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Lo spettro di Amarax
Lo spettro di Amarax
Lo spettro di Amarax
E-book466 pagine5 ore

Lo spettro di Amarax

Di AJT

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Info su questo ebook

Quando incontrano uno spettro, una creatura frutto di un incantesimo e proveniente dalla città dei maghi, la vita di tre ragazzi cambia radicalmente. Alira seguirà lo spettro per realizzare il proprio sogno di diventare una maga provetta, Talos si arruolerà nell'esercito per essere in grado di proteggere chi ama e Gavister si incamminerà su un sentiero di vendetta, mentre sullo sfondo intrighi politici si dipaneranno per sconvolgere il sottile equilibrio del loro mondo.
LinguaItaliano
EditoreBookness
Data di uscita2 apr 2024
ISBN9791254894767
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    Anteprima del libro

    Lo spettro di Amarax - AJT

    Capitolo 1

    ALIRA

    «Dove te ne vai?» le chiese Vigo, sollevando gli occhi dall’opera che stava plasmando dal legno.

    «Vado a vedere l’arrivo del barone di Montier. Tutti ci vanno» rispose in fretta Alira, dopo aver agguantato la maniglia di quel portone arrugginito, troppo pesante per una bambina di appena tredici anni.

    Aveva capelli corti da maschiaccio color lilla, occhi di giada e lineamenti delicati.

    «Va bene, ma torna prima del crepuscolo e non andare nei pressi del bosco come fate di solito tu e quei quattro rompiscatole dei tuoi amici.»

    «Sì, zio!»

    «Fa’ come ti ho detto!»

    Prima che potesse pronunciare queste parole, Alira era già sfrecciata fuori dal laboratorio.

    Quanta pazienza che ci vuole!, pensò Vigo, seguendola con lo sguardo.

    Alira corse così veloce da consumare quasi del tutto la suola delle scarpe. Si precipitò dall’altra parte del quartiere delle botteghe, e poi giù verso le fattorie vicino alle mura della città di Mifa. Aveva un appuntamento con i suoi amici, gli altri bambini della parte plebea della città, così come la chiamavano i nobili, i cortigiani e i leccapiedi che bazzicavano attorno al castello, quelli che si spacciavano per abili adulatori quando disquisivano di politica con i plebei e si mostravano per quello che erano con i potenti di Mifa.

    Ad Alira non interessavano quei discorsi. Sapeva bene di dover restare al proprio posto e di non dover arrecare disturbo ai signori delle classi sociali più alte. Quello che, invece, proprio non voleva era accasarsi, per quanto ormai stesse arrivando il momento.

    Avrebbe tanto voluto viaggiare e correre incontro al destino, o per meglio dire all’avventura.

    «Talos, ci sei?» urlò Alira dalla strada.

    «È arrivato? È così, vero?» chiese lui sporgendosi dalla finestra, i capelli biondi e gli occhi azzurri come il mare.

    «Non credo! Dovrebbe arrivare prima del tramonto.»

    «E allora che si fa?»

    «Boh!»

    «Tu prendi questo, mio caro, e vai a consegnarlo al vecchio Maurice» intervenne la mamma di Talos, una signora grassoccia sporca di carbone.

    «Va bene» rispose Talos, trattenendo uno sbuffo che gli sarebbe costato uno schiaffone.

    La signora grassoccia gli si parava di fronte dritta come un fuso, le mani sui fianchi, prima di indicare un cesto di vimini colmo fino all’orlo di carbone.

    «E vedi di tornare subito! Non sparire come tuo solito» gli intimò la madre scuotendo il dito minacciosa. «E questo vale anche per te, ragazzina. Guai a te se porti mio figlio in giro a fare chissà che, capito?»

    «Io non porto suo figlio a fare chissà che in giro, chiaro?» rispose piccata Alira.

    La mano grassoccia della donna si abbassò su di lei mancandola per un pelo. Alira era riuscita a schivarla e a portarsi fuori dalla sua portata.

    La donna, nel frattempo, sollevò il cesto di vimini, lo assicurò alla schiena del figlio a mo’ di zaino e, dopo un’ultima raccomandazione, li lasciò andare. Alira dovette rallentare il passo per non lasciare indietro l’amico, mentre si dirigevano verso la casa del vecchio Maurice, un calzolaio che, nonostante la veneranda età, lavorava ancora.

