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Figlia di Re: un matrimonio per l’Italia
Figlia di Re: un matrimonio per l’Italia
Figlia di Re: un matrimonio per l’Italia
E-book387 pagine5 ore

Figlia di Re: un matrimonio per l’Italia

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Info su questo ebook

Un’altra figura femminile che ha fatto la storia? Il matrimonio della principessa Maria Clotilde di Savoia si trasforma in un fil rouge per raccontare la storia franco-italiana dal luglio 1859 al gennaio 1861, affacciandosi sui cambiamenti politici epocali per la Francia, il Regno di Sardegna, la penisola italica, l’Europa, l’Africa e l’America, che vedeva Nordisti e Sudisti impegnati nella guerra di secessione. Matrimonio che spinse il marito, il principe francese Napoleon Joseph, già attento alla causa italiana e amico di patrioti, a offrire pubblico sostegno ai Savoia per la conquista dell’Italia, anche durante il lungo e tragico assedio di Gaeta.

«Se c’è un’autrice che sa raccontare il passato, questa è Patrizia Debicke. Insieme a lei non vivrete solo una bella avventura, ma vi ritroverete ad affrontare un vero e proprio viaggio nel tempo, dove voi stessi sarete parte della Storia.» – Franco Forte

«Come uno stiletto, o una bacchetta magica, la prosa di Patrizia Debicke squarcia il velo ineffabile che divide il presente dal passato.» – Marcello Simoni
LinguaItaliano
Data di uscita2 apr 2024
ISBN9791255401247
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    Anteprima del libro

    Figlia di Re - Patrizia Debicke van der Noot

    figlia-re-fronte.jpg

    Figlia di Re. Un matrimonio per l'Italia

    di Patrizia Debicke van der Noot

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    ISBN  979-12-5540-124-7

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2024©

    Narrativa – Maree

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Figlia di Re

    Un matrimonio per l'Italia

    Patrizia Debicke van der Noot

    AliRibelli

    Sommario

    Figlia di Re, Clotilde

    Cena a Casotto

    12 agosto 1858

    Il principe liberale

    Una principessa che attende

    Il Piemonte si accosta

    L’incontro

    In attesa

    L’imperatrice Eugenia

    La strada si fa in discesa

    Fidanzati

    Le nozze

    Moglie

    Parigi

    Sua Altezza Imperiale

    A corte

    Non sono tutte rose e fiori, ma…

    La follia di Napoleon

    L’imprevisto

    Indugi

    Verso la guerra

    La guerra comincia

    Si combatte e non…

    La battaglia di Montebello

    In guerra e…

    Richiamo al fronte

    L’armistizio

    La gloria che non è gloria

    Clotilde a corte

    Panorama italiano

    Anniversario di matrimonio

    Plebisciti

    Garibaldi, i Mille

    La morte di Jerome Bonaparte

    In Italia si combatte ancora

    Altri avvenimenti precipitano

    In viaggio con l’Italia in guerra

    Re Vittorio

    In cammino verso l’Unità d’Italia

    Viva l’Italia

    Onori e disonori

    Intanto in Italia…

    Progetti e altri problemi…

    Morte di Cavour e partenza per il Maghreb

    Verso Cadice

    Lisbona

    La prua a ovest

    New York

    Washington

    New York e via…

    Niagara e Canada

    Ritorno a New York

    Addio a New York

    Partenza e sulla via di casa

    Politica sul tappeto e problemi italiani

    Napoleon Victor

    Figlia di Re, Clotilde

    A cavallo, Clotilde non aveva mai paura. Si sentiva sicura e completamente libera.

    In contatto diretto con l’animale. Due cuori e due volontà tesi allo stesso fine: correre.

    Quel pomeriggio Maria Clotilde di Savoia montava Mistral che, rispettando il suo nome, filava come il vento.

