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Il destino di Sirah
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Il destino di Sirah
E-book242 pagine3 ore

Il destino di Sirah

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Nella tenebrosa Edimburgo accade qualcosa d'inspiegabile, un velo di paura e orrore impegna l'aria, già intrisa di sangue innocente. Dalle viscere della città emergono macabre creature, il cui unico obiettivo è uccidere...

Marin e Sirah condividono un destino comune e le incisioni truculente sulle loro carni ne sono la dolorosa prova, essi, così come gli abitanti della città, scappano dalla morte, inconsapevoli che qualcosa di inimmaginabile li attende... molto, molto lontano.

Qualcosa li cerca, qualcuno li ha scelti, il sigillo del patto è stato siglato.

LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2016
ISBN9781310205767
Il destino di Sirah

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    Anteprima del libro

    Il destino di Sirah - Alessandro Falzani

    DILEMMA

    Voldradir, 4500 anni, prima di oggi.

    Aveva rifiutato ogni onore, lasciato l'incombenza all'unico amico che riteneva all'altezza. Spogliarsi dei suoi privilegi gli era di sollievo, non essere più chiamato Saggio, l'unico desiderio che aveva. Tuttavia, quelle cicatrici gli avrebbero ricordato per sempre chi era stato, per sempre che cosa aveva fatto; venir meno al patto di sangue non era proibito, ma era stato il primo a rifiutarlo, il primo, sin da quando quella maledizione aveva avuto inizio. Ulsan di Voldradir camminava stancamente, trascinando con se la tunica consunta,la quale, levigando il terreno, imprimeva dietro di se lo sbiadito ricordo di maestosi tappeti d'onore che un tempo calpestava. La corporatura esile, a tal punto da essere quasi incapace di proiettare l'ombra di se stessa, quando la luce del sole la colpiva; il naso, prominente e curvo, sgusciava dal cappuccio, lasciando che il resto del viso affondasse nell'oscurità. La bianca tunica iniziava ad intridersi di numerose macchie cremisi; dapprima apparvero copiose sul petto, poi, anche sulla schiena. Alle sue spalle la folla si adunava, accalcandosi alla grossa porta d'ingresso della città. I volti rigati di lacrime e gli occhi colmi di terrore, un disperato senso di abbandono aleggiava e il silenzio, che prima si era naturalmente creato, veniva rotto da un uomo, al centro della folla. «Ulsan! Ulsan!Rimani. Non lasciare questo popolo, non ne hai diritto. Sei un antico Saggio, rispetta la tua posizione, rispetta i tuoi doveri. Te lo chiede un vecchio amico…» Ulsan raddrizzò appena la schiena rattrappita, girò la testa di pochi gradi, di modo che il profilo del suo viso fosse visibile, mettendo ancor più in evidenza il caratteristico naso; poi le labbra si composero in un sottile e flebile sorriso, quindi tornò sui suoi passi. La sagoma ondeggiò lentamente, dando l'impressione come se vagasse senza una meta precisa, l'incedere cadenzava la sua voce roca e bassa «da sangue a sangue…da sangue a sangue…», poi alzò la testa al cielo, arrestò il passo e rimase immobile. Vi era una roccia enorme lì, proprio vicino a lui, la osservò alcuni secondi, quindi puntò l'indice verso il masso. Dalla porta della città si scorgeva la figura, adesso piccola, che muoveva il dito continuamente, in una sinuosa danza, ritmica e lenta. Alcuni minuti dopo, abbassò il braccio, che tornò a confondersi nella sagoma bianca e riprese il suo cammino. Haravor acuì i sensi di guerriero e sentì le ultime, lontane parole di Ulsan «da vita a vita…da vita a vita…», infine la figura si perse, nel rossore del tramonto. Haravor mantenne gli occhi su di lui, confidando sino all'ultimo in un insperato ripensamento, sino a che non fu più visibile, solo allora il popolo ebbe il coraggio di imprecare contro Ulsan, il traditore. Ulsan il codardo. Haravor sospettava che dietro al suo comportamento vi fosse dell'altro; lo conosceva bene e al suo fianco aveva combattuto molte battaglie in nome dell'amata Voldradir: non era un codardo e in più occasioni si era dimostrato un leale amico. Iniziò a correre verso la roccia, mano a mano che si avvicinava poteva vedere un leggere fumo levarsi dalla superficie della pietra; poi, lo punse un odore forte e pesante, difficile da respirare. Giunse di fronte al masso. Per alcuni secondi le pupille oscillarono velocemente, seguite talora dal capo. Abbassò lo sguardo a terra, «Ulsan, spero che tu possa trovare le tue risposte. Ti aspetterò, sino ad allora.» Dalla gigantesca porta della città, un fiume di persone si diresse verso il comandante Haravor, tutti si radunarono attorno a lui, e al misterioso masso: su di esso, piccole fiamme brillavano vivacemente e contornavano lettere incise, in un modo che, solo ad un elementale del fuoco era concesso:

