Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Le Origini: Un romanzo
Le Origini: Un romanzo
Le Origini: Un romanzo
E-book348 pagine5 ore

Le Origini: Un romanzo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Nato troppo tardi per conoscere la guerra, troppo presto per dimenticarla». Reiner Schürmann ricapitola così, nella prima pagina del suo unico “racconto”, Le origini, l’ineluttabilità della distretta epocale in cui si trova – tra appartenenza ed espropriazione nella Germania del Secondo Dopoguerra – il giovane Tedesco che nel suo libro si racconta. È narrata qui, in uno stile ammirevolmente elegante e mai lezioso – sempre spietatamente lucido nello smuovere quel rimosso che è, per la coscienza occidentale, lo scandalo della Germania nazista –, l’erranza peregrinale di una singolarità che si fa punto d’incidenza, e di dissidio istoriale, tra ricordo personale e memoria collettiva della catastrofe.

Reiner Schürmann (1941-1993), pensatore tedesco nato ad Amsterdam, visse a cavallo tra Europa, Israele e Stati Uniti. Dal 1975, fino alla morte, insegnò filosofia alla New School for Social Research di New York. Tra le sue pubblicazioni, scritte in francese, ricordiamo i numerosi saggi e le imponenti opere Maestro Eckhart o la gioia errante, Dai principî all’anarchia - Essere e agire in Heidegger e l’opus magnum, uscito postumo, Egemonie infrante. Le origini – vincitore nel 1977 del Premio Broquette-Gonin dell’Académie Française – è il suo unico racconto.


 
LinguaItaliano
Data di uscita7 ott 2020
ISBN9788833811802
Le Origini: Un romanzo

Correlato a Le Origini

Titoli di questa serie (1)

Visualizza altri

Ebook correlati

Filosofia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Le Origini

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Le Origini - Reiner Schürmann

    Ringraziamenti

    Indice

    archeologia filosofica

    Collana a cura di

    Alessandro Baccarin e

    Paolo Vernaglione Berardi

    Le origini

    Reiner Sch ü rmann

    Traduzione e prefazione di

    Ferruccio Scabbia

    A cura e con un’introduzione di

    Francesco Guercio

    Postfazione di

    Gérard Granel

    Copyright 2020, Edizioni Efesto ©

    Libreria Efesto - Via Corrado Serge, 11 (Roma)

    06.5593548

    info@edizioniefesto.it

    www.edizioniefesto.it

    Collana : Archeologia Filosofica

    Autore: Reiner Schürmann

    Titolo originale: Les origines, Récit, Presses Universitaires du Mirail, Tolosa, 2003 . (Prima edizione: Fayard, Parigi, 1976)

    Elaborazione grafica e impaginazione: Edoardo Fabbri

    isbn: 978-88-3381-180-2

    Prima edizione Marzo 2020

    Indice

    Prefazione del Traduttore

    di Ferruccio Scabbia

    Introduzione. Su Le origini di Reiner Schürmann.

    di Francesco Guercio

    Prefazione dell’Autore all’Edizione Inglese

    Le origini

    1. Come ho imparato a stringere i pugni

    2. Come vengo defenestrato mentre al kibbutz fanno la siesta

    3. Come mi faccio un bagno di notte a Jaffa

    4. Perché un ebreo si imbottisce di aspirine nella Foresta Nera

    5. Perché i residuati bellici fanno sbadigliare un Canadese del Québec

    6. Come una Polacca mi fa a pezzi e mi rimette insieme per dimenticare la guerra

    7. Come provo a vendermi agli Americani

    8. Come con tutto il mio corpo distruggo il passato

    Postfazione. L’indomabile singolarità di Reiner Schürmann.