    «Buongiorno, signor Maurice» esordì Talos appena lo vide.

    Maurice, oltre a essere sordo come una campana, era alle prese con le rifiniture di un paio di stivali commissionatigli dal conte Devolant in persona, cosa che reclamava e assorbiva la sua completa attenzione.

    Alira si schiarì la gola più rumorosamente che poté, ma niente. Allora Talos sbuffò, non ce la faceva più a reggere quel cesto sulla schiena.

    Mica sono un mulo da soma, pensava.

    Così Alira picchettò sulla spalla del vecchio, che sollevò finalmente il capo degnandoli di una qualche considerazione.

    «Oh, siete voi! Che mi portate?» chiese Maurice, alzando tanto la propria voce da sentirne il suono.

    «Il carbone che avete ordinato.»

    «Cosa?»

    «Il carbone!» risposero in coro.

    «Cosa?»

    «IL CARBONEEEEEE!» gli urlarono nelle orecchie.

    «Non c’è bisogno di urlare: non sono mica sordo!» ribatté indignato Maurice. «Lasciatelo pure lì.»

    «Dov’è Gavister?» chiese Alira.

    «Cosa?»

    «Non ne usciremo mai vivi» sussurrò Talos.

    «Ehilà, ragazzi. Che ci fate qui?» entrò Gavister con delle strisce di cuoio tra le mani, i capelli neri disordinati, gli occhi neri e piccoli e la testa sempre tra le nuvole.

    «Ti ho portato il carbone» rispose Talos, indicando la merce.

    «Hai sentito? Oggi arriva il barone di Montier» disse Alira.

    «Lei ha una cotta per lui» la punzecchiò Talos.

    «Non è vero!» gli gridò di rimando diventando tutta rossa.

    «Pare che arriverà non prima del crepuscolo. Lo ha detto una guardia che è venuta qui a comprare una cinta nuova.»

    «Sul serio?» chiese Alira.

    «Sì. Io vado a fare quella commissione» annunciò Gavister, invano. «Venite, vi devo far vedere una cosa.»

    «Si può sapere dove andiamo?» domandò Talos.

    «Ve lo mostrerò. Voi seguitemi senza fare troppe storie» tagliò corto Gavister.

    Svoltarono rapidi tra i viottoli di Mifa e in un baleno si ritrovarono alle porte principali. Le guardie le presidiavano come era costume anche in tempi di calma come quelli.

    Il capoguardia di turno registrava i documenti degli stranieri ed esigeva il pagamento della tassa di soggiorno. Quando li vide dirigersi quatti quatti verso l’esterno delle mura, li fermò prontamente, torreggiando su di loro, le mani sui fianchi.

    «Beh, dove andiamo oggi?» chiese in tono più di rimprovero che di curiosità.

    «Oh, a fare una passeggiata, signore» rispose candida Alira.

    Ormai aveva imparato già da un pezzo come sembrare perfettamente innocente, esercitando quel suo tono da imbonitrice patentata.

    «Non vorrete combinarne un’altra delle vostre, vero? L’ultima volta avete rubato una caciotta dal fattore che vive sulla montagna.»

    L’espressione da ruffiana sul volto di Alira cambiò senza che lei potesse farci nulla.

    «Non fare quella faccia sorpresa, mocciosa. Il fattore è venuto a lamentarsi da noi; quindi attenti a ciò che fate. E state lontani dalla foresta: voci strane cominciano a provenire da laggiù.»

    Si sorbirono quella ramanzina in silenzio, poi proseguirono per il loro cammino.

    Gavister li stava conducendo in direzione della foresta. Vi entrarono come tutte le altre volte, ma, questa volta, qualcosa di strano sembrava turbare il ragazzo, che continuava a guardarsi intorno, irrequieto e circospetto.

    «Andiamo al lago? Così passiamo il tempo che manca all’arrivo del barone» propose Alira.

    «Sì, potremmo giocare a rimbalzello» disse Talos.

    «Va bene, ma avete sentito il capoguardia, vero? Non dobbiamo tardare!» li avvertì Gavister.

    «Anche se tardassimo?»

    «Probabilmente chiuderanno le porte all’arrivo del barone e le piantoneranno meglio» spiegò Alira.

    «Sì, comunque non lasceranno fuori dei bambini, no?»

    «Forse hai ragione» concluse Alira.

