Con gli occhi di Sara
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Anteprima del libro
Con gli occhi di Sara - Maria Patrizia Salatiello
Prologo
Implacabile il sole dell’isola incantata splendeva nell’assoluto blu del cielo del primo giorno di primavera.
La Mercedes nera saliva lenta i tornanti di monte San Damiano.
Il piccolo viso incollato al vetro del finestrino, Sara guardava stupita gli alti alberi che correvano lungo la via. La meraviglia aveva cancellato l’ombra del sonno interrotto alle prime luci dell’alba.
S’intravedeva appena il fiume scendere a valle veloce, ancora torrente tumultuoso, lì dove le acque s’avvinghiavano ai massi sbattendovi con violenza. E il silenzio del mattino era rotto dal frastuono dei gorghi impetuosi.
Alte le querce innalzavano al cielo il tronco vecchio di secoli e promettevano le delizie sottili delle loro fronde.
La bimba si sentiva piena di speranza. Pareva davvero bello quel luogo in cui avrebbe trascorso la sua vita. Osservò il volto della mamma e lo vide corrucciato, la fronte aggrottata, le labbra serrate. Non capì tutto quel disappunto, ma le prese la mano e la strinse.
Capitolo primo
Sara
Era di maggio, quando fioriscono le rose.
Due lenti mesi erano passati da quando Sara era giunta a San Damiano.
Quel giorno Peppuccio camminava piano lungo il corso.
Indossava i miseri abiti dell’amara fatica quotidiana. Un paio di pantaloni sdruciti, una maglietta lisa dove i buchi avevano sopravanzato il tessuto, due scarponi militari, ricordo di una guerra appena finita. Sulla spalla, dentro un fazzolettone annodato, c’erano i resti del povero pranzo consumato sui campi. Malgrado trasudasse miseria in tutto il suo aspetto l’uomo aveva in viso un’espressione lieta, come tutte le volte che, trascorsa la lunga giornata, poteva infine fare ritorno a casa.
Giunse in piazza Immacolata Concezione e iniziò a salire l’antica scalinata.
Due uomini, vestiti come lui, gli si pararono davanti, le lupare bene in vista, incuranti della gente che sul finire del giorno affollava la via.
Rapidi, in successione, gli scaricarono addosso tutti i pallettoni e s’allontanarono senza fretta, certi com’erano della loro impunità.
Peppuccio cadde riverso, lo stomaco squarciato, una smorfia di doloroso stupore sul volto. Intorno a lui si fece il vuoto. Lesti, uomini, donne e bambini s’allontanarono veloci e la piazza divenne deserta. Dal vicolo sul retro sbucò una donna. Scorse da lontano l’uomo che agonizzava e corse verso di lui, le mani fra i capelli, sperando, pregando che non si trattasse di Peppuccio.
Giunta che fu, levò un grido che poco aveva d’umano e cadde in ginocchio, le mani fra i capelli. Peppuccio la fissò un’ultima volta, emise un ultimo rantolo e spirò.
Dietro le persiane socchiuse la gente di San Damiano aveva ben visto l’accaduto, ma nessuno avrebbe raccontato alcunché.
Il giorno dopo Sara compì cinque anni e la mamma le regalò un vestitino nuovo. Era di rigatino bianco con delle bande orizzontali rosse, blu, verdi, gialle.
Le piacque tanto che, quel pomeriggio, dimenticò di uscire a giocare con le amichette, giù nella piazza ai piedi della scalinata della chiesa matrice. Rimase a contemplarlo per un tempo che non finiva mai.
Il sole volgeva al tramonto quando un pensiero fastidioso le attraversò la mente. Iniziò a chiedersi quando l’avrebbe indossato. La domenica, forse. Quel giorno di solito andava in campagna, nella villa di uno dei tanti clienti di papà. Non s’immaginava con quel vestito troppo bello fra le aiuole, i filari di vite, all’ombra di un ulivo.
Scacciò quel pensiero, abbandonò la contemplazione dell’abito e si diresse verso la porta posteriore della casa.
L’appartamento si trovava nella piazza dell’Immacolata Concezione cui era dedicata la chiesa. Aveva due ingressi. Uno, signorile, attraverso una breve scala dava sulla piazza. L’altro, sul retro, su una stradella senza asfalto. Bastavano poche gocce di pioggia e si trasformava in un acquitrino. Era di molto più interessante dell’uscita «buona».
Sara sgaiattolò da quella parte, attenta a non farsi scorgere dalla madre. Uno dei tanti misteri della sua piccola vita era perché mai la mamma non voleva che sedesse sull’uscio lì sul vicolo. Quella volta riuscì a non farsi vedere, socchiuse la porta, ne uscì furtiva e la richiuse alle sue spalle. Sedette sul gradino di un marciapiede quasi inesistente.
