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Fantascienza - romanzo (186 pagine) - Tra realismo magico e la fantascienza più classica, la reazione dell’uomo di fronte allo straordinario.


Nei cieli di tutto il mondo appaiono all’improvviso oggetti giganteschi che rilasciano una sostanza verde capace di guarire da ogni malattia. Nonostante questo, le ordinarie esistenze degli esseri umani continuano: due coppie di amici in un safari imprevedibile; Vito e la sua vocazione al crimine; Marco vittima della cattiveria del fratello; Loris e la sua rabbia irrefrenabile; Emanuele e l’amata casa all’isola d’Elba. Come non bastasse, animali e bambini cominciano a comportarsi in modo strano…

Tra realismo magico e la fantascienza più classica, Massimo Gardella ci racconta della reazione umana allo straordinario, e dell’ambiguità del concetto stesso di “vita”.


Massimo Gardella (Milano, 1973). Scrittore e traduttore. Il suo primo romanzo (di fantascienza) è Il Quadrato di Blaum (Cabila, 2009), a cui sono seguiti gli pseudo noir dell’ispettore Remo Jacobi, Il male quotidiano (Guanda, 2012), Chi muore prima (Guanda, 2013) e il racconto Il trofeo nell’antologia Un inverno color noir (Guanda, 2014), oltre al racconto Storia di un giovane soldato nel mosaic novel Cronache dalla polvere (Bompiani, 2019) con il nome collettivo di Zoya Barontini. Tra le sue traduzioni: la trilogia di Vorrh di Brian Catling (Safarà Editore), Jerusalem di Alan Moore (Rizzoli Lizard, 2017) e alcuni romanzi e i racconti della nuova edizione del Libro del Nuovo Sole di Gene Wolfe (Mondadori, 2023).

LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2023
ISBN9788825426588
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    Anteprima del libro

    Invasione - Massimo Gardella

    invasióne s. f. [dal lat. tardo invasio-onis, der. di invadĕre «invadere»]. – 1. a. Ingresso nel territorio di uno stato da parte delle forze armate di uno stato belligerante, per compiervi operazioni belliche, con o senza l’intenzione di occuparlo stabilmente; b. La penetrazione in un territorio di popoli che migrano in cerca di nuove sedi; c. Irruzione violenta o arbitraria di persone in un luogo, considerata come reato contro la pubblica economia o contro il patrimonio, quando sia fatta con lo scopo di occuparli o di trarne altrimenti profitto; scherz.: quando molte persone, per lo più amiche, entrano inaspettatamente tutte insieme in un luogo. In giochi a squadra: irruzione degli spettatori sul terreno di gioco durante o alla fine di una partita, per protesta o effettuata per entusiastica acclamazione dei giocatori della propria squadra. 2. a. In relazione ai sign. estens. e fig. di invadere, di qualsiasi cosa che irrompa in un luogo occupandolo o diffondendovisi in gran quantità. Raro col senso di usurpazione, ingerenza arbitraria e sim.; b. In patologia, la diffusione nell’organismo di agenti infettivi.

    Vocabolario Treccani della Lingua Italiana

    Tutto ciò che desideriamo è vivere fino alla fine del nostro ciclo,

    i giorni della nostra razza,

    in pace e armonia.

    Barry Malzberg, Oltre Apollo (1972)

    1. Safari

    Non avrebbero potuto chiedere di meglio per il loro primo safari. Arrivati al quarto e ultimo giorno, potevano dirsi più che soddisfatti dell’esperienza. Persino David, come si faceva chiamare per comodità la guida che li aveva scarrozzati in lungo e in largo per la riserva kenyana del Masai Mara, si era complimentato per la loro fortuna: il primo giorno, dopo un paio d’ore attraverso la savana tra giraffe, zebre e gazzelle di Thomson, David aveva fermato di colpo la jeep e si era messo a scrutare l’orizzonte con un binocolo, poi lo aveva passato ai turisti indicando una macchia scura a circa duecento metri da loro. Con un po’ di fatica alla fine lo avevano visto: un rinoceronte nero dalla testa possente e il lungo corno.

