, facendogli capire che se voleva poteva andarsene senza che io ci badassi. Alla fine balzò in piedi e, guardandomi con spavalderia, come a significare che la casa era sua e poteva fare ciò che voleva, si diresse con decisione verso quella stanza. Gli lanciai uno sguardo mentre saliva le scale e notai che si era sfilato le scarpe ai piedi della rampa. Ormai la boria lo aveva completamente abbandonato.

    Tornò nel giro di poco tempo. Mi trovò a leggere. Si accese la pipa e fece finta di leggere anche lui. Non potrò mai dimenticare che il mio libro era Anne Judge, la zitella, mentre il suo era un numero della rivista Blackwood. La pipa gli si spegneva ogni cinque minuti e di tanto in tanto il libro rimaneva poggiato sulle sue ginocchia, e lui fissava il fuoco. Allora usciva per cinque minuti e poi tornava. Si era fatto tardi e avrei preferito andarmene in camera e chiudermi dentro. Però sarebbe stato egoistico, così restammo lì, sprezzanti. Alla fine lui alzò lo sguardo dalla poltrona quando qualcuno bussò alla porta. Sentii diverse persone parlare e poi una voce più giovane sopra tutte le altre.

    Quando tornai in me, la prima cosa che pensai fu che mi avrebbero chiesto di tenerlo. Poi mi ricordai, con un altro tuffo al cuore, che magari volevano chiamarlo come me. Ovviamente queste erano riflessioni egoistiche, ma mi trovavo in una posizione scomoda. La domanda era: qual era la cosa giusta da fare? Mi dissi che mio fratello poteva tornare in qualsiasi momento, e dopo non feci che pensare a cosa gli avrei detto. Mi venne in mente che avrei dovuto congratularmi con lui, ma mi sembrava una cosa indelicata. Non mi ero ancora deciso, quando lo sentii venire giù. Rideva e scherzava in un modo che mi sembrava frivolo, considerate le circostanze. Quando la sua mano toccò la porta, mi fiondai sul libro e mi misi a leggere con la massima concentrazione. Quando entrò, camminava un po’ impettito, ma il sussiego svanì non appena lo sguardo gli cadde su di me. Immagino che fosse sceso per raccontarmi, ma ora non sapeva da dove iniziare. Fece avanti e indietro per la stanza, senza sosta; lui guardava me mentre andava in una direzione, e io guardavo lui quando andava nell’altra. Alla fine si sedette di nuovo e prese il libro. Non provò a fumare. Quel silenzio era qualcosa di terribile. Non si sentiva niente, salvo sporadici pezzi di carbone che cadevano dal focolare. Questo durò, diciamo, venti minuti, poi lui chiuse il libro e lo lanciò sul tavolo. Capii che il gioco era finito, quindi chiusi Anne Judge, la zitella. Poi lui disse, con leziosa giocosità: «Dunque, giovanotto. Sai, sei diventato zio». Ci fu di nuovo silenzio, perché stavo ancora cercando di pensare a qualche commento appropriato.

    Dopo un po’, con voce debole dissi: «Maschio o femmina?».

    «Femmina» rispose. Poi mi sforzai di pensare di nuovo, e all’improvviso mi tornò in mente una cosa.

    «Stanno entrambe bene?» sussurrai.

    «Sì» disse con serietà. Sentivo che ci si aspettava qualcosa di importante da me, ma non potevo balzare in piedi e stringergli la mano. Ero uno zio. Allungai il braccio verso la scatola di sigari e con decisione accesi il mio primo sigaro.

    La miscela Arcadia

    ENG

    Si fa buio, è il momento in cui il portiere accende la lampada sulle scale. Scompare nel suo bugigattolo. La pensione è già così quieta che il tocco di una pipa su un davanzale fa trasalire tutti i passeri del cortile. Gli inquilini della mia scala sono usciti dalle loro tane. Scrymgeour, in vestaglia, apre la porta del suo salottino al primo piano e sale su pigramente. Il volto sentimentale e la pipa d’argilla con una crepa sono di Marriot. Gilray, che finora ha provato la sua parte nella nuova originale commedia in islandese, smette di brontolare e attraversa lentamente il suo buio corridoio. Jimmy appende un messaggio alla porta, Fuori per lavoro, e viene da me. Ben presto siamo di nuovo tutti nella vecchia stanza: Jimmy sul tappeto del camino, Marriot sulla poltrona di giunchi. Le tende sono attaccate una all’altra con un pennino e tutti e cinque fumiamo la miscela Arcadia.