Due maiali macilenti si rotolavano nella polvere grugnendo. La porta di fronte s’aprì. Ne uscì una donna dall’età indefinita agli occhi di Sara.
La bambina aveva difficoltà a immaginare quanti anni avessero le persone che incontrava. Di certo le parevano tutte proprio vecchie, ma le donne del vicolo erano per lei un enigma insolubile. Le paragonava alla sua mamma e le pareva improbabile che avessero la stessa età.
Mentre s’avvicinava l’oscurità della sera vide Concetta, la dirimpettaia. La scrutò con attenzione. Le parve più anziana del solito. Era tutta vestita di nero e portava, in testa, un velo, nero anch’esso.
L’ultima volta che l’aveva vista indossava abiti colorati. Un altro piccolo mistero, ma non del tutto.
Anni dopo avrebbe capito cos’era accaduto la sera prima. Doveva essere già tardi. Al buio, nel suo lettino, aveva udito pianti, lamenti, strane cantilene.
La veglia funebre, quella strana abitudine per cui si vegliano i morti tutta la notte, era durata sino all’alba e adesso la donna portava il nero del lutto. Aveva con sé il solito secchio pieno di rifiuti.
Aveva già cenato con la sua famiglia a un orario che per Sara era l’ora della merenda. Sapeva che sarebbero andati a letto presto.
Non avevano, e anche questo era proprio strano, la luce elettrica. Dopo cena restavano un po’ alla luce delle candele e poi andavano a dormire.
Era tarda primavera e le giornate iniziavano ad allungarsi, la donna rovesciò il secchio proprio nel centro della stradella e rientrò in casa. I maiali accorsero contenti. Erano gli unici che attendevano quel momento.
La mamma di Sara aveva protestato per giorni e giorni per quell’immondizia buttata così, in mezzo al vicolo, e s’era scontrata contro un muro di ironici silenzi.
Due bimbi completamente nudi uscirono dalla medesima casa e iniziarono a ruzzolarsi per terra, incuranti della polvere che li stava ricoprendo.
Appena il sole era diventato un po’ più caldo avevano abbandonato i miseri vestiti che indossavano d’inverno e stavano così tutto il giorno. Senza nulla addosso.
Le prime volte Sara li aveva scrutati incuriosita, cercando di non darlo a vedere.
Così questi erano i maschietti. Tranne per quella buffa, piccola cosa che pendeva fra le cosce non erano poi così diversi da lei. Iniziarono a parlare fitto fra di loro in quel modo incomprensibile che la bimba stentava ancora a capire.
«Mamma» aveva chiesto i primi tempi «come parlano Vincenzo e Giuseppe?»
«Come fai a sapere i loro nomi? Non mi piace che dai confidenza a questa gente. Se stessimo in città frequenteresti bambini adatti a te. Ti permetto di giocare con Rosina e Stefania perché non puoi stare sempre sola, ma non mi piacciono molto, figurarsi questi due, non devi mai parlare con loro.»
«Io li guardo soltanto, stai tranquilla, mamma.»
E così Sara ebbe altri due misteri da risolvere. C’erano bambini con cui si poteva giocare, ma proprio perché, tranne loro, non c’era nessun altro, e altri con cui non si doveva avere nulla a che fare.
Ripose anche questi due interrogativi in un cassettino della sua mente.
«Quando diventerò grande capirò.»
Udì la mamma chiamarla e corse dentro casa.
Era orgogliosa di quell’abitazione. Era entrata in quelle di Rosina e Stefania e non c’era paragone.
Innanzitutto la sua famiglia aveva una vera e propria stanza da bagno, gli altri no. Una volta, le scappava proprio, aveva chiesto alle sue amichette di poter andare al gabinetto e s’era trovata in uno sgabuzzino buio con un buco per terra. Ne era uscita inorridita. Forse per questo Rosina e Stefania non erano come loro, perché non avevano la stanza da bagno. Ci rimuginò un po’ su e pensò che era strano. La sua famiglia aveva poi una stanza da letto, un soggiorno, un tinello, la cucina e la sua cameretta. Però le mamme delle sue amichette erano sempre allegre, le rare volte che era andata a trovarle l’avevano abbracciata forte e le avevano dato delle buonissime merende, la sua di mamma era quasi sempre con il viso scuro e la bimba se ne addolorava molto.
Anche quella sera le venne incontro con la fronte aggrottata. A Sara non piaceva quando faceva quella faccia, le pareva che diventasse brutta, come le streghe dei libri di fiabe che la sera sfogliava appassionata.
«Andiamo a tavola, su.»
«E papà?»
«Anche stasera farà tardi, molto tardi. Siamo noi due sole.»
C’era una nota stonata nella sua voce, se fosse stata più grande Sara avrebbe scorto non solo scoramento e disillusione, ma anche una sorta d’acredine.
