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La migrazione annuale delle nuvole
La migrazione annuale delle nuvole
La migrazione annuale delle nuvole
E-book161 pagine2 ore

La migrazione annuale delle nuvole

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Info su questo ebook

Dopo una serie di catastrofi climatiche, il mondo non è più quello di una volta: il cibo scarseggia, l’industria si è estinta e i disastri ambientali hanno lasciato poco dietro di sé. Per di più è arrivato il Cad, un misterioso fungo che altera la mente e invade i corpi. Reid, una giovane donna infestata da questo parassita, ha la possibilità di iniziare una nuova vita in uno degli ultimi avamposti della società pre-catastrofe, ma non riesce ad abbandonare sua madre e la comunità che conta su di lei.
Quando le viene proposto di prendere parte a una missione pericolosa ma redditizia, che potrebbe assicurare alla sua famiglia una vita dignitosa, accetta senza esitare. Ma come può Reid chiedere agli altri di riporre fiducia in lei, quando non riesce a fidarsi nemmeno della sua stessa mente?
In questa novella hopepunk, prima di una serie, Premee Mohamed si sofferma sul significato di comunità e su cosa dobbiamo a chi ci ha cresciuto.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2023
ISBN9788831982979
La migrazione annuale delle nuvole
Autore

Premee Mohamed

Premee Mohamed is a Nebula, World Fantasy, and Aurora award-winning Indo-Caribbean scientist and speculative fiction author based in Edmonton, Alberta. She is an Assistant Editor at the short fiction audio venue Escape Pod and the author of the 'Beneath the Rising' series of novels as well as several novellas. Her short fiction has appeared in many venues and she can be found on Twitter at @premeesaurus and on her website at www.premeemohamed.com. She is represented by Michael Curry of DMLA.

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    Anteprima del libro

    La migrazione annuale delle nuvole - Premee Mohamed

    Uno

    Non ne parli; non gli dai neppure un nome. Ce li avranno di sicuro dei nomi per chiamarsi tra loro. Non so come si chiami il mio, e se anche me lo dicesse proverei a dimenticarmelo, giuro. Non come coi nomi segreti dei cani; quelli volevo scoprirli a tutti i costi quando ero piccola.

    Il nome sulla busta, invece, è il mio, non c’è dubbio, stampato in nero e ben leggibile sulla carta immacolata che trema ben stretta tra le mie dita. Stampato, a macchina. Dentro la busta, la lettera e il rigonfiamento. Proprio come dicono le storie.

    Come se si sforzasse di leggere cosa c’è scritto, l’essere innominato che traspare sotto l’unghia del mio pollice si contorce in intrecci perfetti, minuscoli alberi verdi e blu. Aggraziati come rami in inverno. La sua unica manifestazione piacevole alla vista, eppure certe volte mi coloro lo stesso le unghie con le bucce delle bacche di saskatoon, così i disegni non si vedono.

    Ma non serve a niente. Lui fa in modo che tu lo veda. Sempre.

    «Reid!»

    Mi giro: il mio amico Henryk sale di corsa i gradini neri d’ardesia, senza fiato, i capelli davanti alla faccia. Si ferma di colpo, portando con sé gli odori del disgelo – fango, muffa della neve, acqua stagnante. «Ehi! Quello cos’è? Ascolta, hanno preso…»

    «Hanno?»

    «Loro, dai. Le Bandiere e gli altri. Hanno preso il tizio che dava fastidio ai ragazzini l’anno scorso!»

    Fastidio. Non ce la fa, né lui né io riusciamo a pronunciare quella parola. «Lo hanno preso davvero?»

    «Sì, lo tengono legato in cortile».

    «Hen, sei proprio un…» Chiudo gli occhi un secondo. «Dico, hanno preso quello giusto?»

    «Ah, quello. Non lo so. Penso di sì». Esita, e aggiunge poco convinto, di fronte al mio silenzio: «L’hanno legato. L’ho visto».