    Si misero sulla riva del lago e fecero a gara a chi faceva rimbalzare il proprio sasso sulla superficie dell’acqua il maggior numero di volte. Ci avevano passato sempre un sacco di ore in quella foresta, giocando a nascondino, cacciando o anche solo per ritagliarsi un periodo di solitudine.

    Il vento accarezzava le fronde degli alberi, mentre il sole si colorava di arancio acceso.

    Si sdraiarono in riva al lago, scrutando le nuvole che a tratti oscuravano il bagliore rossastro del tramonto.

    «È quasi ora di tornare» constatò Talos.

    «Sì, ma abbiamo ancora tempo per un bagno» disse Alira.

    «A me va!» esclamò Talos.

    «E a te?» chiese Alira.

    «Io preferisco tornare: sapete, non voglio che mio nonno si preoccupi.»

    «Sicuro?» insisté Alira.

    «Sì, scusate ma ora devo proprio andare» confermò Gavister.

    Il ragazzo li salutò e si allontanò. Alira e Talos si spogliarono e nuotarono nelle acque limpide del lago. Parlarono dei loro sogni e delle loro prospettive per il futuro.

    «Fredda quest’acqua. Perché non la riscaldi un po’ con i tuoi grandi poteri magici?» la sfotté Talos, muovendo le dita come se stesse suonando un pianoforte.

    «Non prendermi in giro!» sbottò lei, gettandogli dell’acqua in faccia. «Diventerò una maga e sarò famosa in tutto il mondo.»

    «Essere maghi è una faccenda seria. Bisogna studiare anni e anni per diventarlo; infatti il potere magico non basta!»

    Messa di fronte a un’evidenza così cruda e brutale, Alira si scoraggiò per un solo attimo, prima di mettere il broncio.

    Talos se ne accorse e tentò di rimediare.

    «Forse potresti chiedere al mago di corte di Mifa di prenderti come apprendista» propose.

    «Neanche l’ho mai visto. E, anche se potessi chiederglielo, non credo che mi accetterebbe come discepola.»

    «E perché mai?»

    «I maghi percepiscono il potere magico. Se non è venuto a cercarmi, significa che non gli interesso.»

    «E tu che ne sai? Usi spesso la magia?»

    «Beh… no!»

    «Allora come può averti… ehm… percepito? Si dice così, giusto?»

    «Questo non vuol dire niente…»

    «Chiediglielo!»

    «Come?»

    «Qualcosa ci inventeremo. Non temere!»

    «E tu, prode guerriero?»

    «Io che? Sono già un prode guerriero! Adesso mi trovo a corto di una spada, di un’armatura e di un cavallo, ma ci si può organizzare. Tra poco compirò sedici anni e sarò abbastanza grande da arruolarmi e diventare cavaliere. Finalmente comanderò delle truppe e raccoglierò vittorie ovunque combatterò.»

    «Forse la guerra non è come te la immagini. Io non credo significhi soltanto fare l’eroe ed essere portato in trionfo. Vuol dire farsi male e guardare gli altri soffrire, e non solo ferire quelli che combattono sul fronte opposto. Potresti ritrovarti a dover uccidere qualcuno che nemmeno conosci e che potrebbe anche non essere una brutta persona. Non ci avevi pensato? Muore molta brava gente sui campi di battaglia… come i miei genitori, per esempio.»

    Talos non seppe cosa ribattere e rimase in silenzio per qualche minuto, cupo e imbarazzato.

    «Il sole è quasi tramontato: ormai bisogna tornare» disse, infine.

    Uscirono dal lago e si rivestirono, quando videro spuntare Gavister da sotto gli alberi. Sembrava agitato e si torceva le mani.

    «Che hai?» chiese Talos.

    «Niente! Perché?»

    «Sembri strano.»

    «Più che strano… terrorizzato, direi» precisò Alira.

    «No, perché dovrei essere nervoso o che altro?»

    «Perché sei tornato qui? Credevo te ne fossi andato» disse Talos.

    «Beh… non arrivavate e sono tornato a cercarvi.»

    Il suo volto tradiva le sue emozioni e, a giudicare dalle espressioni dei suoi amici, il tumulto che provava era lampante.

    «Pensavo vi fosse successo qualcosa» aggiunse in fretta.

    «Perché?» domandò Alira.

    «Girano delle voci riguardo a qualcosa che si aggira nella foresta nell’ultimo periodo.»