    David spiegò in un Inglese abbastanza comprensibile che era un esemplare anziano, uno degli ultimi trenta di quella specie braccata e in via d’estinzione. Quando i turisti chiesero di avvicinarsi, lui scosse la testa e rispose alla radio che continuava a gracchiare. Scambiò qualche battuta in lingua maa poi rimase in silenzio mentre i passeggeri si passavano il binocolo. Un’altra jeep apparve come un puntino bianco in lontananza e si fermò anch’essa a debita distanza dal raro animale. David disse che era rischioso avvicinarsi oltre, il rinoceronte poteva caricare il loro mezzo con risultati che nessuno voleva davvero scoprire. Nella stessa giornata avevano visto altri due dei Big Five, i cinque animali tra i più difficili e pericolosi da avvistare a distanza ravvicinata in un safari; si erano imbattuti in una mandria di bufali e anche in questo caso la guida aveva mantenuto la distanza di sicurezza; i maschi adulti avevano già puntato il Land Rover in avvicinamento e si erano disposti a protezione delle femmine e dei piccoli. David confessò di essere stato attaccato da un cafro in un paio d’occasioni e di averla scampata per miracolo.

    Prima di rientrare al lodge, alla fine della giornata fruttuosa avevano anche assistito alla migrazione degli gnu verso il parco confinante del Serengeti in Tanzania (peccato, spiegò David, che per colpa della siccità quell’anno il fiume fosse sgombro dei coccodrilli che aspettavano al varco le bestie per abbatterle e dilaniarle nelle acque limacciose) e avevano scovato tre ghepardi che si cibavano dei resti inclassificabili di un animale, rosicchiando e scarnificando i pochi brandelli di carne rimasti sulla carcassa. Erano solo a un paio di metri dagli animali che ignoravano la loro presenza; lanciavano occhiate fugaci e sospettose mentre strappavano bocconi di carne rossa, mostrando le zanne spruzzate di sangue. Lo spolpamento dei resti era compiuto con l’istinto basilare della sopravvivenza e del sostentamento, con una foia priva di cattiveria, che David puntualizzò come un sentimento quasi del tutto sconosciuto nel mondo animale. Il Masai spiegò che i ghepardi potevano superare i cento chilometri orari, ma solo per pochi secondi perché lo sforzo li surriscaldava rischiando di ucciderli. Era per questo che a volte cacciavano in gruppo, perché dopo l’abbattimento della preda erano vulnerabili agli altri predatori, leoni e leopardi in particolare, e dovevano riposare qualche minuto prima di potersi difendere. Disse che i ghepardi non erano tra i predatori più aggressivi nei confronti dell’uomo; i rari casi segnalati riguardavano reazioni istintive di esemplari feriti nei confronti dei soccorritori umani, e avvenivano nelle strutture che ospitavano gli animali prima di essere reintrodotti nel loro habitat naturale, e aggiunse che l’animale con il record più alto di vittime tra i visitatori del parco era in realtà l’ippopotamo. I ghepardi erano sempre meno numerosi, le loro abitudini di caccia diurna compromesse proprio dall’intrusione dei turisti.