    di Gérard Granel

    Bibliografia di Reiner Schürmann

    Ringraziamenti

    Prefazione del Traduttore

    Lo conobbi nel 1986. Reiner Schürmann trascorreva le vacanze estive in una delle due abitazioni restaurate di Stroumbo, un villaggio di ruderi antichi che, se non per quei cubi imbiancati di calce, si confondeva con il colore delle pietre, in quell’angolo sperduto di una sperduta isola delle Cicladi. Nell’altra casa vivevamo noi, io e mia moglie. Arrivava verso i primi di giugno, finiti i suoi corsi di Filosofia alla New School di New York, insieme a Louis, il suo compagno, canadese del Québec, artista sensibilissimo. Restavano fino a metà settembre, l’uno a trasfondere nella sua pittura - astratta, materica, essenziale - i colori e le emozioni visive che quella terra riusciva ad imporre, lui, Reiner, occupato nella stesura del suo ultimo impegno, una monumentale opera filosofica cui lavorava da anni. La sera, a volte, dividevamo i tramonti, sulla terrazza che tra gli ulivi disvelava il mare, in lontananza. Si parlava del senso della vita, delle esperienze e le scelte che ciascuno di noi aveva fatto, di arte, e della loro adorazione per l’Italia, le sue atmosfere, i suoi inimitabili artisti. E del comune grande amore per la terra greca, per quell’isola remota, quel villaggio abbandonato, popolato di faine e di folletti gentili. Ripopolato da noi, eiettati in una preistoria di acqua di cisterna, di lumi a petrolio, di inauditi silenzi e di stelle. Il Professore - così lo chiamavo, Reiner - biondo, alto e dinoccolato, attento come un gatto, nascondeva però un’angoscia profonda, radicata, lontana, che neanche l’esuberanza inesausta di Louis riusciva ad allontanare dai suoi occhi. Né la confidenza e l’affiatamento che si erano creati tra noi. Il suo sguardo - a volte si sforzava di renderlo gioviale, ingannando solo se stesso, e forse nemmeno - sembrava esigesse una pietà, affermasse con un urlo represso un’innocenza che lui stesso non voleva riconoscersi. Era Tedesco, lo era completamente, visceralmente, direi, figlio consapevole quanto incolpevole della vergogna del nazismo. Nato nel 1941, mis en chantier quand l’Allemagne a envahi la France. E di quell’onta portava il peso, lui solo, tutto sulle sue spalle, tutto nei sogni sudati, nei mostri che affollavano ogni sua notte. Ma quel dolore inenarrabile era divenuto con gli anni il motore stesso della sua energia, quasi temesse, mitigandolo in alcun modo, di rendere meno efficace, meno estrema, meno definitiva la sua espiazione. Se anche talvolta riusciva a parlarne, con l’amara oggettività di una diagnosi medica, rifuggiva però dal coinvolgerci direttamente, restaurando con penosa quanto trasparente fatica una nuova facciata di convivialità, persino di allegria. Un’apertura, quale che fosse, temeva potesse incrinare la sua monolitica resistenza al dolore, e soprattutto distrarlo dal suo lavoro. Ma sicuramente sentiva dentro l’affetto silenzioso e discreto che nutrivamo per lui. Fu per questo, credo, che l’anno dopo, partendo, ci lasciò una copia di questo suo scritto giovanile, Les origines, appunto, facendo intendere che era l’unico pertugio che avrebbe potuto concedere alla decrittazione di sé, e unico voleva restasse. Il libro era in francese, come in francese o in inglese erano tutte le sue opere, mai aveva voluto comporre direttamente in tedesco. Ed era un libro duro, di frasi secche, di immagini vivide e crude, di sentimenti scolpiti da sostantivi precisi, affilati, diretti. Ed era un libro tenero, di gesti delicati, profumi sottili, intriso di amore per la vita, di una tale poesia da riuscire a far planare nell’animo con estrema dolcezza la più cruda delle efferatezze, sì che vi si radicasse con la potenza dirompente del vissuto.

    Decisi di tradurlo, solo nella mia lingua sarei riuscito a cogliere il senso profondo di quella sua ricerca della verità dimenticata, della giustizia tradita, di una pietà che cercava di sottrarre all’oblio. Non attraverso un riattizzare odî che il tempo aveva dovuto diluire, ma partecipando il suo senso di smarrimento e d’incredulità a cospetto di comportamenti che umiliano e affossano la stessa dignità umana. E per consegnare un ennesimo messaggio, non certo scontato e mai superfluo, a un’umanità che sembrava - e sembra tuttora, purtroppo - reagire in modo sempre più superficiale e distratto a tutti gli attacchi che a tale essenziale dignità vengono portati.