    Pettigrew è il benvenuto se ci raggiunge, ma è un uomo sposato e ormai lo vediamo di rado. Altri sarebbero considerati come degli intrusi. Se fumano tabacco comune, possono provare il nostro oppure andarsene. Basta infilare la testa dentro la mia stanza per capire che esistono due categorie di tabacco, l’Arcadia e tutti gli altri. Nessun fumatore di Arcadia tenterebbe di descriverne le delizie, perché la sua pipa finirebbe di certo per spegnersi. Quando era a scuola, Jimmy Moggridge si fumò una sedia di giunchi, e da allora ha sempre detto che il passaggio dal giunco alle miscele normali non è così notevole come quello dalle miscele ordinarie all’Arcadia. Non chiedo a nessuno di crederci, perché il fumatore incallito di Arcadia detesta dibattere con chiunque di qualsiasi cosa. Se volessi provare la dichiarazione di Jimmy, vi darei semplicemente l’indirizzo a cui vi potete procurare l’Arcadia. Ma non lo farò. Sarebbe avventato come proporre che un tizio che conosco appena entri a far parte per il mio club. Potreste non essere degni di fumare la miscela Arcadia.

    Anche mi affezionassi a voi, potrei non volermi prendere la responsabilità di introdurvi all’Arcadia. Questa miscela ha un effetto straordinario sul carattere, e magari voi volete restare come siete. Prima che scoprissi l’Arcadia, e che informassi gli altri cinque – incluso Pettigrew – avevamo tutti personalità distinte, ma ora, eccetto che all’apparenza – e l’Arcadia influisce anche su questo – siamo tutti uguali, come foglie di agrifoglio. Abbiamo le stesse abitudini, lo stesso modo di vedere le cose, lo stesso appagamento l’uno nell’altro. Ovviamente non siamo ancora del tutto identici – in realtà è questo che voglio dimostrare – ma in determinate circostanza probabilmente faremmo la stessa cosa e, per di più, sarebbe quello che altra gente non farebbe. Quindi, quando siamo insieme ci distinguiamo solo per la pipa, ma ciascuno di noi, in compagnia di persone che fumano altri tipi di tabacco, sarebbe considerato sommamente originale. Sarebbe come un muso giallo in Europa.

    Se vi trovate in compagnia di un uomo che ha le proprie idee e non è timido, eppure si rifiuta totalmente di essere trascinato nella conversazione, potreste classificarlo come uno di noi. Fra i primi effetti dell’Arcadia c’è quello di far smettere di ciarlare. Un tempo Gilray aveva la fama di essere un oratore talmente brillante, che gli arcadiani gli chiusero tutte le porte, invece adesso può essere invitato ovunque. L’unica responsabile del cambiamento è l’Arcadia. Forse io sono il più silenzioso del gruppo e le padrone di casa di solito pensano che sia timido. Chiedono alle altre donne di stimolarmi, e quando queste vedono che sono senza speranza come un disegnatore immusonito, mi giudicano stupido. Potrebbe essere vero, ma non me la prendo perché fumo la miscela Arcadia e, quindi, le offese mi scivolano addosso.

    Mi espongo volontariamente per dimostrare quanto ci rende reticenti l’Arcadia. Ho dei legami con Nottingham e ogni volta che qualcuno mi nomina Nottingham, con un certo luccichio negli occhi, so che vuole parlare del commercio di merletti. Ma è curioso come l’interlocutore aggressivo confonda costantemente Nottingham con Northampton. «Oh, lei conosce Nottingham» dice con fare interessato. «E che ne pensa di Labouchere come membro del Parlamento?» Pensate che mi indisponga? Mi immaginate a morire dalla voglia di dire che il signor Labouchere è un candidato di Northampton? Mi ci vedete ad affrettarmi a spiegare che il signor Broadhurst è uno dei candidati di Nottingham e che gli Agnelli sacrificali di Nottingham sono famosi nella storia delle elezioni politiche? Mi immaginate a spiegare che ha perfettamente ragione a dire che Nottingham ha un grande mercato? Mi ci vedete trascinato in una mezz’ora di chiacchiere su Robin Hood? Non sono fatto così. Mi limito a rispondere che il signor Labouchere è molto gradito. Si potrebbe dire che non ci guadagno nulla da questo, che l’interlocutore è curioso riguardo a Northampton quanto lo sarebbe stato di Nottingham, e che Bradlaugh, Labouchere e compagnia bella sarebbero utili al suo scopo quanto Broadhurst, merletti e Robin Hood. Ma non è così. Iniziando a spron battuto con Northampton, improvvisamente gli passa per la mente di aver confuso Northampton con Nottingham. «Devo essere impazzito!» commenta. Io mantengo un rigoroso silenzio. Lui è contrariato. La mia esperienza con i conversatori mi dice che nulla li contraria quanto un granchio del genere. Dall’educato gelo con cui ho incassato i commenti del conversatore, lui capisce che opinione ho di essi, e dopo di ciò, se ha qualcuno accanto, mi lascia in pace.