    Mi chiedo se sia destinato solo a noi.

    Mi chiedo se sarò in grado di comprendere.

    Aspettami,amico.

    Le vivaci fiamme si spensero.

    Capitolo 1

    DECISIONE SOFFERTA

    Sedeva. Curvo sul modesto scrittoio. L'esile fiamma della candela lentamente oscillava, le guance fredde accarezzate da un tiepido calore. Il grande tomo era aperto quasi alla metà delle pagine che conteneva, su di esso annotava accuratamente scritti di una lingua ai più ignota. La piuma d’oca affondava la punta in un liquido viscido e scuro, contenuto in un ampolla posta lì, sul bordo del tavolo, quasi in precario equilibrio tra il vecchio legno che la sosteneva e la fredda roccia su cui poteva infrangersi. L'ampolla sembrava di vitale importanza e l'uomo vi attingeva con parsimonia, quasi quella sostanza fosse la più preziosa che avesse mai visto; vi inumidiva appena la punta, un gesto che di rado compieva, come se tanto bastasse per scrivere pagine intere.

    Gli occhi piccoli e scuri tornavano a posarsi sul foglio di papiro, esso recava indelebili i segni di una vita antica; il giallore a chiazze e i lembi che mancavano, lasciavano intendere che l’età di quel libro fosse parecchio addietro nel tempo, più vetusto della sua stessa vita. Fhalah contava quasi seicento primavere, ma potevano essere anche di più, da tanto aveva perso il conto, poco importava. Ciò che più d’ogni altra cosa lo turbava era completare quel tomo, sino all’ultima pagina. Ma non stanotte, la vittima non poteva sopportare un dolore talmente lancinante e per così tanto tempo, doveva assimilarlo con calma, comprendere che non vi erano altre possibilità, se non subire e attendere che il testo fosse completato. A fatica raddrizzò la schiena, sentì sfarinare le ossa, mentre nei suoi pensieri si insinuava un desiderio irrefrenabile di fuga. Raccolse i lunghi capelli color argento facendone una coda, quindi si liberò della veste in cui era avvolto. Prese un’altra ampolla, disposta in un cofanetto ai piedi del tavolo: più fragile della precedente, dal contenuto azzurro. L’aprì. L'occhio vigile si focalizzava sulla prima goccia che lenta e delicata usciva dall'imboccatura, simile a un infante che per la prima volta si affacciava alla vita. Cadde sul palmo della mano destra: l’unica parte del suo fisico ancora intatta. Passò la sostanza tra i polpastrelli in un gesto ripetitivo e sincrono, infine la spalmò sul profondo taglio al palmo sinistro. La carne viva brillava alla luce soffusa, rivoli di sangue si insinuavano tra le dita, poi, lentamente cadevano lasciando un piccolo e doloroso segno del loro passaggio. Digrignò i denti ed accartocciò il volto, attese alcuni secondi: l'unguento si depositò nel taglio e lo riempì sino all'orlo, infine, una sottile scia di fumo niveo si liberò dalle carni.