    Nei giorni successivi la fortuna continuò a sorridere ai quattro amici: David seguì le indicazioni via radio di un’altra guida che aveva segnalato due leonesse in caccia nel loro quadrante della riserva. Arrivarono quando i maestosi felini avevano già abbattuto una zebra, e assistettero a una scena che scambiarono per un comportamento di rispetto quasi umano: la zebra atterrata respirava ancora, la leonessa più giovane teneva bloccata la testa della preda con una zampa e intanto la leccava con un piglio che poteva essere erroneamente scambiato per affetto. La leonessa più anziana era seduta come una sfinge a un passo e puntava lo sguardo sul crinale poco più in là, dove il resto delle zebre era radunato a osservare gli ultimi istanti di vita del loro simile. A un certo punto, la leonessa giovane aveva azzannato il collo della zebra e l’aveva stretto tra le fauci finché non era morta, poi si era fatta da parte lasciando che l’anziana si cibasse per prima. Il particolare più terrificante della scena non era la mattanza della zebra in sé, ma il rumore delle zanne che scalfivano ossa e tessuti molli, come se avessero amplificato un pasto di due gatti affamati. Le leonesse, come i ghepardi, non badarono alla presenza umana a qualche metro da loro e dopo un po’ David ripartì.

    Quella sera, tornati al lodge, le due coppie di amici cenarono con gli altri ospiti attorno al grande falò acceso nello spiazzo comune della struttura, gestita da una cooperativa di Masai. Era composto da una dozzina di tende, disposte in una radura cinta da un’alta palizzata di legno (i Masai andavano fieri della presenza di un anziano leone che si aggirava di notte intorno al perimetro del campo), inoltre una pozza d’acqua poco lontano garantiva avvistamenti improvvisati degli animali che andavano ad abbeverarsi. Alcuni Masai parlavano un discreto Inglese, soprattutto le guide e quelli che si occupavano delle prenotazioni e dell’accoglienza, e raccontarono agli ospiti curiose tradizioni locali come il rito della caccia al leone come passaggio all’età adulta, oltre a rivolgere domande ingenue e pittoresche ai turisti: in Europa c’erano le mucche? Era abitudine anche nel Vecchio Continente bere sangue di toro per rafforzare gli anticorpi? Tutti i turisti, anche chi non era nuovo all’esperienza di un safari, concordavano sulla sensazione di trovarsi su un altro pianeta, un mondo alieno reso ancora più credibile quando i Masai indicarono agli ospiti intorno al fuoco di fare silenzio, puntando il dito verso la recinzione: un paio di metri sopra i pali di legno si profilavano le silhouette appena accennate di tre lunghi colli, una famigliola di giraffe curiose venute a dissetarsi alla pozza che li spiava dal buio totale della notte africana.

    Il terzo giorno visitarono un villaggio Masai, dove osservarono le attività quotidiane e la produzione di formaggio di capra con metodi antichi, primitivi per chi era abituato a trovarlo confezionato negli scaffali dei supermercati. L’unica nota fuori luogo era lo smartphone di ultima generazione che faceva capolino dalle pieghe della tunica di un vecchio Masai, alto e secco, che impugnava fieramente la sua lancia tribale rivolgendo occhiate di sdegno verso gli occidentali. Il pomeriggio fecero un giro della riserva a bordo di una delle mongolfiere gonfiate in un’area apposita fuori dal lodge. Sebbene suggestivo, sorvolare il parco non era certo come attraversarlo sul Land Rover. Il particolare che rendeva unica l’esperienza a terra, oltre all’emozione di osservare più da vicino gli animali allo stato selvatico, era l’odore che ti restava appiccicato addosso, sui vestiti e sul corpo, anche dopo esserti strofinato a lungo con il sapone sotto la doccia. Era una fragranza quasi indescrivibile: un misto di terra, pioggia, legno, sterco, sudore animale, carne e sangue che riportava a un’età del mondo in cui l’evoluzione umana non era ancora prevista. Era difficile trovare un confronto diretto con quell’odore, che definire puzza era corretto e sbagliato al tempo stesso: certe zaffate potevano fare arricciare il naso ma c’era una sottotraccia sconosciuta e misteriosa, quasi gradevole nella sua purezza, in quelle scie che si insinuavano nelle narici.