    Senza curarsi di Mademoiselle Camille de Foras, la sua dama di compagnia in sella a Barbetta, un sauro lento, buono come il pane e immune da ogni fantasia, che si affannava a gridare: «Altezze Reali e anche voi, Serrani, aspettatemi!» aveva sfidato i fratelli.

    Mantenne senza timore il baio di tre anni, un gioiello della scuderia reale, a briglia sciolta per tutta la discesa e fu la prima a raggiungere il limitare del bosco, precedendo di un’incollatura i fratelli, Umberto e Amedeo, e il capo staffiere Giustino Serrani, in sella a Caronte, lo stallone di Sua Maestà.

    «Ho vinto, ho vinto!» gridò tirando le redini.

    Nell’impeto della corsa il cappello a larghe falde le si era rovesciato sulla schiena.

    «Sei partita per prima, hai barato» replicò Umberto, arrivato secondo, sfilandoglielo al volo.

    «Non è vero! Non ho barato, rendimelo» ritorse secca.

    L’agosto si annunciava afoso e il sole, ancora alto in cielo, che picchiava implacabilmente, le feriva la vista. Sbatté gli occhi innervosita.

    «Eccolo, eccolo» le concesse Umberto con le labbra tese e il suo solito modo di fare un po’ stizzoso.

    Lei lo rimise in testa, strinse forte il soggolo, ordinò: «Via!» e ripartì al galoppo senza curarsi del caldo.

    Ripresero di volata il lungo viale alberato che saliva al castello fino ai due faggi di testa, poi misero i cavalli al trotto e proseguendo fianco a fianco ritrovarono la dama di compagnia della principessa, rossa e sudata, che rivolta a Clotide ammonì biliosa: «Non deve dimenticare il Suo rango, Altezza. Riferirò alla marchesa Villamarina la Sua levata di testa».

    «Oh no, Mademoiselle, non lo farà» ribatté orgogliosa.

    «Questo sarà da vedere» ritorse quella.

    Pungente scambio di idee subito troncato dal fragoroso risuonare di zoccoli in arrivo.

    Si voltarono tutti, con i primi cavalleggeri della guardia che imboccavano il viale, seguiti dall’equipaggio reale.

    «È papà, torna da Torino» gridò Amedeo, facendo girare il suo cavallo per volargli incontro.

    «Aspettami» chiese Umberto, imitandolo.

    «Eccoli qua, bravi ragazzi» si rallegrò Vittorio Emanuele II quando l’ebbero affiancato, sporgendosi di sella per salutare.

    Fece rallentare il cocchiere e voltandosi verso l’altro passeggero, il suo primo ministro, Camillo Benso conte di Cavour disse: «Come vede, caro conte, quando sono in vacanza i miei ragazzi vanno a cavallo tutto il giorno e anche le ragazze, vero Clotilde?» chiese alla figlia, che nel frattempo avevano raggiunto, scrutandola.

    Montava a cavalcioni come i fratelli e, per stare più comoda, aveva infilato dei pantaloni sotto la gonna.

    «Sì, papà, Mistral è formidabile» rispose lei entusiasta.

    Subito il baio, quasi per farsi bello, scartò leggermente. Lei strinse le redini e lo riprese con tranquilla sicurezza.

    «Vedo, vedo, e… dove hai trovato i pantaloni?»

    Clotilde arrossì. Non voleva tradire Amedeo.

    Mormorò: «Oh sì, certo, me li hanno prestati!».

    «Va bene, non voglio saperlo, ma da domani farai il piacere di andare a cavallo come una signora, non sei più una bambina.»

    «Ma, papà…»

    «Clotilde…»

    «Sì papà, glielo prometto.»

    «Brava Checchina, ma ora vedi di renderti presentabile e raggiungici nel salotto verde. Il conte di Cavour deve parlarti.»

    Mentre la carrozza entrava al passo nell’androne per andare a fermarsi davanti allo scalone di destra, Clotilde con i fratelli la superò, smontò e, affidando il cavallo agli stallieri, seguita dai fratelli imboccò di corsa quello di sinistra. Ma in cima al pianerottolo, immobile e statuaria, la governante reale le sbarrava la strada. Doveva sorbirsi una ramanzina.