    Chiuse gli occhi e compresse le labbra a trattenere un urlo di dolore, doveva attendere solo pochi istanti, ma come non mai gli pareva un tempo infinito. Poi li riaprì; al posto della ferita una fresca cicatrice, si sentì sollevato. Osservò per un attimo il suo corpo e il labirinto di tagli che si erano ormai cicatrizzati. Sebbene avesse vissuto moltissimi anni, il suo aspetto raccontava altro: asciutto, buona muscolatura, un viso marcato e una fitta ragnatela di capillari che correvano lungo il corpo. Stette ancora in silenzio e lasciò che un'insolita frescura lo investisse dai meandri della caverna in cui si trovava, si voltò intorno, sentiva le ferite bruciare ma allo stesso tempo respiravano e godevano di quella frizzante temperatura. Indossò la vecchia tunica azzurra, fece attenzione che i lembi toccassero il suo corpo il meno possibile; ad ogni contatto sobbalzava dal dolore: una lama sottile e lunga che lenta e costante penetrava e si ritraeva dalla ferita. Accanto al letto di paglia, un lume sovente acceso lo scaldava, ma stanotte le sue preoccupazioni erano troppe, non poteva riposare, per quanto il suo stato lo imponesse. Prese la lanterna e la orientò verso il fondo della caverna. La luce coraggiosamente si faceva strada in un abisso di nulla. La grotta proseguiva per parecchi metri ancora in profondità e diventava glaciale ad ogni passo in più che percorreva. I sandali di cuoio incespicavano sui grandi massi, posti dappertutto. Le dita dei piedi flagellate da tagli e urti; si sentì quasi mancare l’aria, la caverna si faceva sempre più angusta, come nelle viscere di una bestia enorme che di li a breve lo avrebbe stritolato. Ricercò con l’udito la presenza di lei, dato che poca speranza poteva affidare alla vista, l’oscurità era totale e la fiamma nulla poteva, assorbita com’era dalle tenebre. Si concentrò e poté distinguere i suoi lamenti di dolore, ora conosceva la direzione da cui provenivano e acuì lo sguardo, puntando il lume nella giusta direzione. In fondo al passaggio una debole luce proveniva dalla sinistra, accelerò il passo per quanto il terreno lo permettesse, voltò.«Gleika, piccola mia, non…esagerare, nemmeno con te stessa» sussurrò Fhalah alla figlia, mentre nuda cospargeva la coscia destra dell’unguento celeste. Il padre poté osservare il corpo della giovane che come il suo era devastato da profondi tagli e cicatrici e ne fu addolorato, distolse lo sguardo mentre la figlia si rivestiva. «Padre, non preoccupatevi per me, questo è nulla al confronto di quei poveri umani, chissà quanto staranno soffrendo!» sibilò Gleika con voce sofferente. Fhalah prese il tomo sul leggio. Quel libro era più piccolo del suo ed era aperto a poche pagine dalla fine, tuttavia le riesaminò dall'inizio,voltandole delicatamente, senza che i quattro nodi di lino lungo la spalla del tomo opponessero resistenza al movimento, rischiando di strapparle.