    L’estate seguente, quando il Professore tornò a Stroumbo, gli offrii la traduzione. Ne fu sorpreso, molto, persino commosso. E apprezzò enormemente lo spirito con cui mi ci ero dedicato. Al punto che, nonostante considerasse quel suo libro un momento ormai superato del suo percorso intellettuale, accettò di riviverne le atmosfere, che pur gli evocavano fantasmi in parte sedimentati o rimossi, per aiutarmi a rendere linguisticamente le diverse sfumature nel modo più aderente a come erano state da lui vissute. Lavorammo insieme molti pomeriggi, quando la calura estiva concedeva la tregua della sera incombente. Dopo tante ore trascorse immerso nel suo ultimo libro, Reiner veniva su da me a parlarmi della Rossa, di Joan, di Yoshko. Di Louis. Lo faceva con meticolosa dedizione, nonostante sembrasse posseduto da un’urgenza strana, un costante richiamo al lavoro che lo attendeva a casa, per cui il tempo pareva sfuggirgli, quasi a impedirgli di completare quell’opera, tanto importante per lui, cui ormai dedicava ogni sua energia. Me ne fece leggere qualche passo, ma come per altri suoi scritti filosofici il linguaggio era per addetti ai lavori, complesso e indecifrabile quanto bastava a lasciarmene completamente escluso. L’unico prodotto anomalo mai partorito dalla sua mente, la sola vera apertura verso l’esterno era stato proprio Les origines, e forse per questo aveva accettato - succube del mio ricatto affettivo di volerlo riportare in vita, e in una lingua nuova la cui musicalità lo affascinava - di ripercorrerne insieme a me certi tratti, senza riuscire a evitare il profondo coinvolgimento autobiografico che a parole era così restio, pudico direi, ad ammettere.

    Me ne affidò ogni successiva cura, consegnandomelo come un testamento prezioso, il segno segreto di un sé che aveva sepolto dietro una corazza inossidabile di sopravvivenza, come l’unico cedimento all’utopia di potersi liberare dall’incubo del suo passato.

    L’estate del ‘91 arrivò da solo. Louis era morto di AIDS, tra sofferenze inaudite. Reiner era smagrito, smarrito, ancorato a quel libro che non voleva terminare. C’è tutto, lì dentro, tutta la mia vita, tutto il mio pensiero. - mi disse un giorno - Faccio fatica a staccarmene, ad ammettere che è concluso. Non ci sarà più niente, dopo. Lavorò per mesi in un isolamento quasi assoluto. Sapevamo che era malato anche lui, ma come per un miracolo resisteva a dispetto di tutte le statistiche. E resistette un altro anno, insegnando alla Facoltà e finendo di riordinare le note al testo. L’estate tentò di tornare a Stroumbo, ma l’isolamento era divenuto insopportabile. Ripartì subito. Venne a trovarci in Italia, dove eravamo tornati dopo otto anni trascorsi in quell’angolo di preistoria. Stava apparentemente bene, era pronto a consegnare il manoscritto all’editore. E me lo disse come a sottintendere: Tu sai cosa significa. Era aprile, aprile del ‘93. Dopo una settimana entrò in ospedale, in condizioni che si aggravarono giorno dopo giorno. Ma non lo dava a capire, ben altri strazi si era portati appresso tutta la vita per dover cedere a quel dolore contingente. Gli resistette per quel che poté, sicuramente sollevato dalla consapevolezza che la conclusione avrebbe rappresentato l’unica possibile agognata liberazione.

    Ci lasciò il 20 agosto 1993.

    Introduzione. Su Le Origini di Reiner Schürmann

    Introduzione

    Su Le origini di Reiner Schürmann.

    Aber do si ein sein in dem wesen,

    da ensein si niht geleich,

    wann geleichheit stet in unterscheid

    Meister Eckhart 1

    SPOILER ALERT

    Si presenta qui ai lettori, in prima versione italiana, Le origini di Reiner Schürmann, le cui magnifiche pagine dalla scrittura vertiginosa sono state fedelmente rese, in un’elegante traduzione, da Ferruccio Scabbia, caro amico dell’autore e fine scrittore a sua volta.