    «La tua stupida Mademoiselle ha già fatto la spia» sussurrò Amedeo, superandola di corsa, tallonato da Umberto.

    Uno scoppio di risa le fece alzare la testa. Maria Pia, la sorella più piccola si sporgeva dalla balaustra della galleria. La salutò con la mano.

    La marchesa Carolina di Villamarina, imponente e severa, si schiarì la voce come faceva sempre quando doveva riprenderla e dichiarò drammatica: «Altezza, ma guardi come si è ridotta. Pare un ragazzo di stalla. Cosa dirà Sua Maestà? Se continua così non troverà mai marito».

    «Ma io non voglio un marito. Voglio solo restare con lei e i piccoli.»

    Il cipiglio della governante si ammorbidì. Clotilde, la maggiore dei ragazzi Savoia, era la sua prediletta.

    «Su, su, inutile mettere il carro davanti ai buoi. Vedrà che cambierà avviso.»

    Entrò nella camera che condivideva con Maria Pia, sua sorella minore di quattro anni, aggirò il suo letto, splendido esempio ligneo di barocco piemontese, e davanti al catino della toilette si spogliò con l’aiuto della cameriera. Si lavò in fretta, prima di rinfrescarsi con una punta di colonia e infilare un abito di cotonina ampio a quadri, a fondo rosa tenue. Un’occhiata allo specchio le rimandò l’immagine di una quindicenne dai capelli color castano dorato, con grandi occhi chiari, che voleva dimostrare più della sua età. Dietro di lei lo sguardo altero di un’antenata rinchiusa nella grande cornice preziosa pareva seguirla. Controllarla? Ravviò in fretta un ricciolo ribelle, sfuggito alla pettinatura divisa in bande e chiusa sulla nuca da un nastro di velluto verde scuro.

    Sei a posto, decise.

    Prima di muoversi stirò con le mani qualche inesistente piegolina della sua gonna e mormorò: «Andiamo!».

    Con il suo incedere di corte, calmo e maestoso, la marchesa la precedette per l’ampio corridoio del primo piano, fino alla porta del salotto verde, dove l’aiutante di campo di Sua Maestà le diede il cambio.

    Clotilde entrò. Il re e il suo capo di gabinetto erano in piedi vicino alla grande finestra vetrata con in mano dei bicchieri.

    Un vassoio d’argento con sopra una caraffa di limonata e dei bicchieri, era appoggiato su una consolle.

    «Ah, eccoti qui, brava Checchina» disse Vittorio Emanuele II, mentre sua figlia si piegava in una leggera riverenza di saluto.

    Le si avvicinò e le sfiorò il volto in una breve carezza.

    La richiesta di Napoleone III lo metteva in ansia. Quando la prima volta ad aprile Cavour gliela aveva ventilata, subito ricambiato da un infastidito: «… Tutti matti!», se l’era gettata dietro le spalle come una mosca fastidiosa. Clotilde aveva solo quindici anni, la considerava ancora una bambina, ben poco adatta a lasciare le pareti domestiche e a sposarsi. Ma l’imperatore era tornato alla carica e la sera prima, durante una cena riservata nella trattoria albergo Pourvenir di Pecetto, Cavour era riuscito a convincerlo della necessità di non rifiutare a priori quel matrimonio di stato. Altrettanto, conosceva sua figlia, buona ma risoluta al limite della testardaggine se qualcosa non le andava a genio.

    Temendo la sua reazione, lasciava la patata bollente al suo capo di gabinetto.

    Appoggiò il suo bicchiere ormai vuoto e ordinò: «Ora, ascolta cos’ha da dirti il conte di Cavour. Parlerà a mio nome. Usa la testa e il cuore e soprattutto pensaci bene prima di rispondere».

    Quindi si lasciò andare sull’ampia poltrona barocca nel divano, incoraggiando con la mano gli altri a imitarlo.