    «Ma figurati! Sono le solite storielle per bambini. L’unica cosa che c’è tra questi alberi è un branco di lupi. E non cacciano gli uomini: preferiscono lepri e daini» lo rassicurò Talos.

    «Sì, beh… meglio affrettarsi comunque» concluse Gavister.

    Il comportamento dell’apprendista calzolaio seguitava a destare domande e attirava su di sé gli sguardi dei suoi amici. Si guardava intorno con insistenza e ogni tanto posava gli occhi verso l’alto, sul fianco della montagna.

    Erano arrivati alla soglia della foresta, quando Gavister vuotò il sacco o quasi.

    «Oh, cavoli!» sospirò. «Non posso più tenermelo per me. Devo dirlo a qualcuno.»

    Si fermarono e si guardarono senza fiatare per un minuto che sembrò lungo un’eternità.

    «No, meglio mostrarvelo!»

    Gavister fece loro cenno di seguirlo e li guidò lungo il fianco della montagna.

    La luce del crepuscolo si affievoliva minuto dopo minuto sotto la linea dell’orizzonte e, con essa, la possibilità di vedere il barone di Montier.

    «Ehm, Gavister… dove ci stai portando?» chiese Alira.

    «E poi che hai da guardarti attorno in quel modo? Cosa nascondi?»

    «Non nascondo niente! Ci siamo quasi, comunque.»

    Si mossero in quel paesaggio di fine estate, scostando fronde di acero e salendo per il sentiero.

    Si spinsero passo dopo passo nel punto più interno della foresta, fino ad arrivare a scorgere una piccola rientranza in un grosso ammasso di roccia.

    Capitolo 2

    IL BARONE DI MONTIER

    Il barone di Montier era un uomo fatto e finito e, già ventiduenne, era un po’ vecchiotto per sposarsi. Correvano molte voci sul suo conto. Queste avevano valicato montagne, fiumi e confini tracciati sulle mappe, riportando la descrizione di un uomo cocciuto, corteggiatore incallito di donne e vanitoso oltre ogni immaginazione. Aveva anche fama di essere affascinante come pochi altri.

    Si stava recando a Mifa per incontrare la figlia del conte Devolant e apprestarsi a sposarla. Questo atto di responsabilità, o meglio di redenzione rispetto ai comportamenti passati, gli era stato imposto dal proprio re, che oltre a infliggere una punizione al corteggiatore folle, fonte di una sfilza di lamentele dei padri riguardo all’onore delle figlie sedotte, aveva organizzato un matrimonio combinato per creare un forte legame politico con l’imperatore Meltero, cugino di primo grado del conte Devolant.

    Re Battigar, sovrano di Atla, non desiderava altro che farsi amico, e soprattutto parente, l’imperatore d’oriente, Meltero di Osling.

    Quell’impero, costruito con il sangue e brandendo freddi pezzi di metallo, era fonte di ogni ricchezza e una grande potenza militare. Ogni mercante che veleggiava sulle rotte del Mare Calmo trasportava risorse dal continente di Agura a quello di Zetra e viceversa, passando per l’impero di Osling.

    Il matrimonio avrebbe portato vantaggi economici al regno di Atla oltre a fornirgli protezione militare; per questo re Battigar assicurò personalmente all’impenitente barone che gli avrebbe tagliato la testa con le proprie mani, se avesse mandato tutto a monte.

    Così non gli restò altro che accettare di sposarsi o essere spogliato di titolo e proprietà per essere esiliato in qualche remota località di Atla. Per questo decise di fare buon viso a cattivo gioco, sperando di poter resistere alle tentazioni dopo il matrimonio.

    Si apprestava a raggiungere la città tagliando per le colline, accompagnato da una nutrita scorta armata.

    La strada affiancava la foresta che ricopriva la montagna dalla base fino alla cima. Il vento muoveva i lunghi fili d’erba creando un fruscio dal rumore simile allo sbattere delle onde del mare. Era un sottofondo ritmico che si armonizzava perfettamente con il trotto dei cavalli.

    Sembrava che niente potesse spezzare quel clima di profonda quiete che tanto contrastava con il sentire del barone.

    Il pensiero di sposarsi lo angosciava non poco, così come l’idea di avere figli e occuparsi in modo responsabile degli averi di famiglia: mai il pensiero della continuità del casato lo aveva sfiorato.

    Rimuginava sul proprio passato e sul proprio futuro. E più rimuginava, più le sue mani torturavano le redini in una morsa serrata.