    Ignorato per lunghi decenni dal nostro mercato editoriale — ai cui problemi strutturali e alla cui miopia si uniscono però, fortunatamente, la tenacia e l’audacia, delle piccole realtà come Edizioni Efesto, che osano ancora con ostinazione viaggiare a lato della logica commerciale del best-seller — questo formidabile récit, Le origini, unico racconto di Schürmann, scritto in francese, uscito per le edizioni Fayard nel 1976 e insignito persino dall’Académie Française del premio Broquette-Gonin nel 1977, è portato finalmente all’attenzione del pubblico in una collana che si vuole, indicativamente e provocatoriamente, di archeologia filosofica.

    Finalmente, per più di un motivo, non da ultimo la rocambolesca, è proprio il caso di dirlo, vicenda editoriale che ha condotto Le origini a essere dato alle stampe in Italia solo ora, a più di quarant’anni dalla sua apparizione 2 . Finalmente, anche, perché Le origini, uscito pochi anni prima del volume su Martin Heidegger che ha rivelato ai lettori attenti il genio filosofico del pensatore nato ad Amsterdam da famiglia tedesca, è passato pressoché inosservato financo a molti, tra i pochi, avvicinatisi a Schürmann per le sue, ed è il caso di ripeterlo, originalissime opere di filosofia — fra tutte, l’imprescindibile volume appena ricordato su essere e agire in Heidegger, Dai principî all’anarchia, il bellissimo commento a Meister Eckhart, La gioia errante, e il suo opus magnum, Des hégémonies brisées, uscito postumo. Le origini arriva dunque oggi nel nostro Paese facendo così il suo (in)atteso ritorno dopo un’esoterica ricezione da parte di troppo sparuti, e certamente eterodossi, addetti ai lavori. E dico finalmente, perché il volume — sebbene, come già notava Schürmann nella sua Prefazione all’edizione inglese del 1991, molti dei problemi chiave che affronta siano «radicalmente mutati» 3 —, continuando finalmente a rivelarsi, nel «sito che abitiamo» 4 , l’origine della sua storia (e la fine della sua storia come fine), esce in un momento nel quale si rende manifesto quanto l’esigenza istorico-istoriale che ha fatto nascere questo libro inquieto, e a tratti inquietante, non solo non si sia placata, ma sia diventata invece, se possibile, ancora più ineludibile.

    La torsione istoriale della distretta cui ci troviamo a essere rimessi, la dispresa— la dessaisie 5 , nel francese di Schürmann — ossia l’ epoca dell’epoca delle epoche in cui la kénōsis delle egemonie, l’evacuamento della storia dell’Occidente come estenuarsi dei fantasmi epocali, dei principî che nel dare fondamento alla prassi umana hanno dato consolazione all’anima e consolidamento alla città facendo epoca, è infatti, nella derelinquenza al tempo della Technik, il sito che noi — ah, che «sforzo mi costa, ogni volta, parlare in prima persona plurale. Il noi senza un brivido mi è sconosciuto» 6 —, ancora abitiamo. Anzi, se l’epoca delle epoche è la metafisica nella sua storia in quanto tradizione, in quanto eredità ricevuta 7 , allora l’ epoca di una tale storia — nel senso etimologico del greco epéchein, sospendere, arrestare — è il nostro tempo come tempo che non finisce di finire, come chiusura che non chiude di chiudersi, come katéchon che trattiene sé nella sua epoca, che si tra-t-tiene nel suo sospendersi. Pare, dunque, in questa fine che non finisce di finire, in questa fine in finita — e, dunque, in questa infinità della fine 8 — che l’esigenza sottesa alla scrittura de Le origini, l’esigenza stessa del pensiero nel tempo della dispresa — quella che Philippe Lacoue-Labarthe chiamava «pensare una secondarietà originaria» 9 e lo stesso Reiner Schürmann «fendersi dell’istante» 10 , «singolarità a venire» 11 e, eckhartianamente, «vivere senza perché» 12 — è, e resta appunto, l’esigenza di pensare, e di scrivere, le origini, e le origini nell’origine.