    Esaminando ogni riga, l'uomo accennava con la testa, infine fece un compiaciuto sorriso quando tornò alla pagina da cui aveva iniziato la lettura. «Brava, figlia mia, nemmeno un errore! Hai studiato davvero bene, sono orgoglioso di te» disse Fhalah carezzandole il volto gelido. «Vedrai, tra poco sarà tutto finito, ci libereremo da questo fardello, non avremo più nulla da temere» rassicurò ancora. «Certo padre, ma…ecco, saranno gli umani le vittime, loro non potranno fare quello che noi abbiamo fatto per migliaia di anni, mi sento in colpa per questo, vorrei non dovesse soffrire più nessuno» concluse Gleika mentre si posava sul suo giaciglio e gli occhi lentamente le si chiudevano. «Lo so piccola mia, lo so, ma non dipende da noi, non più ormai, dovranno essere soltanto loro a decidere, scegliere il nostro o il loro futuro» replicò con dolcezza Fhalah mentre la figlia era ormai sprofondata in un lungo torpore. Avvicinò la candela tremula al viso della ragazzina, perché potesse scaldarla almeno un po’, si chiese quanto tempo ancora dovesse soffrire, quando quella maledizione li avrebbe lasciati in pace. Nemmeno i suoi poteri erano in grado di dargli una simile risposta, forse nessuno, ma ciò che aveva visto nel futuro degli umani non lo lasciava tranquillo, non poteva restare indifferente. Ormai era solo questione di tempo, aveva fatto uso di tutte le sue forze trecento anni prima e troppi erano morti allora per il medesimo scopo, da millenni non accadeva che questo e bisognava porre fine a tutto, a qualsiasi prezzo.

    Capitolo 2

    INIZIO DI UN INCUBO

    Si voltava e rivoltava nel letto mentre i dolori si facevano lancinanti, sentiva il corpo esplodere come se qualcosa stesse per sbucargli fuori dalle viscere; ormai erano tre notti che non chiudeva occhio e soprattutto quei segni, così inquietanti lo avevano terrorizzato. Più del dolore corporeo, lo stava consumando il non comprendere se fosse in preda alla pazzia. Aveva il petto e il ventre disseminati di strani simboli, accuratamente allineati. Avvertiva vermi parassiti che lo mordevano da dentro, staccando lembi di carne, provava un impulso irrefrenabile di aprirsi il petto e vedere cosa diavolo stesse accadendo; quale insulso gioco di merda gli stava proponendo la sua mente malata. Non riusciva a fermare il sangue, ne aveva perso parecchio in quelle tre notti e si sentiva troppo debole persino per alzarsi.

    Le lenzuola a macchie scarlatte irregolari parevano dipinte da qualche balordo pittore di strada. Percepiva il gusto ferroso del sangue in bocca: doveva cercare almeno di darsi una ripulita. Con fatica scese dal letto, muovendosi su gambe che al pari di esili fuscelli stavano per cedere. Con la mano si reggeva il petto dal lato del cuore, la sentiva sussultare violentemente, si staccava dalla pelle cremisi e collosa quasi spinta via, come a contenere un'esplosione che di lì a poco sarebbe avvenuta. A passi vacillanti si diresse verso il bagno. I pochi movimenti gli diedero tempo di riflettere e chiedersi se fosse veramente pazzo, vittima di un allucinogeno o che altro, se il diavolo si fosse impossessato di lui o quale assurda cosa gli stesse capitando: consapevole solo di non poterne parlare con nessuno. Aprì il rubinetto della doccia e tolse l’intimo, si mise sotto la pioggia calda ma dovette ritrarsi subito: il contatto dell’acqua sulle ferite aperte era da impazzire, non voleva rinunciare però a sentirsi nuovamente pulito e fresco e certamente in quello stato non si sarebbe mosso di lì. Regolò il getto d’acqua perché solo poche gocce alla volta ne uscissero e lasciò che queste lo bagnassero delicatamente. Andava meglio, sembrava abituarsi e quando il petto fu abbastanza bagnato aumentò lievemente il getto, per ripulirsi completamente. Uscì dalla doccia, esitante prese l'asciugamano, incerto se appoggiarlo sulle ferite, con sorpresa notò che già stavano rimarginando e il dolore, incontrollabile di poco prima lasciava posto solo ad un senso di fastidio e prurito, anche l’emorragia di sangue sembrava arrestata come per magia. Osservandosi riusciva quasi a leggere qualcosa, si distinguevano chiaramente tutti i segni, si pose dinanzi al vetro del bagno e si guardò il petto.