    Clotilde ubbidì e come lei fece il capo di gabinetto del sovrano, che prese posto nella poltrona davanti a lei.

    Camillo Benso conte di Cavour la studiava, vigile e pronto a colpire come un falco sulla preda.

    Non lasciarti fermare dalle fisime di una ragazzina, trova in fretta il modo di convincerla, si ingiunse.

    Prima di cominciare, si tolse con calma gli occhiali e li pulì con cura, per poi riappoggiarli sul naso. Quindi, fissando Clotilde di Savoia con i suoi acuti occhi azzurri dichiarò: «Il 21 luglio ho incontrato a Plombières Napoleone III, imperatore di Francia. L’imperatore è pronto a offrire il suo appoggio a Sua Maestà, Vittorio Emanuele II di Savoia, re di Sardegna, in caso di attacco austriaco al Piemonte ma, per cementare l’alleanza tra i nostri due stati, ha sollecitato la mano di Sua Altezza Maria Clotilde di Savoia per suo cugino, il principe Napoleon. Sua Maestà, il re di Sardegna, non è contrario a questo progetto matrimoniale ma, prima di dare una risposta, si rimette al Suo volere».

    E sornione, distogliendo lo sguardo, lo lasciò vagare sul grande ritratto del personaggio femminile di casa Savoia in abiti settecenteschi appeso alla parete.

    Clotilde lo fissava inquieta. Quella richiesta la coglieva di sorpresa. La si chiedeva in matrimonio?

    Si portò le mani alla bocca, smarrita, poi controllandosi le riabbassò e, stropicciando la gonna dell’abito in garza di cotone, dichiarò: «Io, ecco, conte, sono stupita… Non so… Non pensavo» poi fieramente, rivolgendosi al padre, «Vede, papà, io non credo proprio di volermi sposare».

    «Checchina, ma…»

    «Perdoni, Maestà» intervenne con garbo e diplomazia Cavour «e Lei, Altezza Reale, mi ascolti. Comprendo i Suoi dubbi e il Suo naturale riserbo, ma come Le ho detto Sua Maestà non è contrario. Questo matrimonio è auspicabile e sarebbe importante per il bene del nostro paese. Ci pensi su e ci rifletta con calma» propose pacato.

    «Guarda, Checchina, che l’imperatore in persona ha chiesto la tua mano, per suo cugino» insistette un po’ goffamente il sovrano.

    «Sì, sì, certo» rispose lei meccanicamente, mentre la sua mente vorticava ancora incredula.

    Vittorio Emanuele II tacque studiandola.

    Le raccomandò: «Promettimi di pensarci».

    «Va bene, papà. Ma sì, certo, lo farò.»

    «Aspetto la Sua risposta, Altezza Reale. Mi faccia sapere» concluse il conte di Cavour.

    «Non dubiti» confermò lei, sicura di se stessa.

    Il sovrano scattò in piedi impaziente. Gli altri l’imitarono…

    «Bene, vai pure Checchina. Ci rivediamo dopo, a cena, il conte si fermerà a Casotto fino a domattina» spiegò suo padre, congedandola.

    Il castello di Casotto, poco lontano da Garessio, un tempo certosa, riadattato a castello di caccia e residenza estiva dei Savoia dal padre di Vittorio Emanuele II, Carlo Alberto, offriva tutti i comfort e le comodità del secolo.

    La camera assegnata al primo ministro era poco lontana dal salotto verde.

    Cavour la raggiunse. Il suo cameriere aveva già aperto le valigie. Gli indicò il vestito che intendeva indossare.

    Il sovrano era stato esplicito: «Niente abiti da sera, mettetevi comodo. Sarà un cena di campagna in famiglia».

    Si lasciò sfilare la giacca e aprire il colletto. Abbandonò come foglie morte di un albero d’autunno gli indumenti da viaggio e sedette per togliere le scarpe. Scalzo, andò verso il camerino di toilette e si lavò. L’acqua fresca lo ristorava.