    Resta, cioè, l’esigenza di pensare, scrivendone, un’origine che è, originariamente, in différend, in dissidio, con sé (e dunque l’esigenza di pensare, e-scrivendone, un sé che è sempre, originariamente, in dissidio con sé): un’origine agonale e sub-temporale, unterzeitlich 13 , che non si dà se non «rivolta contro sé stessa» 14 . Prima però di seguire il senso di questa esigenza ne Le origini di Reiner Schürmann, l’esigenza, cioè, di una dispresa — nel senso oggettivo e soggettivo del genitivo 15 — dalle e delle origini nel tempo della dispresa, mi si conceda alcune considerazioni preliminari.

    Sebbene nello spazio qui concesso non ci si possa infatti soffermare sull’esplicitazione dei concetti fondamentali di un pensiero e di una scrittura proteiformi come sono quelli schürmanniani — perché essi, proprio come Proteo, dio informe, « être aquatique» 16 , si sottraggono incessantemente alla cattura, disprendendosi dalla presa — occorre, tuttavia, fornire ai lettori alcuni riferimenti al loro percorso e qualche precisazione terminologica. A tal proposito, la pregevole nonché puntuale Prefazione di Françoise Dastur all’edizione francese PUM, cui rimando 17 , e l’acuta Postfazione di Gérard Granel alla stessa, tradotta qui per la prima volta, hanno buon gioco non solo nel contestualizzare Le origini all’interno del più ampio panorama concettuale di Schürmann ma riescono altresì a mostrare, inequivocabilmente, come non occorra cedere alla facile tentazione di relegare il libro nel cassetto polveroso, e un po’ kitsch, del vezzo letterario, di relegarlo cioè nell’eccezione di una prova autoriale, come se fosse l’esperimento di una carriera di romanziere tentata, anzi, per lui una tantum davvero riuscita, ma subito abbandonata per concentrarsi su un’altra carriera, e su una scrittura, esclusivamente accademiche, quasi che, ad aver spinto Schürmann a lasciare il secondo racconto in un altro cassetto — quello dei progetti mai iniziati o degli abbozzi mai terminati — fosse stata l’incertezza di bissare il successo dell’esordio e non, invece, una medesima urgenza — quella di fare-i-conti col passato, e col passato delle proprie origini per pensar(si) una singolarità a venire — che si è data configurazione secondo forme diverse e poi decisa, una volta narrate Le origini, a scriverne, differentemente, come si scrive di filosofia.

    E dunque il libro ha certamente a che fare — e anche, come pare evidente nei passi giustapposti del Giornale a più voci, criticamente fare-i-conti o rationem reddere — con quella Vergangenheitsbewältigung, quel fare i conti col passato della Germania che, nel Secondo Dopoguerra, impegnò nel Paese teutonico non solo una generazione di intellettuali, ma altresì — volens nolens e con metodi e risultati diversi — la coscienza riposta di una nazione che si era inabissata nella devastazione del nazismo e della Shoah. Eppure Le origini, come anche ci ricorda Schürmann nella stessa Prefazione del 1991 con espressione arendtiana, osa — nello smuovere senza timore né tremore quel rimosso che è, per la coscienza occidentale, lo scandalo della Germania nazista — raccontare qualcosa sulla condizione umana 18 . E raccontare qualcosa su ciò che, benché si configuri di volta in volta diversamente secondo la situazione storica a cui siamo rimessi, tuttavia la precede, e la eccede, come orizzonte ontologico del nostro essere-nel-mondo, del nostro esser- ci. Le origini conta allora di fare-i-conti — facendo anzitutto i conti con le origini dello sterminio — con ciò senza cui il nostro esser-ci non può darsi tale quale sempre si dà, ossia, ciò che deve essere-detto-insieme (con- dizioni) all’esser-ci affinché un tale esser-ci possa essere detto, annunciato, pronunciato e, dunque, enunciato nel suo essere in quanto Ci. Conta cioè, raccontando, di fare-i-conti con le condizioni ultime che sono le nostre natalità e mortalità: l’origine delle origini 19 .