    Cosa faccio se non mi vuole?, pensava. No, no, no. Nessuna donna mi ha mai detto di no. Perché preoccuparsi?, si tranquillizzò, allentando la presa sulle redini. E se, invece, fosse il conte ad avere da ridire?, si chiese, torturando di nuovo le redini. Oh, cielo! Perché mi sento così nervoso? Non lo sono mai stato prima. Credo che Battigar non mi concederà altre occasioni; anzi è stato chiaro quando ho accettato di sposarmi: o matrimonio o morte, la mia morte!

    Non trovava via d’uscita: non era certo che, qualora fosse stato rifiutato come pretendente dal conte, avrebbe potuto scamparla indenne; anzi probabilmente la sua testa avrebbe salutato per sempre il resto del corpo.

    Mentre le incertezze lo tormentavano, il suo bianco destriero lo conduceva a destinazione.

    Mifa era sempre più vicina e poteva già scorgerne le mura, oltre al sontuoso palazzo del conte. La morsa che gli serrava il cuore da quando aveva ricevuto la notizia del proprio matrimonio si faceva più stretta a ogni passo. La sicurezza di cui andava così fiero tanto da farne vanto a ogni piè sospinto gli stava lentamente scivolando tra le dita.

    Alle porte di Mifa, la vedetta diede l’annuncio.

    «Arrivano!» urlò.

    «Tutti pronti per ricevere il nostro ospite» annunciò il capitano delle guardie.

    Due file di soldati stavano sull’attenti ai margini della strada e accolsero il barone sfoggiando le alabarde.

    Il cuore del loro ospite era ancora in una tenaglia e il suo volto pallido e sudaticcio ne lasciava trasparire l’inquietudine.

    «Ben arrivato, signore» esordì il capitano.

    Il barone tornò dal vortice delle proprie preoccupazioni come ridestato. Gli era stata rivolta la parola e il suo status di nobiltà esigeva una risposta degna. Raccolse tutta la sua presenza di spirito.

    «Grazie dell’accoglienza, ma devo rammentarvi che vi trovate di fronte a un nobile di nascita, anche se felice di essere vostro ospite; pertanto dovreste avere l’accortezza di presentarvi» esordì il barone, sperando che nessuno notasse il sudore freddo che gli bagnava la fronte.

    «Scusate. Sono il capitano Muscatt, assegnato al comando della guarnigione a difesa degli accessi di Mifa.»

    «Aristides Pius Lavart, barone di Montier, spada al servizio del sovrano di Atla e membro dell’Ordine Nobiliare della Corona Atlaniana. Piacere di conoscervi.»

    «Ho l’ordine di condurvi a palazzo. Il conte vi attende con ansia.»

    «Ho sentito dire di un uomo risoluto e irreprensibile.»

    «Uomo di valori antichi come la casata che gli ha dato i natali.»

    «Sono certo che è così.»

    Aristides sapeva bene che il problema dell’incontro riguardasse la propria onorabilità, soprattutto a causa dei suoi trascorsi in tema di avventure sessuali.

    All’esterno del palazzo venne accolto a suon di tromba. Affidò il proprio cavallo a uno stalliere e venne accompagnato al cospetto del conte Devolant.

    Aristides era sempre più nervoso, eppure non sapeva se quella condizione fosse determinata dal fatto che dal buon esito del matrimonio dipendesse la propria vita o dallo sposarsi in sé.

    Il conte Devolant lo attendeva al centro di un salone ornato da arazzi antichi che Aristides neanche notò, troppo preso dalla reazione del futuro suocero. Aveva sentito di un uomo anziano, ma non credeva così tanto. Avrebbe dovuto immaginarlo, visto che la donna che avrebbe dovuto sposare aveva alle spalle ben due matrimoni conclusi senza prole.

    Il conte era ormai senza speranze: desiderava accasare la figlia e avere degli eredi.

    Aristides non era l’uomo che avrebbe voluto come genero, ma più gli anni passavano e più sarebbe diventato arduo trovarle un marito; così si accontentò del barone di Montier.

    «Barone Aristides Pius Lavart della città di Montier, presumo.»

    «Al vostro servizio e lieto di conoscervi, conte Devolant.»

    Aristides si tolse il cappello con tanto di pennacchio e si esibì in un profondo inchino.