    «Anche questa è fatta» borbottò, strofinandosi la rada barbetta a collare che gli guarniva il mento.

    Geniale e infaticabile tessitore di trame politiche, nonostante l’impatto negativo del recente attentato di Felice Orsini a Napoleone III, tra abboccamenti, incontri segreti e lettere cifrate con Costantino Nigra, suo segretario ed emissario a Parigi, era riuscito a portare avanti la trattativa per un’alleanza militare tra Francia e Sardegna. E spesso il principe Napoleon si era dimostrato il loro principale alleato.

    Ma ora?

    Non pensarci e vai per la tua strada, s’ingiunse. Se la condizione per avere l’esercito francese al nostro fianco è questa, Clotilde si piegherà. Questo e altro per l’Italia, pensò ironicamente.

    La sera prima non aveva risparmiato il sovrano, arrivando a dirgli velenoso: «Se la Maestà Vostra non acconsente, con chi vuole maritarla? L’almanacco del Gotha è là per attestare che non ci sono principi adatti per lei».

    Negli ultimi giorni aveva dormito poco e male, ma le imposte esterne accostate immergevano la stanza in una penombra invitante. Sbadigliò.

    Aveva il tempo di riposare prima di cena. Il domestico aveva già provveduto a ripiegare la sopraccoperta in raso di seta del letto a baldacchino. Le lenzuola finemente ricamate di lino erano aperte e pronte ad accoglierlo. Si sdraiò e il materasso l’accolse avvolgente, ampio e morbido.

    Ordinò: «Chiamami alle sette e mezzo» e chiuse gli occhi.

    Cena a Casotto

    L’etichetta di corte, molto severa a Moncalieri e a Torino, era ridotta al minimo durante le vacanze estive nel castello di Casotto. Grandi e piccini sedevano insieme alla lunga e sobria tavola comune della stanza da pranzo del primo piano. Sulle credenze alle pareti si allineavano i magnifici soprammobili di porcellana cari alla nonna del sovrano. Davanti al camino stazionavano due ampie poltrone di cuoio.

    Il sole calava e le finestre, spalancate sulla ampia vallata sottostante, lasciavano passare un po’ d’aria fresca che scendeva dai monti.

    Vittorio Emanuele entrò, seguito dal conte di Cavour. Benché i piaceri della buona tavola avessero appesantito il fisico del sovrano piemontese e del suo primo ministro, pregustavano entrambi la cena che li aspettava: flan di carciofi, pollo alla Marengo, bonet.

    Il re indicò al conte il posto alla sua destra, mentre la marchesa di Villamarina si accomodava dall’altro lato.

    Tutti gli altri, i cinque ragazzi Savoia, i precettori e le dame di compagnia, sedettero ordinatamente e i camerieri cominciarono a servire.

    Clotilde era tra il fratello Amedeo e l’ospite. Si voltò verso il conte e disse educatamente: «Spero che abbia potuto riposare un po’, prima di cena».

    «Grazie Altezza, sì, e con piacere» rispose lui.

    Hai carattere, ragazza mia, darai del filo da torcere a chi crederà di poterti comandare a bacchetta, pensava, fissandola divertito.

    Tranquilla e sicura, accantonata la conversazione di poco prima, si calava con disinvoltura nella sua parte di padrona di casa: «Ne sono lieta!».

    Suo padre aveva cominciato a mangiare, prese la forchetta e lo fece anche lei.

    Meno di tre ore prima era uscita dal salotto verde. Aveva evitato di misura la sua dama di compagnia e aveva attraversato la sala di musica, ignorando la voce di Maria Pia che chiamava, per chiudersi in camera fino all’ora di cena.

    Voleva restare sola.

    La sua vita, la sua tranquillità, il suo mondo fino a quel pomeriggio erano scossi e messi in discussione dalle parole del conte di Cavour.