    Se questo è allora un libro che osa raccontare delle origini, occorre innanzitutto premunirsi contro il rischio di fare de Le origini un orpello, pur di indubbio pregio, all’opera teoretica di Reiner Schürmann e quindi di farne un’appendice forse tuttalpiù utile alla comprensione delle origini esistenziali, o prosaicamente autobiografiche, della sua produzione pensante. E occorre pure astenersi dal considerarlo un tentativo di espressione di una secondaria, collaterale, vena letteraria che — pur essendosi data, sì, la forma raccontata, recitata, del récit, tale forma ha finito per far implodere, per così dire, in un’ omologia della tragedia 20 — si sarebbe, se forse non esaurita, tuttavia trasformata e quindi risolta a scrivere, e a scriver si, una volta soltanto, in una scrittura altra da quella professorale, acribica e inflessibile, dei suo lavori filosofici.

    Le origini non si propone di lasciarsi leggere come un libro di filosofia né come un libro di narrativa la cui filosofia sia quella di esorcizzare il suo non essere un libro di filosofia. È invece un racconto in cui la potenza proteica che muove il pensiero di Schürmann sulle origini, e sull’origine delle origini, le loro condizioni ultime, si è configurata in una scrittura dalla forma altra rispetto a quella tradizionalmente definita filosofica, una scrittura la cui forma è certamente un’altra forma rispetto a quella che, benché deformata, lacerata, spinta alle sue possibilità estreme nelle sue opere filosofiche — quelle serie, ça va sans dire … — resta tuttavia riconoscibile nella sua specificità di specializzazione accademica legittima, e dunque legittimata a essere presa sul serio dai funzionari dell’umanità 21 . Seppure, infatti, il libro non fornisce la chiave di volta del pensiero schürmanniano, quella che ne svelerebbe l’intimo segreto — e come potrebbe dare corpo al nostro desiderio del fantasma unitario? — Le origini non si lascia certo prendere alla leggera come récit. Anzi, racconta — così come le altre sue opere — di un’unica esigenza che nella vita di Schürmann si fa a più riprese pressante e riesce a venire alla luce solo configurandosi in maniera molteplice nella differenza, o meglio nel différend, tra la scrittura narrativa e quella filosofica. Un’unica esigenza, dunque, che attraversa l’opera di Schürmann e lo urge a raccontare qualcosa sulla condizione umana, mettendo incessantemente «la Storia sotto torchio, come un aguzzino il suo prigioniero» 22 .

    In queste poche pagine di introduzione, allora, quel che si tenta è solamente di seguire il senso di questa esigenza. Di seguire il senso dell’esigenza di questa dispresa dal (proprio) tempo, l’esigenza che ha mosso Schürmann a scrivere la storia delle origini, e delle sue origini. A scrivere, cioè, la sua storia — e la Storia in quanto sua — e dunque a scrivere la sua, di storia, come Storia. Poiché se il libro è, sì, la storia della sua storia — la storia cioè, come ci ricorda anche Gérard Granel 23 , della sua singolarità, del suo essere-singolare e, dunque, il tentativo di scrivere la storia del suo esser-ci, del suo Da-sein, come un «vivere istoricamente la vita stessa» 24 — Le origini è però, altrettanto, la scrittura della storia della dis-cattura, della dispresa del sé dal suo essere soggetto (e soggetto alla, e della, Storia) e, quindi, la storia della dispresa del sé, da sé, di Reiner Schürmann. E le virgolette non sono certo accessorie, giacché stanno a indicare quanto il protagonista de Le origini, l’io, il soggetto che nel libro si racconta, non assuma d’altronde nel libro altra identità se non quella anonima dei pronomi io e tu. Un’identità differente e differita, sganciata dal proprio nome, e dal nome proprio, Reiner — un nome che si lega indissolubilmente al nome di famiglia, al nome del padre, Schürmann — inchiodando la singolarità alle sue origini, al suo nome, e quindi alle origini del suo nome, nel nome: Reiner Sch ü rmann.

