Tulio Montalban e Julio Macedo
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Anteprima del libro
Tulio Montalban e Julio Macedo - Miguel De Unamuno
I LEONCINI
FrontespizioMiguel de Unamuno
Tulio Montalbán e Julio Macedo
ISBN 978-88-9296-857-8
© 2015 Leone Editore, Milano
Traduttore: Luigi Marfè
www.leoneeditore.it
Testo in italiano
Testo in spagnolo
I
Che vita, quella di don Juan Manuel Solórzano e di sua figlia Elvira, su quella tal isola, o meglio sul quel tal isolotto, in quello sperduto angolo d’oceano! «Per sapere cosa si intende, senza saperlo, quando si dice isolamento
» osservava spesso don Juan Manuel «occorre dover vivere su un’isola come questa. Dover vivere, eh? Dovere
… Anche se questo, più che un isolamento, è un isolottamento
!» E, se il signor Solórzano metteva tanta enfasi sul «dovere», era perché il suo minuscolo patrimonio lo costringeva a viverci come radicato sopra, avendone cura egli stesso, poiché l’occhio del proprietario ingrassa il cavallo e rende produttiva la terra più ingrata.
Più della fatidica necessità di doversi occupare della proprietà che dava sostentamento a lui e a sua figlia su quell’isola sperduta, don Juan Manuel trovava consolazione, nei suoi assidui e interminabili momenti d’ozio, nel dedicarsi allo studio della storia. Al cui proposito, sudatissime e faticose economie gli avevano permesso di riunire un’intera biblioteca, principalmente di opere che trattavano dell’isola, o che in qualche modo la menzionavano. Si proponeva di descrivere la sua isola per esteso e con dovizia di dettagli, e specialmente l’origine di quella malcontata dozzina di famiglie patrizie che discendevano dai primi coloni e conquistatori, e che ancora risiedevano lì. Tra tali progenie, naturalmente, al primo posto c’era quella dei Solórzanos. Ed essendo don Juan Manuel il capofamiglia di quell’antico casato coloniale, si reputava qualcosa come il viceré onorario dell’isola. E la genealogia era la sua specialità.
Abitavano nel piccolo villaggio, di foggia coloniale, capoluogo dell’isola, in un vecchio caseggiato affacciato su una stradina solitaria; un caseggiato di lunghi corridoi e ampie stanze, gran parte delle quali con l’intonaco scrostato, vuote, oppure zeppe di traballanti mobili tarlati. In una di queste, don Juan Manuel aveva riunito un buon numero di crani e di altre ossa dei primi abitanti dell’isola, degli indigeni che avevano incontrato i conquistadores, come li chiamava pomposamente, e di cui si reputava il più autentico e diretto discendente. In un’altra stanza, aveva sistemato la sua biblioteca, ed era lì che trascorreva le ore dei suoi giorni liberi, soprattutto negli anni cattivi, quando le sue scarse entrate si assottigliavano. E sempre nella biblioteca vedeva sgualcirsi gran parte della sua triste gioventù la figlia, che viveva senza amiche, come un fiore solitario dentro un vaso in ombra.
Entrava allora nei suoi vent’anni già sciupata da una speranza disattesa, da un impossibile anelito. Quanto pesava, su di lei, l’isolamento! Le nuvole passavano sull’isola senza distribuire anche a quella terra il proprio carico d’acqua e le navi giravano al largo, senza ammarare nel porticciolo del suo capoluogo. Seduta su una terrazza di roccia che dominava il piccolo golfo in cui era ubicato il porto, Elvira Solórzano passava lunghe ore dei lunghi giorni della sua vita, seppur breve in anni molto lunga per le attese e le tristezze, contemplando l’amara immensità del mare, e come passavano al largo, quasi fossero nuvole, le imbarcazioni, portando via, forse, il principe dei suoi sogni. Consumarsi così, su quella piccola isola, quando forse nelle terre aperte, nei vasti continenti, si consumava nella solitudine dei sogni quello che Dio le aveva destinato come compagno di vita. Perché per Elvira la storia dell’anello spezzato, dell’anima gemella nell’altro sesso, era una verità indiscussa. Tanto che in un vago provvidenzialismo mistico, era solita sognare che un giorno Dio avrebbe fatto capitare sull’isola, forse salvandolo da un naufragio in una notte di tempesta, l’uomo che le era predestinato dai tempi del paradiso terrestre. Perciò era solita, nelle notti di tormenta furiosa, quando si diceva c’era una nave in vista sotto il temporale, sentirsi scossa fin nel profondo di quella sua anima che disperava di sperare.
«Ah, la mia povera Elvira» era solita dirle suo padre. «Quanto mi rattrista il tuo dolore! Perché tu soffri, vedo che soffri. Nessuno di questi uomini rozzi è adatto a te: non c’è, non può esserci sull’isola, chi meriti il fiore dei Solórzanos: non posso portarti in Europa o in America, la nostra fiera, nobilissima povertà me lo impedisce, e vedo che questo posto ti consuma…»
«Non ti tormentare così, papà» rispondeva Elvira. «Sarà quel che sarà. Non ho alcuna fretta di sposarmi per far continuare un’altra stirpe.»
«Per perpetuare la nostra, Elvira, quella dei Solórzanos! Fosse pure come