    «Sono felice di fare la vostra conoscenza, barone. Spero vogliate perdonarmi per non avervi ricevuto di persona alle porte della città, ma, come capirete, la vecchiaia…»

    «Spero di essere di vostro gradimento e soprattutto di essere gradito da vostra figlia.»

    «Oh, non preoccupatevi di questo. Alzate la testa.»

    Il conte lo squadrò da capo a piedi. Gli camminò intorno lentamente sfregando le sue mani ossute.

    Aristides si sentiva come doveva sentirsi un cavallo durante una compravendita. Quasi si aspettava che il conte gli spalancasse la bocca per esaminarlo a fondo prima di regalarlo alla figlia.

    «Girano parecchie dicerie sul vostro conto» spezzò il silenzio il conte.

    Aristides deglutì a fatica. Era proprio quello che temeva, che gli chiedesse conto del proprio passato.

    «Beh… a quali voci vi riferite di preciso?»

    Aristides si pentì di aver fatto quella domanda proprio mentre stava pronunciando quelle stesse parole, ma ormai il danno era fatto.

    «Quelle che vi vogliono come il corteggiatore e seduttore più incallito di tutta Atla e non solo di quel regno a quanto pare.»

    Il conte si piazzò di fronte a lui attendendo risposta.

    «Molte volte le voci girano e da piccoli fatti vengono tirati fuori eventi eclatanti ed esagerati.»

    «Come quando si dice che vi siete avventurato in un convento di novizie e siete stato a letto con cinque donne che pare siano state cacciate appena scoperto l’accaduto?»

    Aristides faticò a scegliere le parole giuste per ribattere. Se il matrimonio non fosse andato in porto, avrebbe dovuto dire addio alla testa. Alla fine optò per la verità, magari appena appena addolcita.

    «Non intendo negare i miei comportamenti. Vi prego, però, di tenere conto che quelle non furono altro che bravate di un giovane nobile immaturo.»

    «Mi volete dire che con il tempo siete cambiato?»

    Aristides fece per rispondere, ma il conte proseguì prima che potesse.

    «Volete dirmi questo quando so benissimo che siete stato costretto dal vostro re a prendere moglie?»

    La faccia attonita di Aristides stava rispondendo per lui.

    «È inutile stupirsi. Re Battigar in persona mi ha proposto questo matrimonio. Sapeva che ero in cerca di un marito per la mia Annaluce e così…»

    Aristides, certo, lo sapeva, ma credeva che re Battigar avesse convinto il conte in qualche modo, senza raccontargli proprio ogni dettaglio.

    «Re Battigar si è anche premurato di farmi sapere quello che rischiate casomai non foste nei pressi di quell’altare dopodomani» si affrettò ad aggiungere il conte. «E mi ha anche permesso di darvi la punizione che più mi aggrada in caso di vostre, beh… qual è il termine esatto… scappatelle! Ecco, sì, scappatelle.»

    «Ho intenzione di onorare i miei voti matrimoniali e non soltanto per la punizione in cui incorrerei, ma per una questione di rispetto e onorabilità del mio nome e della mia famiglia, così come del vostro e di quello di vostra figlia.»

    «Sarà meglio» ribatté il conte prontamente. «Ovviamente il matrimonio si terrà in questa città, nella nostra cattedrale.» Prese un respiro profondo. «E certamente mia figlia vi seguirà a Montier, dove spero verrà trattata come merita.»

    « Sarà trattata da signora di Montier.»

    «Spero di farvi presto visita…»

    «Quando volete! Sarete sempre il benvenuto.»

    «… E conoscere presto i miei nipotini.»

    Aristides divenne paonazzo e cominciò a torcere il cappello che teneva tra le mani.

    «Beh, ci vorrà più di qualche mese per quello…» tentennò Aristides.

    «Spero non molto. E spero che riusciate, al contrario di altri.»

    La curiosità del barone di Montier era grande riguardo al fato dei mariti della sua futura consorte e, sebbene il desiderio di chiedere fosse forte, non osò soddisfarlo: pensò che quell’impertinenza avrebbe offeso non poco il suo ospite.

    «Sapete, sono tempi difficili» rifletté il conte. «Non più difficili di altri già passati, ma complicati comunque.»

    «Il matrimonio tra casate nobili di due paesi diversi ha un valore politico.»