    Mi guardo di nuovo le mani, tutto il paesaggio in miniatura. Carta bianca, inchiostro nero, alberi verdi sotto le unghie. L’essere si è placato per ora: ci ascolta, troppo preso per agitarsi. «Ma lo impiccheranno?»

    «Probabile».

    «Che schifo». Esito, perché la risposta non è importante, però devo chiederlo comunque. «Quel tizio è… Lui ha…?»

    «Il Cad? No».

    «Cazzo».

    Gli occhi di Henryk sono grandi, leali, di un colore sporco e indefinibile, come il cielo. Dice lui quello che sa che io non riesco a dire: «Però certe volte mi piacerebbe che se lo potesse beccare da qualcuno, sai? Certa gente. Che se lo merita».

    So che non parla di me quando dice qualcuno. Mi evita di restarci male.

    A ogni modo sappiamo tutti e due che non è possibile. Il Cad non si trasmette. Compare spontaneamente: e poi, implacabile, silenzioso, viaggia attraverso i geni come acqua che cerca il livello più basso. Un simbionte ereditario, lo chiamavano. Una volta, una soltanto, ho urlato a Henryk, Ma non è vero, è un parassita del cazzo, e il dolore che mi è esploso dentro è stato qualcosa di indescrivibile. Come mi immaginavo sarebbe venire colpita da un fulmine. Niente più vista, niente più udito, un biancore roboante; ero come infilzata dalla gola ai talloni su un’asta di metallo fuso scagliata da un dio. Non l’ho ripetuto mai più.

    Quest’essere è un pezzo di me, ma non mi appartiene. È una cosa a sé. Ha una lingua propria. Un fungo semi-senziente che disegna ghirigori a colori pastello sulla mia pelle e su quella dei miei antenati, turchese, verde azzurro, blu ceruleo, verde pino. Lo immagino mentre ci ascolta, avido, bevendosi a piccoli sorsi la mia felicità. Una smorfia d’odio mi storce il viso prima che riesca a ricacciarlo giù.

    «Stai bene?» chiede Henryk, come se non ci fossimo appena detti ad alta voce che la peggiore punizione per un pedofilo sarebbe prendersi la mia malattia. «Pensi… Pensi che stia…?»

    «Peggiorando? Non credo».

    «Ma lo sapresti».

    «Sì. Te lo fa capire». Non ci voglio più pensare. Su, cambiamo argomento. Non è difficile, col colpaccio di stamattina. «Guarda cosa mi è arrivato».

    «Oh, cazzo. Oh, cazzo. Ma è… Non è possibile!»

    Vederlo scioccato è una soddisfazione. Non pensavo che l’avrei detto a lui per primo, però volevo raccontarlo a qualcuno. Mi accorgo che sono contenta che sia Henryk. Ogni emozione filtra da lui come il sole da una finestra, non può farci niente, non ha ombre dentro di sé.

    «Ma com’è possibile?!» Mi getta goffo un braccio intorno alle spalle, facendomi sobbalzare e quasi cadere dal gradino. «Reid! Oddio! Ti hanno ammessa! Ma tu pensa! Ti hanno ammessa! Ma lo sai quante probabilità c’erano? Sai che…?»

    «In realtà, me l’hanno scritto nella lettera. Vedi?» Spiego il foglio crepitante, Gentile signorina Reid Graham, abbiamo ricevuto la sua richiesta di iscrizione alla Howse University e siamo lietissimi di darle conferma della sua ammissione, e glielo passo. Ha le dita nere di terra, ma la carta non sembra badarci: resta intonsa.

    Henryk ha la faccia avvampata come sento la mia. Siamo rossi e agitati, una volta si diceva una ricchezza imbarazzante, e solo adesso che nessuno è ricco capiamo cosa vuol dire. Cerco di paragonarla a qualche altra cosa, una sola, che mi sia mai successa nella vita, ma non ci riesco: è una sensazione che non ricordo di aver mai provato. Il cuore mi batte così veloce che lo sento in gola.