    «L’imperatore sollecita la mano di Sua Altezza Maria Clotilde di Savoia per suo cugino, il principe Napoleon…»

    Istintivamente le respingeva, ma…

    Maggiore dei cinque figli superstiti del matrimonio del padre con Adelaide di Asburgo Lorena, Clotilde era orfana da quasi quattro anni. Nel 1855 sua madre, indebolita dall’ottavo parto (in dieci anni), era morta durante i funerali della suocera. Il bambino le era sopravvissuto per pochi mesi.

    Lei era cresciuta con la sorella Maria Pia, confinate in un’ala di Palazzo Reale o della reggia di Moncalieri, sotto la sorveglianza della marchesa di Villamarina e lontane dai tre maschi Umberto, Amedeo e Oddone, affidati a precettori scelti dal padre, che vedevano solo la domenica. Ricamo, lezioni di piano che detestava, di pittura che invece amava, lettura, mai abbastanza secondo lei, e un po’ di equitazione, troppo poco, però, per una ragazza che invece sognava di correre.

    Per fortuna, a rompere la monotonia delle giornate tutte uguali c’era il periodo estivo nel castello di Casotto dove godeva di maggiore libertà.

    Era ormai il 1858, i giornali strillavano forte e né le mura di palazzi e castelli, né le difese di precettori, governanti e dame potevano fermare tutte le voci del mondo.

    Aveva continuato a riflettere fino all’ora di cena.

    Clotilde era curiosa, ascoltava, sapeva più di quanto si potesse immaginare e non riusciva a ignorare la sua inquietudine e il suo spirito d’avventura che la spronavano a gareggiare con i fratelli.

    A tavola, quasi in trance, fuori dal mondo, rimuginava sulla sfida portata dal conte di Cavour, ma doveva lasciare da parte le fantasticherie.

    E infatti sentì chiaro: «Clotilde!» poi, più forte, «Checchina, ci sei?».

    «Su, Clo, svegliati!» mormorò Amedeo complice, dandole un pizzicotto.

    Rendendosi conto di avere finito, appoggiò la forchetta nel piatto, si scosse e rispose: «Sì, papà, eccomi, mi dispiace, mi scusi!».

    Il conte di Cavour si era girato verso di lei e la fissava sornione. Ebbe la nettissima impressione che riuscisse a leggerle nella mente.

    12 agosto 1858

    Oddone si era svegliato di notte con febbre e tosse. La solita tosse stizzosa che l’aggrediva troppo spesso.

    Il dottor Faggi, convocato immediatamente, l’aveva relegato a letto nonostante il gran caldo e l’estate avanzata. Per qualche giorno vietati le escursioni e i bagni alle terme di Garessio che gli piacevano tanto, dove, dimentico dei suoi mali e sostenuto da un domestico, si crogiolava nella piccola conca naturale, abbandonandosi solo al piacere di restare a galla.

    Dopo colazione, Clotilde andò da lui. Amava con tenerezza quel fratellino dodicenne, condannato alla nascita da una severa malformità. Non sarebbe mai cresciuto abbastanza e non avrebbe mai avuto diritto a una vita come tutti gli altri. La testa grossa, il torace troppo sviluppato rispetto agli arti inferiori e la schiena innaturalmente curva, che lo faceva patire e camminare con il bastone, evidenziavano la sua pena. Ma il suo cervello funzionava perfettamente. Tutto lo interessava. Assorbiva come una spugna le parole dei precettori. Divorava i libri.

    Qualche volta Clotilde pensava che avrebbe desiderato per Umberto, cupo secondogenito di Vittorio Emanuele II allevato rigidamente per succedere al padre, la stessa intelligenza e facilità di apprendimento.

    La stanza di Oddone era in fondo al corridoio e guardava la vallata.

    Il riverbero del sole accecante filtrava attraverso le tende tirate e le finestre chiuse non impedivano di udire il monotono ritmare delle cicale che cantavano l’agosto.

    Oddone l’accolse con evidente piacere. Un sorriso illuminò il suo volto allungato che lo faceva simile a un bambino vecchio. Sdraiato a letto, ingannava il tempo catalogando la sua collezione di pietre rare.