    «Il regno da cui venite è piccolo e il regno con cui confina, quello di Onar, è sotto un costante attacco ed è prossimo a cadere; l’impero di Osling, invece, è saldo e, nonostante il dilagare di strane creature e l’avanzata delle orde dalle piane di Golgoth, resisterà.»

    «Le orde si muovono, dunque!»

    «Sì, verso nord. Pertanto credo che il mio imperatore in persona abbia caldeggiato il buon esito di questa cerimonia.»

    L’imperatore tiene gli occhi fissi sulle mie nozze? Sono tanto importanti?, si domandò Aristides.

    «L’imperatore Meltero…» proseguì il conte, «… vuole rafforzare i rapporti tra i paesi rimasti e chiudere il corridoio che collega il sud con il nord di Agura; e per farlo ha bisogno di stringere alleanze e soprattutto ha bisogno di un duraturo rapporto di amicizia con l’Adunanza di Amarax.»

    «Più facile a dirsi che a farsi!» commentò schietto Aristides.

    «Già!» ponderò il conte. «Siamo entrambi strumenti usati dai nostri rispettivi signori, però non è detto che debba essere un male; insomma se questo darà alla mia casa un futuro…»

    «State dicendo che, quando avete ricevuto l’ordine di far sposare vostra figlia con me, avete fatto buon viso a cattivo gioco?»

    «L’imperatore sapeva di questo mio desiderio, mentre re Battigar voleva risolvere i problemi che gli avete dato. Le trattative per un’alleanza tra il mio imperatore e il vostro re sono andate avanti per mesi, poi re Battigar ha avuto l’idea: così è stato combinato.»

    «Ora comprendo molti dettagli che ancora non conoscevo. Se re Battigar ha fatto tutto questo, deve avere dei motivi molto seri: non è uomo che agisce per caso.»

    Il conte annuì.

    «In tempi bui c’è necessità di uomini saggi» chiosò il conte.

    Aristides non poté che concordare. Aveva visto il matrimonio come una punizione perpetrata ai suoi danni. Ora, però, si rendeva conto di quanto fosse egocentrica quella visione degli eventi. Il re lo aveva usato, questo era vero, ma per un fine più alto.

    Forse pensa di proteggere un regno dalla fine che hanno fatto altri regni la cui memoria è lontana, rifletté Aristides, mentre veniva accompagnato ai propri alloggi.

    Venne servito e riverito. Ogni suo desiderio divenne un ordine. Gli prepararono il bagno e sistemarono i suoi bagagli in una stanza regale.

    Ci fu un via vai di servitori che provvidero a lavarlo, a portargli la cena e a tenere vivo il fuoco del camino.

    Per mezzo del ciambellano di corte, quella sera sapeva di essere atteso dalla sua promessa sposa. Il conte stesso aveva acconsentito a quell’incontro tanto voluto dalla figlia prima dello sposalizio.

    Aristides si era sempre trovato a suo agio in compagnia del gentil sesso e anche quella volta il suo stato d’animo non cambiò.

    Si affacciò alla finestra in cerca dell’ultimo spiraglio di sole, si chiese che tipo di donna fosse colei che si apprestava a conoscere, poi ordinò al ciambellano di essere condotto all’appuntamento.

    Fu accompagnato in un salone riscaldato da bracieri accesi e sentì una voce femminile spuntare da dietro le colonne di marmo. Seguì il ciambellano, poi la intravide. Udì una voce maschile che aveva appena conosciuto.

    Salutò il conte, il quale gli pose una mano sulla spalla.

    «Comportatevi come un barone vostro pari e non come un razziatore di convogli» lo ammonì prima di andarsene.

    «Attendete qui un attimo!» lo invitò cortesemente il ciambellano.

    L’uomo pingue e mezzo calvo si avvicinò alla donna e lo annunciò.

    «Contessa Annaluce Devolant, vi presento il barone di Montier, Aristides Pius Lavart, vostro promesso sposo.»

    Aristides si tolse il cappello con pennacchio con un gesto teatrale.

    «Incantato» disse, baciandole la mano.

    Lo era sul serio: lei era un po’ più avanti con l’età, ma la prima impressione di Aristides non si fermò lì. Lei non lo permise.

    «Siete il barone di cui ho tanto sentito parlare?»

    «Sì, e spero bene!»

    «Come?»

    «Spero che vi abbiano parlato bene di me, contessa.»

    «Più male che bene.»

    «Cosa sapete di me?»