Erano passati pochi mesi da quando avevano lasciato la città per il paese di San Damiano e la donna s’andava incupendo sempre di più. Le pesava la solitudine, la lontananza dalla sua famiglia, dalle poche care amiche e soprattutto sentiva sempre più lontano Vincenzo.
Erano poche le famiglie che riteneva degne d’essere frequentate e costituivano una cerchia chiusa, nella quale stava iniziando a trovare una via d’accesso. Non era sufficiente l’incarico prestigioso che ricopriva suo marito. C’era qualcos’altro. Avrebbe voluto sapere cosa, poiché non era soltanto la diffidenza della gente di campagna per quelli di città.
Maria tentò di cacciare via i suoi tristi pensieri e d’occuparsi della bambina. Non le riusciva spesso di darle tutta l’attenzione di cui avrebbe avuto bisogno. Ne era consapevole e se ne rammaricava, a volte. Non molto di frequente, in verità. Troppo spesso si lasciava travolgere dalle proprie recriminazioni e accudiva Sara con evidente malagrazia.
L’aiutò a salire sulla sedia, le annodò il tovagliolo attorno al collo e le pose il piatto davanti.
La bambina guardò con diffidenza la carne arrosto. Nei suoi libri di fiabe c’erano re e regine, e principi e principesse che mangiavano ogni sorta di buone cose. E invece a casa sua l’arrosto era spesso l’unica pietanza della sera. Almeno quel giorno c’erano le patate fritte e non la verdura lessa che tanto odiava.
Non era certo per mancanza di soldi o di tempo che quella cucina era tanto priva di fantasia. Maria metteva molto poco amore e interesse nelle faccende di casa.
Sara terminò di cenare in silenzio. Avrebbe avuto tante cose da chiedere alla mamma, ma non le pareva il momento. Non appena ebbe finito corse nella sua stanza.
Sdraiata nel suo letto guardava la sottile striscia di luce che filtrava dalla porta accostata. La mamma non le aveva permesso di attendere che tornasse il papà a darle almeno il bacio della buonanotte.
Sara non comprendeva da cosa dipendesse che il piccolo rito serale accadesse o meno. A volte sua madre lasciava che restasse sveglia anche sino a tardi ad aspettare il ritorno di quell’uomo alto, sempre vestito in giacca e cravatta, di cui, quando le sfiorava la guancia con un bacio veloce, sentiva l’odore acre del fumo di troppi sigari. Altre sere, non appena aveva ingoiato l’ultimo pezzetto di frutta, la mandava via.
«A letto, Sara, è tardi.»
La bambina rimuginava spesso su questi strani accadimenti, se ne chiedeva il perché. Una volta domandò: «Mamma, sono stata molto cattiva oggi?».
«Perché dici così?»
«Mi stai mandando a letto prima che torni papà.»
«Stasera farà più tardi del solito.»
Sara non se ne fece una ragione, non aveva sentito squillare il telefono, almeno non mentre era in casa, come faceva la mamma a sapere che il papà avrebbe tardato anche quella sera?
È pur vero che aveva avuto il permesso di passare un’oretta in mezzo alla strada, con le sue amiche.
Che papà avesse telefonato proprio in quel lasso di tempo?
Comunque quella era una delle sere in cui era stata mandata a letto subito dopo cena.
Adesso stava lì al buio, zitta zitta, per paura che s’accorgessero ch’era ancora sveglia.
Udì lo sbattere del portoncino che annunciava il ritorno del papà. Dopo un po’ sentì le voci sommesse dei suoi genitori.
Come temeva, le udì alzarsi di tono, quella della mamma, almeno. Il papà urlava proprio di rado, quando non ne poteva più.
A un tratto calò il silenzio e poi un rumore di passi. La mamma giunse sino alla porta della stanzetta, l’aprì un po’ di più, quel tanto che bastava per accertarsi che la bimba dormisse, e la chiuse del tutto.
Sara si trovò immersa nell’oscurità più totale. Anche le imposte erano completamente serrate e non s’intravedeva la luce dell’unico lampione della piazza. Aveva tanta paura del buio, avrebbe voluto chiamare la mamma, ma non lo fece poiché era certa che doveva essere davvero arrabbiata.
Scivolò fuori dalle lenzuola, arrivò a tentoni alla finestra e ne aprì un’imposta. Ci arrivava a stento ed erano state tante le prove che aveva fatto per riuscire a socchiuderla.
Una piccola lama di luce s’intrufolò nella stanza a consolare la bimba che s’accovacciò per terra, serrò le gambe fra le braccia e vi appoggiò la testa.
Malgrado la porta chiusa udiva ancora la voce della mamma giungerle concitata. Le pareva, quella sera, più agitata del solito.
Un omino piccino sbucò dal nulla.
Sara lo guardò incuriosita e per nulla preoccupata.
«Chi sei?»
«Sasà.»
«Che razza di nome!»
«Cosa c’è che non va