    Nella sua stanza faceva troppo caldo. Clotilde asciugò con il fazzoletto il sudore che le imperlava il naso e il labbro superiore, prima di chinarsi a baciarlo.

    Oddone la ricambiò con una carezza. Le sue mani, piccole per la sua età e tipiche della sua malformazione, erano secche, brucianti. Vedeva la sorella maggiore distratta, ne indovinava il motivo, la notizia era filtrata.

    Non osava fare domande dirette, ma le chiese di fermarsi e la interrogò: «Che mi racconti?».

    Clotilde gli descrisse la mattinata: una lunga passeggiata a cavallo con gli altri fratelli. Si erano spinti fino al villaggio. Si era persino fermata nella chiesa di San Ludovico, a pregare.

    «… Anche per te. Ma ora stai calmo e curati» ingiunse drastica.

    «Tranquilla, lo faccio» mugugnò lui, alzando le spalle.

    «Ti serve qualcosa?»

    «Grazie, sgombrami il letto e dammi il volume sull’Egitto di Giovanni Belzoni» chiese, affidandole la scatola e il quadernone sul quale scriveva. «Là sopra» precisò, indicando la scrivania vicina alla finestra.

    La scrivania era piena di libri, carte e giornali, tutto ammucchiato disordinatamente.

    Clotilde cominciò a cercare. Molti erano testi sull’archeologia, un’altra grande passione del fratello. Non lo vedeva.

    Si voltò e disse: «Qui non c’è. Dove l’hai nascosto?».

    «Non c’è? Allora sarà nella libreria, vicino a quello delle tavole. Passameli tutti e due per favore.»

    Lei li prese. Oddone era un grande ammiratore di Belzoni, il vigoroso archeologo padovano naturalizzato britannico. I due volumi erano in inglese, lingua che Oddone padroneggiava perfettamente.

    Sfogliarono insieme quello delle tavole. Gli occhi di Oddone brillavano entusiasmati.

    Si soffermò sulla riproduzione del tempio di Karnac e di una gigantesca statua di faraone senza testa.

    La sfiorò con le dita mormorando: «Cosa darei per andare in Egitto».

    Clotilde scosse la testa e ammise: «Difficile, per ora, mi pare. Qualcos’altro signore?».

    «Essere come gli altri» disse lui, piano, con voce quasi impercettibile.

    «Forse starai meglio. A settembre Papà farà venire un professore da Londra.»

    «Non voglio! Mi imporrà una gabbia di ferro come gli altri» ribatté Oddone sconfortato.

    «Forse no.»

    «Accidenti. Non importa, guarda questa processione» ingiunse, mettendole sotto il naso la tavola che raffigurava cinque egiziani a torso nudo che camminavano.

    L’ultimo aveva la testa di falco: «Vedi, questo è Horus, il figlio di Iside».

    Sfogliarono le altre tavole, un altro tempio, la piramide e le sue misteriose viscere, delle colonne… Oddone s’illuminava, spiegava i particolari.

    Ci sarebbe stato tanto altro da dire, ma il loro rapporto, era sempre stato viziato da un inutile eccesso di pudore che faceva mancare la confidenza assoluta.

    Lo so, è colpa mia, non mi lascio mai andare, si rimproverò Clotilde poco dopo, mentre apriva la porta della camera e veniva quasi travolta dall’impulsiva irruenza di Maria Pia, sempre di furia.

    «Voglio vedere Oddone» si giustificò la piccola dei Savoia.

    «Vieni, vieni Pia, qui vicino a me» lo sentì dire, rallegrato. Ma prima che la sorella maggiore uscisse le fece: «Clo?».

    «Sì, Oddone?»

    «Potresti dire a papà che invece del dottore vorrei l’altro libro di Belzoni, quello sulle tombe egiziane?»

    Lei rise scuotendo la testa e garantì: «Va bene, ci provo!».