    «La carta», sussurra Henryk.

    «È molto strana».

    «È molto strana».

    Il primo indizio che si tratta di qualcosa fuori dalla nostra portata è il materiale. L’unica carta non usata che abbiamo mai visto è grigia, granulosa, rigida, riciclata cento volte. Da quanto ho letto nei libri, anche quelli stampati su fogli vecchissimi dall’aria ancora incredibilmente nuova, so che si può ricavare dagli alberi. Ma adesso nessuno si azzarda a fare niente con gli alberi: sono troppo giovani e troppo pochi, e quindi troppo preziosi, per ucciderli in nome di frivolezze come la carta.

    E questa non è carta. C’è scritto – a inchiostro vivace, in tono di meraviglia – che è seta di ragno generata da batteri ogm, trattata, purificata. Niente di questa frase è umanamente possibile. Questo materiale, questa superficie bianca intonsa, luminescente addirittura, è la prova fisica che da qualche parte esiste un mondo migliore – trasportata per migliaia di chilometri passandone chissà quante, e ancora pulita come neve fresca.

    E poi c’è la parte migliore: «Vieni un secondo». Filiamo giù per i gradini e ci tuffiamo nel mercato, zigzaghiamo tra bancarelle, stufe, striscioni, tendoni, coperte, scaffalature, finché non troviamo una nicchia bassa sul retro. Non ci sono finestre, ovvio, siamo nel seminterrato del palazzo, ma tutti tengono le lampade accese, e quello che voglio fargli vedere sarà ancora più impressionante se c’è buio pesto. «Prova a strapparla».

    «Che? No. Non ci penso. È la tua lettera di ammissione».

    «Fidati».

    «Fidarmi», ripete. «Ti ricordi quando mi hai detto che quel nido di vespe all’angolo di St. Joseph era un—»

    «Sono passati anni. Mi perdonerai, prima o poi?»

    «No. Ti odierò finché vivo».

    Ci stringiamo nell’angolo, schermiamo la luce coi nostri corpi, e io tiro un lembo della lettera con tutte le forze.

    Si strappa, ma con riluttanza – come cartilagine. Per una frazione di secondo la luce sboccia sui bordi della carta, e poi lentamente, con aria di rimprovero, i lembi si risaldano insieme, i filamenti si cercano, si avvinghiano dai due confini dell’abisso. Sulla punta delle mie dita, sembrano come passi di formiche. La luce mi attraversa le mani e dipinge paesaggi in miniatura, cieli rossi di pelle e sangue, alberi neri dove il bagliore non riesce a trapassarla.

    «Oooooooooh, cazzo. Ma si illumina da sola!»

    «Tu lo hai detto, Caifa», gli sussurro in risposta. «È arrivata prima dell’alba, ed è stato… Non ci credo. Non ci credo».

    Sii naturale: appoggiati al muro. Proviamo a capirci qualcosa, ad aprire la mente per dare un senso a tutto questo, ma senza successo; non posso credere di essere diventata così limitata. Persino l’inchiostro è un miracolo, nero e nitido. Sulla nostra carta grigia e ruvida noi usiamo tinture di radici. Il nostro è un mondo a bassissimo contrasto, che va osservato con attenzione e che diventa ogni giorno più sfocato. I bambini si lamentano della vividezza dolorosa dei loro libri di scuola recuperati dalla spazzatura: Le scritte sono troppo accese, dicono. Mi fanno male agli occhi. E questo per nient’altro che carta vecchia, che non si illumina da sola.

    «Quindi come funziona? L’università manda qualcuno a prenderti? Pensavo che non lasciassero mai le cupole».

    «Non credo lo facciano. Altrimenti sarebbero in giro a reclutare studenti, no? Mi hanno mandato un piccolo localizzatore – sembra un, tipo un, be’…»

    «Posso vedere?»