    «Che siete un seduttore impenitente, un uomo immaturo e un inguaribile temerario. In voi c’è di tutto!»

    «Alcuni potrebbero considerarlo un pregio.»

    «Con alcuni intendete voi?»

    Era una donna molto acuta e Aristides ne fu disarmato.

    «Comprendo di avervi messo in difficoltà. Pensavo di guardare il tramonto. Perché non mi accompagnate?»

    «Certo!» si affrettò Aristides.

    «Così potrete prendere meglio le misure e studiare il da farsi.»

    Si diressero in terrazza. Da lassù si poteva godere di una vista spettacolare che dava sul tramonto. Aristides si affacciò al parapetto totalmente assorbito dalla luce fioca del sole che stava per lasciare spazio a una dolce sera.

    «Allora, avete deciso la vostra risposta?» lo incalzò subito lei.

    «La mia risposta?» domandò lui a sua volta, facendo finta di aver dimenticato a cosa lei si riferisse.

    «Considerate un pregio essere un seduttore impenitente, un uomo immaturo e un inguaribile temerario?»

    «Non è poi così male. Voi lo considerate un difetto?»

    «Di certo non sopporto gli uomini immaturi. Gli inguaribili temerari non sarebbero neanche male, se la loro dipartita non fosse sempre così imminente.»

    Aristides notò l’esitazione di lei e ci si infilò.

    «E i seduttori impenitenti?»

    «Li amo solo quando cercano di sedurre me e nessun altro» chiosò, infine, la contessa.

    Restarono a parlare su quella terrazza finché la luce non si decise a sparire sotto l’orizzonte.

    Capitolo 3

    NELLA FORESTA

    «Cosa c’è qui?» chiese Alira.

    «Forse un animale.»

    «Ssst, lo spaventerete!» li zittì Gavister. «Ungar, ci sei?»

    Alira e Talos si scambiarono un’occhiata confusa.

    «Gavister, sei tu?» domandò una voce lontana.

    «Sì.»

    «Perché sei tornato? Ti avevo detto di andartene e di non rientrare nella foresta mai più.»

    «Non posso andarmene così… senza fare niente.»

    Gavister fece loro segno di avvicinarsi.

    «Fermi! Perché hai portato qualcuno con te?»

    Alira e Talos si guardarono con aria interrogativa. Come poteva sapere che Gavister non era solo? Nessuno dei due aveva fiatato e le loro ultime parole erano state pronunciate sottovoce quando ancora erano lontani.

    «Come sapeva che…?» cominciò Alira, ma fu subito interrotta.

    «I miei sensi sono molto più sviluppati di prima. Alira, Talos, siete voi?»

    Finalmente furono nella posizione di poter scorgere nell’antro e videro qualcuno che non si aspettavano.

    «Impossibile! Tu sei morto» esordì Talos.

    «No, sono stato dato per morto; e così dovranno continuare a pensare.»

    «Eri partito, giusto?» domandò Alira.

    Ungar fece loro segno di sedersi attorno al fuoco. La storia sarebbe stata lunga da raccontare e il tempo stringeva.

    «Sono partito come soldato dell’esercito imperiale di Osling, nel nome dell’imperatore Meltero.»

    «Che ti è successo? E perché vivi qui?» lo incalzò Alira.

    Ungar aveva lo sguardo spento. La luce che lo aveva animato si era affievolita fino a morire, incapace di sostenere il peso che richiedevano le sorti a cui andavano incontro i soldati. Si abbandonò, la schiena poggiata sulla parete umida della sua nuova casa. Aveva i capelli arruffati e increspati, molto diversi da quelli corti e sottili che ricordavano. L’unica cosa che stonava erano i vestiti puliti.

    «La mia guarnigione venne assegnata al presidio dei territori del nord. I nostri ordini erano di reprimere le scorribande dei predoni che saccheggiavano le ultime terre conquistate, dopo il cambio di potere. Ci furono una serie di scorrerie. Inseguimmo i predoni nelle foreste, le pattugliammo palmo a palmo per giorni e giorni e trucidammo quelli che riuscimmo a trovare.»

    «Questo cosa c’entra con il fatto che ti trovi qui?»

    «Ci sto arrivando! Dunque, dicevo…» continuò Ungar, cercando di riprendere il filo.

    «Li avete cercati, trovati e uccisi» gli ricordò Alira.

    «Sì, ma un giorno fu diverso. Un nostro

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