    La mongolfiera si librava nell’aria fredda ma abbagliata dal sole ustionante, passando sopra bufali, gnu, gruppi più o meno numerosi di elefanti e giraffe, forse gli animali più curiosi tra quelli che avevano visto, soprattutto per i movimenti ipnotici durante la corsa: il collo elegante e affusolato con la piccola testa che ondeggiava mentre la parte inferiore del corpo, squadrata e massiccia, sembrava eseguire un moto indipendente insieme alle zampe sottili. Era strabiliante che riuscissero a reggere il peso di quella bestia fantastica. La vista da lassù era mozzafiato, ma vedere tutte le altre jeep cariche di turisti che solcavano i sentieri sterrati della riserva toglieva un po’ della magia, dell’illusione speciale di sentirsi novelli esploratori che per primi avevano scoperto un continente sconosciuto.

    L’ultimo giorno del safari iniziò poco prima dell’alba. Carlo uscì dalla tenda che era ancora buio e s’incamminò puntando la torcia dello smartphone sul sentiero. David lo aspettava con l’altra coppia di amici nello spazio adibito a rimessa delle jeep. Erano partiti da Roma per festeggiare l’anniversario dei rispettivi matrimoni, dopo il safari avevano prenotato una settimana in un resort a Diani prima di trascorrere l’ultima notte a Mombasa e infine tornare in Italia.

    – Sara? – chiese Antonio, già seduto nel Land Rover con sua moglie Giulia ancora semi addormentata al suo fianco.

    – Non sta bene – rispose Carlo. – Niente di grave, credo indigestione. Ha vomitato un paio di volte durante la notte, le dispiace molto ma non se la sente di muoversi. – Aveva provato a convincerla e poi a insistere per restare con lei, ma Sara lo aveva rassicurato e praticamente spinto fuori dalla tenda perché non rinunciasse all’ultima giornata tra gli animali e la natura incontaminata.

    David mise in moto il fuoristrada e illustrò il programma della giornata, che comprendeva un picnic nella savana. Mentre si addentravano nella riserva il sole sbucò da una coltre di nubi dense e nere, spazzando via ogni ombra con una luce intensa che trasfigurava il paesaggio con potenza divina. Pochi minuti dopo che furono in marcia, David fermò la jeep. Carlo e Antonio stavano preparando le loro macchine fotografiche. Quando furono pronti per scattare dissero a David che poteva muoversi, ma lui sembrava non capire. Dopo un po’ chiesero cosa aspettava, il Masai si voltò a guardarli come se fossero due idioti e puntò un dito alla loro sinistra. A pochi metri da loro, un grosso elefante stava frugando con la proboscide tra i rami di un’acacia. Era completamente mimetizzato, la luce rossastra dell’alba si era spalmata sul suo manto rendendolo invisibile a un occhio non allenato.

    Procedettero per un paio d’ore lungo sentieri sterrati, già battuti da altre guide e altri visitatori, fermandosi di tanto in tanto quando David indicava dettagli che a loro sfuggivano del tutto. Il Masai teneva la radio sempre accesa, spesso parlava nella sua lingua con altre guide. Verso metà mattina, dopo uno dei suoi brevi e incomprensibili scambi in maa con i colleghi, cambiò direzione e aumentò la velocità. Disse di avere ricevuto la segnalazione di un branco di leoni con i cuccioli, e voleva arrivare prima della torma di altri fuoristrada che probabilmente stavano accorrendo verso la stessa destinazione.

    La sua fretta si rivelò giustificata.