    Questione di nomi, allora, Le origini. Di nominazione, pure. E di verbi. E del farsi verbo, parola, di quel silenzio impossibile da tacere in una vita che si apre a sé solamente nella clandestinità errante, in quella itineranza in cui «si sviluppa una lotta sotterranea che non si può esprimere con normali frasi fatte di soggetti e predicati» 25 . Questione di nomi, Le origini: Anna, Alex, la Rossa, Herman, Peter, Avra, Mme. Ghislaine, Mitsy, Yoschko, Joan, Louis ... e il nome del padre. Il padre che è il nome, l’origine del nome. E così ne Le origini il nome del padre non è mai nominato, anzi il padre anonimo del protagonista assume solamente i tratti schivi e persino teriomorfi di un’istanza temibile e censoria 26 che incarna, è proprio il caso di dirlo, le origini, quel passato alla cui presa ci si sottrae, il passato legato alla Guerra — benché nel libro mai assodato e, anzi, nella sua responsabilità rispetto agli sterminî nazisti, risolutamente negato — quel passato che ci si ritrova e con cui ci si ritrova a fare-i-conti, che pur si vorrebbe rifiutare: «il passato che mi si impone, io non lo voglio» 27 . La madre poi, Anna, (grazia, in ebraico, del resto) il cui nome proprio e solamente quello, a differenza, dunque, del nome del padre, affiora in più luoghi della memoria del protagonista come istanza che invece le origini accompagna e scandisce. E Joan, «così felice di vivere» 28 , che «riporta dallo stordimento attonito all’umile sottomissione alle cose» 29 e pensa a «quei momenti, prima di uscire dal sonno, in cui ancora non c’è coscienza del tu e dell’io, ma la dolcezza di un’unica pelle» 30 . E Louis, — vero nome del compagno di vita di Schürmann, a cui pure è dedicata l’opera di una vita, Des hégémonies brisées — artista canadese, «libero» 31 , nella cui prossimità «il passato va in frantumi» 32 , e che, attraverso il suo silenzio, «riconduce alla parola» 33 . E poi Yoschko, ebreo scampato ai campi, interlocutore, vero maestro che «difende» 34 , che è «sempre perfettamente padrone di sé» 35 e che, nel deserto, «grida sempre più forte» 36 , perché la sua «parola abita il silenzio» 37 .

    Questione di nomi, Le origini, di nomi non detti o solo accennati, se non con temporanei del protagonista, almeno di Denkgenossen, di contemporanei del pensiero, suoi compagni nel pensare: Meister Eckhart, Hölderlin, Nietzsche, Heidegger, Arendt ... E questione di luoghi, Le origini: la Germania, la Francia, Israele, la Grecia, la Russia, gli Stati Uniti ... Tutti quei nomi, e quei luoghi, molti, così riconoscibili, della vita di Reiner Schürmann. E, tuttavia, impossibile è l’identificazione e l’assegnazione senza resto tra i luoghi, i personaggi e le persone di quella vita, perché sempre rimane un resto, o meglio, un différend, tra le persone e i luoghi che compongono il nostro essere-con-gli-altri, e l’essere-nel-mondo, e il nostro scriver ne, lo scrivere del disallontanamento, l’ Entfernung, che pure ci avvicina e sempre da loro ci allontana in un movimento di re-pulsione — una presa di Dis-tanz, un passo a due — nella danza che va a comporre, dalle origini, gli incontri di una vita, gli incontri che, nella loro immanenza eccedono, senza soluzione, la scrittura, l’auto biografia.

    Come infatti scrivere delle proprie origini, delle origini della propria vita — di quella vita «che è, per ciascuno, questa totalità immancabilmente mancata che egli chiama la sua vita, alla cui mancanza si tratta di bastare» 38 ? Se il bíos di un’auto biografia eccede sempre la sua scrittura per mano dell’ autós di una autobiografia, o di una vita, della vita, che si scrive da sé e che scrive di sé? Così Le origini, la presunta autobiografia di Reiner Schürmann 39 , questa scrittura di una vita che si scrive e che scrive, scrivendo di sé, del sé, non è se non la scrittura di un sé che si disprende da sé, di un sé che si disprende dalle origini del suo sé, e dal suo sé in quanto origine, di Reiner Schürmann che così si disprende da Reiner Schürmann.