    È stato detto abbastanza per dimostrare che la regola aurea dell’arcadiano è stare attento a ciò che dice. Ciò non significa che non debba dire nulla. Per come la società è costituita attualmente, ogni tanto si è costretti a fare qualche commento. Ma non va fatto in maniera precipitosa. Da qualche parte si è detto che sarebbe bene che le persone loquaci contassero fino a venti, o ripassassero l’alfabeto, prima di lasciar andare l’affermazione che gli sporge dalle labbra. Il non conversatore non trova alcun gusto in un esercizio non intellettuale di tale genere. Allo stesso tempo non deve esitare troppo, poiché, ovviamente, introdurre l’argomento va a suo vantaggio. Dovrebbe pensare a un argomento sul quale l’interlocutore non sarà in grado di fare molto. Iniziare con la neve che cade, o il numero di tonnellate di tacchini consumati a Natale, come riportato nel Daily Telegraph, sarebbe come andare incontro al proprio destino. Se sei è a una cena di soli uomini, prendi da parte il padrone di casa e con poche frasi ben calibrate cerca di scoprire fra quali tipi di uomini sarai seduto. Magari uno di loro è un viaggiatore africano. Saperlo ti eviterà di cadere nelle sue mani facendo riferimento ai giornali, che sono pieni della liberazione di Emin Pascià. Queste domande preliminari ti salveranno anche dal parlare del signor Chamberlain a un vicino che poi si scopri essere figlio di un elettore di Birmingham. Concedigli una possibilità e non ti riferirà solo tutte le voci che circolano a Birmingham, ma anche ciò che i singoli elettori hanno detto sul signor Chamberlain al banchiere o al sarto, e ciò che ha fatto il droghiere quando sono state indette le votazioni, con dettagli sull’antichità di Birmingham o su dove si può pescare nei dintorni. Ciò che devi fare è parlare di Emin Pascià con quest’uomo, e del signor Chamberlain con il viaggiatore, premurandoti ovviamente di farlo a bassa voce. In questo modo puoi ottenere una relativa pace. Ovviamente tutto dipende dallo spessore dei tuoi vicini. Se sono d’accordo nel considerarti un valido antagonista, e quindi di giocare pulito, la vittoria andrà a chi la merita. Vale a dire al più abile dei due. Ma i conversatori, di regola, non giocano pulito. Considerano gli uomini silenziosi come loro prede. Da qui si capisce che faccio distinzioni fra i conversatori, ammettendo che alcuni sono peggio di altri. Il peggiore nella scala sociale è quello che ti pugnala alle spalle, invece di incrociare le spade. Se uno dei signori che ti sono stati presentati appartiene a questa tipologia, non si farà scrupoli a dire: «A proposito di Emin Pascià, mi domando se al signor Chamberlain interessi la spedizione per la sua liberazione. Non so se le ho detto che mio padre…» ed eccolo lì, fieramente a cavallo. Raramente si riesce a portarlo su altri terreni. Meglio passare al viaggiatore e lasciargli descrivere le diverse rotte per le Province equatoriali egiziane con le sue opinioni al riguardo. Concedigli persino di disegnare sulla tovaglia una cartina dell’Africa con una forchetta. Un conversatore di questo tipo è troppo concentrato sul suo argomento per cimentarsi nel rispondere a domande, quindi non ti darà troppo fastidio. Sarà rovinata la sua cena, non la tua. Tratta allo stesso modo del conversatore su Chamberlain il tizio seduto dall’altra parte, che esordisce con: «Uomo di spessore, il signor Gladstone».

    Nella mia stanza c’era un ventilatore che a volte faceva cric, cric, ricordandoci che nessuno parlava da un’ora. Di tanto in tanto, tuttavia, avevamo intervalli dialogati quando Gilray raccontava di nuovo – sebbene non quanto intendo farlo io – la storia della sua prima fumata di Arcadia, oppure quando Scrymgeour, l’uomo di mondo, ci faceva l’elenco di posti famosi dell’Europa in cui aveva fumato. Però, di norma, nessuno di noi prestava molta attenzione a ciò che dicevano gli altri, e dopo l’ultima pipa la stanza si svuotava – a meno che Marriot non insistesse per trattenersi e annoiarmi con i suoi scrupoli – e uno dopo l’altro si mettevano la pipa in tasca e uscivano in silenzio.

    Le mie pipe

    ENG

    All’interno di un selezionato gruppo di dileggiatori, la mia pipa di radica era conosciuta come la Sirena. Il bocchino era un supporto per sigarette, e ci volevano mesi di assidua pratica prima di trovare l’angolazione giusta che non facesse cadere il fornello.

    Questo mi porta a uno dei molti vantaggi che la mia pipa aveva rispetto a tutte le altre. Mi ha fatto guadagnare la nomea di galantuomo, a cui senza la pipa temo non avrei potuto aspirare. Un tempo avevo una passione per le battute di spirito, specialmente in compagnia

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