    Quando arrivarono c’era solo un’altra jeep sul posto, una manciata di turisti asiatici spuntava dal tettuccio panoramico con obiettivi così ingombranti che le loro macchine fotografiche sembravano telescopi astronomici. Meno di due minuti dopo ne videro arrivare un altro paio. I leoni riposavano all’ombra di una macchia di alberi e cespugli, un maschio e tre leonesse con i cuccioli. Carlo usò lo zoom per inquadrare il muso del leone, che a quanto spiegò David giudicando dalla criniera era ancora piuttosto giovane. Tra le altre informazioni che fornì mentre Carlo e Antonio scattavano a ripetizione la stessa identica foto, solo Giulia ascoltò la parte in cui la guida diceva che se un altro maschio avesse sconfitto il giovane per diventare il nuovo capo branco, poi avrebbe divorato i teneri cuccioli che in quel momento giocavano sotto lo sguardo assonnato delle leonesse. Era una questione di territorialità. In quel momento udirono un fruscio da un albero vicino alla loro jeep, la guida si voltò di scatto e fecero in tempo a vedere un leopardo appollaiato su un grosso ramo, dove aveva trasportato la sua preda per finirla in santa pace. Spaventato dall’orda di veicoli ed esseri umani, il felino scese dal tronco artigliandolo agilmente e poi scappò via lasciando la carcassa a penzolare dal ramo.

    Vagarono per la riserva fino all’ora di pranzo. Dopo avere assistito a una feroce schermaglia tra un gruppo di avvoltoi e un piccolo branco di licaoni per accaparrarsi i resti di una preda sfortunata, David cercò un posto dove fermarsi per il picnic. Anche se con una leggera esitazione, alla fine decise di uscire dalla pista sterrata e attraversare una parte all’apparenza intonsa della savana. Era uno spazio infinito, una distesa punteggiata da alberi solitari che sembravano schiacciati dai nuvoloni bianchi e plastici, quasi scolpiti nel cielo turchese. La guida lasciò il Land Rover a pochi metri da un baobab dal fusto massiccio e dalla chioma piatta e larga, che offriva un’abbondante porzione di ombra. Prima di farli uscire dal fuoristrada scese impugnando un machete e lo picchiò a terra mentre si avvicinava all’albero, poi lo usò per colpire ripetutamente il tronco. Si voltò e sorrise ai turisti che lo fissavano perplessi.

    Snakes – disse, poi fece loro segno di scendere.

    Si trovavano a un’altitudine di circa 1.700 metri; quando si erano alzati per l’escursione avevano dovuto indossare una felpa pesante per proteggersi dal gelo, adesso faceva un caldo terribile, con il sole alto nel cielo che bagnava il panorama con una luce nitida e spietata. David tirò fuori dal retro della jeep un tavolino pieghevole e tre sedie simili a quelle usate dai registi del cinema, dispose tutto all’ombra dell’albero infine servì ai tre italiani altrettanti cestelli con il loro pranzo preparato dal cuoco del lodge, oltre a una bottiglia di vino bianco che lasciò stappare a Carlo. Declinò rispettosamente il loro invito a unirsi a loro, e restò in piedi appoggiato alla jeep, incurante della temperatura e del sole che gli batteva addosso. Di tanto in tanto la radio a bordo gracchiava, ma quel rumore artificiale e moderno non infangava l’atmosfera idilliaca che i tre turisti stavano assaporando insieme al Riesling sudafricano appena versato.

    – È un peccato che Sara non ci sia – commentò Giulia dopo un brindisi alla loro amicizia e a quel magnifico viaggio. Si ripromisero di organizzare un safari ogni anno. Mezz’ora dopo, sazi, rilassati e al settimo cielo, i tre amici avevano ripulito i cestelli e svuotato la bottiglia. David infilò il busto nella jeep e riemerse con il binocolo in mano, lo puntò all’orizzonte e rimase immobile a osservare. Carlo se ne accorse e si distrasse dalla conversazione per spiarlo. Sotto le chiacchiere allegre di Antonio e Giulia gli parve di udire dei versi lontani, e guardò nella direzione dove David puntava il binocolo. Vide qualche punto scuro muoversi nella savana, e si voltò verso la guida. David abbassò il binocolo e Carlo si accorse della sua espressione accigliata. Il Masai incrociò il suo sguardo per un attimo e tornò a scrutare nella direzione di prima. La radio della jeep riprese a gracchiare, una cacofonia di statica e voci incomprensibili. Dopo un

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