    Da sangue a sangue, da vita a vita

    Il patto chiede il giusto prezzo

    Mai sarà troppo, mai gli sarà negato

    Perché l’essere oscuro non sia liberato

    Scosse la testa, decisamente era frastornato, cosa gli stava capitando? E il patto che diavolo era? Un essere oscuro…Tutto ciò non era reale, non poteva esserlo, eppure il dolore non mentiva. La fronte non era completamente asciutta e tiepide gocce di sudore si mescolavano all'acqua calda, era troppo debole, esausto da tutto questo, chi avrebbe potuto chiamare? Per dirgli…cosa? Nessuno. Era solo come un cane in una città che odiava e con il lavoro che faceva era meglio non farsi degli amici. Notte fonda, buttò lo sguardo sull’orologio: due e quaranta. «Chi se ne frega» sbottò. Prese una camicia pulita e la indossò delicatamente sentendo la pelle del petto tirare in modo disumano. Non conosceva quei simboli, non ne comprendeva il significato eppure riusciva a leggerli, non sapeva come, ma cazzo se ci riusciva. In cuor suo temeva che non avrebbe mai trovato risposte, meglio credere che fosse una malattia che lentamente sarebbe scomparsa, un incubo e domani mattina tutto come prima. Si, da tre giorni si prendeva per il culo ripetendolo a se stesso. Finito di vestirsi prese la giacca di pelle, una sciarpa nera e scese in strada. Edimburgo era inquietante di notte e questa era l’unico elemento che lo attirava di quella città, per il resto avrebbe fatto a meno di ogni altra cosa: dei turisti ad ogni mese dell’anno, degli artisti di strada ad ogni vicolo e dei tanti, troppi ristoranti. Nulla di questo lo interessava. Riteneva che la città fosse in simbiosi con lui, che la pensasse allo stesso modo, credeva che tutto quel movimento e rumore fossero un’offesa ai suoi monumenti e ai segreti millenari che celava. Appena in strada fu pervaso dal buio e da un lento e pigro intrecciarsi di voci che si insinuavano nella sua mente, quasi fossero indirizzate a lui soltanto, si sentiva intorno il peso di centinaia di bulbi oculari. L’aria gelida lo sferzò in volto e dovette alzare il bavero della giacca per proteggersi. Nonostante l’ora tarda le strade erano ancora affollate e di starsene per conto proprio nemmeno a parlarne; troppi stronzi per ragionare a voce alta. Svoltò in un vicolo dove una discesa di ripidi gradini conduceva ad un angusto ritrovo:Morgan's Pub. Ogni volta che prendeva quei gradini poteva scorgere le stesse facce sedute all’ingresso del locale «Oh! Quale onore Marin!» fece una voce roca e strafottente. Il ragazzo non rispose, lo ignorò e spinse la massiccia porta di legno. La pressione del braccio contro l' area acuì il dolore, dovette usare ambo le mani per aprirla quel tanto che bastava affinché il suo corpo asciutto vi sgusciasse dentro. Subito fu investito da suoni e schiamazzi assordanti, un feticcio di sudore e alcool lo disgustò, poté cogliere in lontananza, sui tavoli in penombra, gemiti sommessi di prostitute. Avrebbe giurato di riconoscere alcune di quelle voci. Non si voltò e si avvicinò al bancone facendo attenzione di non toccare nessuno che non conoscesse; non sopportava chi rimaneva piantato come un palo, in un punto a cazzo senza motivo. Ma non poteva parlare, non in quei posti, se voleva riportare tutti i denti a casa. «Whisky con ghiaccio» ordinò. Alcuni secondi dopo la bevanda era già pronta e lasciò decantare un po’ affinché il ghiaccio lentamente affondasse. «Marin, hai un bel coraggio a farti vedere qui!» urlò un uomo appena fuori dal bagno. Tirava su la lampo con difficoltà, visto il pacco gonfio che conteneva. Una volta distinto Marin nella folla gli si fece incontro, questi lo vide ma non mosse un muscolo, restando in attesa; quando il grassone gli fu vicino lo prese direttamente al bavero iniziando a scuoterlo. Altri uomini si avvicinarono ai due. «Devo spaccarti la faccia, lo sai no?!»

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