    Glielo poso sul palmo sporco: una sfera d’argento dall’aria poco appariscente, grande come una nocciola, appesa a un cordoncino leggero di uno strano materiale. A livello del suo equatore pulsa una minuscola luce blu, seguendo un istinto o un ordine che non possiamo percepire. «Va attivato quando si oltrepassa il segnale della Zona, e poi vengono a prenderti».

    Me lo restituisce, impressionato. «Così possono restare nascosti o quello che è».

    «Penso». Nascosti o quello che è: capisco cosa vuole dire, comunque. Nascosti, non come la nostra aiuola di fragole privata, ma come le scuole di magia nei vecchi libri. Mistero, potere, sapere esoterico, e tutte le ricchezze che ne derivano. Scienza concreta, ma che adesso non ha niente di diverso dalla magia, perché non possiamo replicarla, che è poi, ci hanno insegnato, il punto stesso della scienza: ri-cerca, come a dire qualcosa che si può trovare di nuovo.

    Invece la lettera di ammissione dice: in cosa credi? E il localizzatore dice: credi in me.

    Dice anche un’altra cosa: anche noi crediamo in te. Perché confidano nel fatto che riuscirò ad arrivare alla Zona da sola, e in poco meno di due settimane. Così o niente. Alcuni direbbero che è una pretesa. Per me, significa fiducia nelle mie abilità, nella loro scelta.

    Mi tremano le mani. Henryk ride, non di me ma di gioia, impressionato, aggrappato distrattamente alla manica del mio giubbotto come faceva quando eravamo piccoli. Guardiamo il mercato prendere vita: si aprono i chioschi, si srotolano i tendoni. Una mattinata qualunque. Risate. Ragazzini che saltellano ovunque come passeri.

    È tutto così assurdo; quando stamattina ho aperto la busta sono scoppiata a ridere forte da sola, per istinto, come una tosse. Ero così incredula che pensavo fosse meglio che nessun altro ne sapesse niente. È uno scherzo, una presa in giro, una favola. Che sia proprio io Cenerentola, a diciannove anni, che spazza e balla e canta agli uccellini tra le rovine fatiscenti di una città e di un pianeta in ginocchio, infettata dalla malattia più strana che si sia mai vista, e che un giorno arrivi una creatura di luce ad agitarmi una bacchetta magica in testa: Vai al ballo. Ecco il vestito.

    «A tua madre sarà preso un colpo».

    Il cuore mi striscia in gola e si ferma lì. «Ancora non gliel’ho detto».

    «Oddio! Davvero? Ti accompagno io». Esita un attimo prima di avviarsi, e aggiunge: «Che brutto che…»

    Lo so. Lo so. Nel suo silenzio, che a qualcuno che ci ascoltasse da fuori potrebbe sembrare imbarazzato o incerto, sento quello che vuole dire: a rovinare questo giorno è il fatto che la persona che ne sarebbe più orgogliosa non è qui. Siamo orfani di chi amavamo e non è più con noi.

    Due

    Abitiamo al Centro di Scienze Biologiche; è strano, lo so perché l’ho letto, ma che altro avrebbe potuto fare la gente? A quanto pareva, nessuno aveva immaginato con esattezza un’esistenza in cui sarebbe stato impossibile sopravvivere se non vicino a un fiume in un palazzo ben solido, figurarsi zonizzare quartieri per quando fosse accaduto davvero. E l’università aveva ancora tutte queste caratteristiche quando la generazione di Nonna era stata costretta a cercarsi un rifugio, e così eccoci qui. Finché hai un tetto sopra la testa niente è perduto, dice sempre Mamma. Non è una tragedia. Non se il lupo arriva alla casa dell’ultimo porcellino e scopre che per quanto soffi non riesce a buttarla giù.

    Depredato e saccheggiato tanto tempo fa, il nostro castello di mattoni bruni e

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