    Introdurre, dunque. Einführen, in tedesco. La lingua materna che solamente restava per Hannah Arendt 40 — ebrea tedesca fuggita in America dall’Europa schiacciata dal nazismo — e in cui Schürmann ne Le origini, come nella sua produzione filosofica, si decide a non scrivere più o, comunque, a scrivere pure solamente per scriver ne, per descriverne — nella sua presunta autobio grafia — la troppo familiare estraneità di una lingua insudiciata 41 nel suo dirsi, nel suo ascoltarsi e persino nel suono silente del suo gráphein, nel suo incidersi, dall’appropriazione nazista come incisione e decisione della Storia. Così quel ungeheurer Unterschied, quella distinzione inquietante che Arendt sentiva tra la lingua materna e tutte le altre 42 , viene rimarcata e intensificata ne Le origini dall’uso, formidabile, non solo del francese come lingua del racconto — quanti, stranieri, hanno soggiornato nei suoi paesaggi e nei suoi passaggi: Beckett, Cioran, Kojève … la lista è lunga — ma, altresì, dall’affiorare sporadico, sebbene sempre lucidamente intromesso, della lingua materna, del tedesco, in posizione di lingua paterna, di lingua oggetto, di lingua di cui sempre si parla mentre si parla.

    Questione di lingua, Le origini. Di storia e di Storia. Giacché, ne Le origini, il soggetto che desiste e che, «al limite della resistenza» 43 , resiste nel suo desistere, l’io che così si scrive e si descrive è, sì, Reiner Schürmann ma tale è in quanto singolarità ebolliente che si e-scrive incessantemente nella sua deiscenza 44 , che si estroflette a tal punto, disprendendosi dalla presa della sua storia — e del suo nome, che è il nome del padre e il nome della patria tedesca del padre — che non può se non farsi dispresa del suo sé dalla Storia. Una dispresa dalla dispresa — una dessaisie — che non può che darsi, ineluttabilmente, la forma scritta di una storia del (suo) sé che si fa storia: la forma raccontata, recitata, del récit delle origini, donde il suo titolo, Le origini.

    Ora, di questa sua, di Schürmann, esigenza di scrivere, e dunque di scriver si — esigenza sua, nel senso di esigenza propria di una dispresa dell’esser-ci Reiner Schürmann dalle origini del suo sé, e quindi dispresa dal suo proprio più proprio — si cerca, in queste poche pagine introduttive, di seguire il senso. Non certo di seguirne il senso nel senso di intro durre alla sua ragione, o ri condurre verso il suo principio, bensì di ripercorrerne l’andamento errante, il senso di marcia — se è proprio col senso di marcia e coi suoi di-versi sensi che ne Le origini, nell’urgenza della storia e della sua dispresa, si ha a che fare — e se è, quindi, del senso dell’itinerare, o del suo andirivieni, che, in questo libro nomadico a cavallo tra Europa, Israele e Stati Uniti, si tratta.

    Certo, qui si può solo tentare di seguire il senso del suo girovagare e non, invece, con disingenua volontà tetica 45 — con quella hybris, cioè, che è voler disporre la dispersione dei sensi di marcia, secondo la cadenza, militarmente scandita al passo dell’oca, di un’unica marcia — im porre ai lettori un unico senso. Di voler imporre il senso, all’accadere molteplice del ritmo intradiegetico di questo implacabile Ent-Bildungsroman, di questo récit di de-formazione, sull’uno-che-tiene-insieme, sullo hén synechés delle origini, sull’origine che (si) raccoglie , e che, pur raccogliendo, disfa le origini e si fende nell’istante del suo originarsi. Seguire, dunque, non imporre, ma anche ripercorrere. Giacché introdurre, non è certo semplice: non è certo semplice intro-durre, perché si rischia sempre di cadere in tentazione — nella tentazione, direbbe Schürmann, principiale par excellence: la riduzione del molteplice al semplice, dei molti all’uno, il pròs hén — di voler ridurre i percorsi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1