    Richiuse la porta alle sue spalle, avviandosi frettolosa. Come raggiunse l’ala sinistra del castello si ritirò nella sua stanza, congedando la dama di compagnia, l’ossuta e melensa Camilla di Foras che la tartassava con chiacchiere e querimonie. Era stufa di sentirla parlare della tremenda prova alla quale la si voleva costringere, immolandola come una vittima sacrificale.

    Vittima sacrificale! Solo quella poteva pescare una definizione tanto ridicola.

    Figuriamoci, io una vittima sacrificale, alzò la fronte fieramente irata!

    E come le aveva detto suo padre: «Usa la testa e fai da sola!»

    Sedette al tavolo da studio, prese un foglio di carta e intinse la penna nel calamaio d’argento, prezioso dono della nonna, Maria Teresa.

    La penna correva veloce evidenziando una calligrafia minuta, ma chiara e sicura.

    Rilesse con calma e si soffermò sulle ultime parole, ripetendole ad alta voce, quasi a voler dar loro maggiore forza: «So che il matrimonio con il principe Napoleon mi è stato chiesto per il bene del Regno e non intendo sottrarmi, ma devo valutare con calma gli ostacoli che sembrano sconsigliare questa unione: la diversità di vedute sulla religione, la grande differenza d’età, la fama di libertino del futuro sposo».

    Si divertì a immaginare la faccia del conte nel leggere la parola libertino. Cosa credeva? Era figlia di suo padre. Non ignorava le cose del mondo.

    E, prima di firmare, aggiunse: «Desidero un mese di tempo, per riflettere».

    La luce scemava, le nuvole che avanzavano da sud, foriere di un temporale, abbrunavano il cielo. Si chiese perplessa se non fosse un presagio.

    Il principe liberale

    I piemontesi consideravano quel matrimonio con il principe Napoleon una tragedia. Vedevano il Bonaparte come il fumo negli occhi. Circolavano voci e leggende su di lui, sulle sue amanti. Si facevano continue allusioni.

    Clotilde aveva quindici anni. L’educazione ricevuta l’aveva relegata in un mondo ovattato, protetto, ma aveva studiato, conosceva quattro lingue e non era stupida. Molto religiosa, aveva persino accarezzato il sogno di prendere il velo, ma ora le si proponeva una vita di moglie e di madre. L’orco che le prospettavano la spaventava, ma l’incuriosiva allo stesso tempo.

    Il suo sacrificio, fatto per una buona causa, era grato al signore?

    La seconda breve lettera che inviò al conte di Cavour era più possibilista.

    Dopo l’intestazione e l’attacco di cortesia diceva: «Ho preso in considerazione la richiesta del principe Napoleon, tuttavia, prima di una qualunque decisione, voglio conoscerlo. Poi, se lo giudicherò accettabile, intendo sposarlo per il bene del Regno e l’onore di Papà».

    Cavour si stropicciò le mani. Le cose erano avviate per il verso giusto. L’amo era teso. Ora si trattava di muoversi bene e non lasciar fuggire la preda. I suoi uomini a Parigi furono informati.

    Ma il principe Napoleon, l’altro interessato, era lontano.

    Ancora ignaro dei nuovi orizzonti che gli si prospettavano, si era offerto una vacanza svizzera con il beneplacito dell’imperatore.

    Al suo ritorno a Parigi trovò la convocazione del cugino. Napoleone III l’aspettava a Biarritz.

    Riparti immediatamente in treno e il giorno dopo alle nove si presentò a Villa Eugenia, la stupenda residenza estiva dell’imperatore, che era in vacanza con la moglie e il figlio. La giornata settembrina era piacevolmente tiepida e l’atmosfera da villeggiatura rallentava l’abituale etichetta della corte.

    Era atteso. Il colonnello Fave, uno degli aiutanti di campo dell’imperatore, l’accolse garbatamente e lo scortò fino alla grande terrazza che guardava l’oceano, a destra dell’edificio con la particolare forma

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