Battaglie di una vita
Di Mihaela M.
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Info su questo ebook
Mihaela M. nasce in Romania, il 24 ottobre del 1979, secondogenita di sei figli, data alla luce da una madre che non l’ha mai desiderata. Trova il suo riscatto solo dopo anni di lotte, che la portano in Italia, dove è moglie e madre felice, mentre studia per diventare assistente di uno studio medico.
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Anteprima del libro
Battaglie di una vita - Mihaela M.
Mihaela M.
Battaglie di una vita
© 2023 Europa Edizioni s.r.l. | Roma
www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it
ISBN 979-12-201-4381-3
I edizione dicembre 2023
Finito di stampare nel mese di dicembre 2023
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.
Battaglie di una vita
1
Io ti ho fatto, io ti ammazzo.
Se chiudo gli occhi riesco ancora a vedere il viso livido e furente di mia madre, mentre mi ripeteva quello che sarebbe diventato il suo mantra.
Da quando ho memoria, non c’è stato un solo giorno in cui mamma non abbia chiarito quanto fosse delusa dalla mia nascita, quanto fosse triste e infastidita dalla mia sola presenza. Non si è mai fatta scrupoli, né si è posta il problema di poter ferire i miei sentimenti, semplicemente diceva ciò che pensava, il che di solito voleva dire esprimere tutto il suo dissenso nei miei confronti.
In tutta onestà, ritengo che mia madre non fosse pronta a fare il genitore, era troppo giovane e troppo inesperta, ma soprattutto portava dentro di sé i traumi di un’infanzia difficile, ferite così profonde da non essersi mai rimarginate. E così, una volta diventata madre a sua volta, non ha potuto fare a meno di sfogare la sua frustrazione e il suo senso di abbandono su noi figli e su di me in particolare.
Mi sono interrogata spesso sul perché proprio io, tra i suoi sei bambini, mi sia guadagnata l’onere di subire le sue peggiori angherie, e sono giunta alla conclusione che il motivo non può essere altro se non una vaga somiglianza con la mia nonna paterna, che mamma non ha mai potuto tollerare. A ben vedere, quell’ostilità era reciproca, e in virtù di essa, entrambe non perdevano occasione per farsi la guerra, mai direttamente, ma attraverso escamotage più misurati e che spesso finivano per riguardare me.
Nonna, ad esempio, si erse a mia salvatrice, venendo in mio soccorso ogni volta che ne avevo bisogno. Le occasioni non mancavano mai, perché ferirmi era il passatempo preferito di mia madre, tanto che, quando ero ancora molto piccola, nonna fu costretta a tenermi chiusa in camera sua per una settimana, solo per evitare che mamma mi facesse del male. Per tenermi lontana da lei, nonna era stata costretta a segregarmi in quella stanza, isolandomi di fatto da tutto il resto del mondo, compresi i miei fratelli. Ricordo che utilizzavo un secchio per far fronte ai miei bisogni fisiologici e anche lavarsi era un’impresa, dal momento che all’epoca il bagno era ancora un ambiente esterno rispetto al resto della casa, e raggiungerlo era praticamente impossibile per me in quelle condizioni. Quindi me ne stavo lì, da sola, terrorizzata dai passi di mia madre fuori dalla porta o dalla sua voce che dalla finestra continuava a ripetere quella frase: io ti ho fatto, io ti ammazzo. E forse lo avrebbe fatto veramente, se qualcuno le avesse dato l’occasione.
Mettere nero su bianco certi ricordi mi riempie di tristezza, soprattutto perché mi rendo conto di come momenti come questo fossero all’ordine del giorno nella mia vita. Per quanto sembri impossibile, quella per me era la quotidianità, una normalità a cui mi ero assuefatta e che giudicavo inevitabile, proprio poiché non conoscevo un’alternativa diversa. Ci sono bambini che si abituano ai pranzi in famiglia della domenica, altri che sperimentano la gioia di una favola della buonanotte raccontata ogni sera prima di andare a dormire, e poi c’ero io, che non conoscevo altro che il disprezzo.
La cosa peggiore è che l’apatica violenza di mia madre non era fatta di episodi sporadici e improvvisi, era piuttosto una realtà coerente e duratura, iniziata molto prima che nascessi. È stata proprio mamma ad ammettere candidamente di non avermi mai voluta, anzi, di aver odiato ogni istante di quella seconda inaspettata gravidanza, di cui ha cercato di liberarsi quando era ormai troppo tardi.
Se fosse stato per lei, io non sarei mai nata, e credo che questo sia il suo più grande rimpianto: non essere riuscita a cancellare la mia esistenza, quando ne aveva ancora l’opportunità.
Venuta meno questa possibilità, non le è rimasto altro da fare se non rendere la mia vita un inferno. Non doveva neanche impegnarsi troppo per raggiungere l’obiettivo, perché la sua totale mancanza di affetto ed empatia, le permetteva di trascurare me e mia sorella maggiore con estrema facilità. Mamma era solita lasciarci sole in casa anche quando eravamo troppo piccole per scavalcare il lettino munito di barriere, che di solito si usa per tenere al sicuro i bambini, e che invece per noi era diventato una vera e propria gabbia. Restavamo lì dentro per ore, senza nessuno che badasse a noi, fatta eccezione per nonna, la nostra unica salvatrice.
È capitato perfino che nostra madre ci tenesse legate ad una catena fuori in giardino, incurante delle intemperie e degli sguardi sconvolti della gente, che si faceva il segno della croce ogni volta che passava di fronte casa nostra.
Alle loro preghiere, avrei preferito un aiuto concreto, ma quella in cui vivevamo era la Romania degli ultimi anni ’70 e certi episodi, per quanto sconvolgenti, non avevano ancora l’impatto che invece otterrebbero oggi.
Pensare ai propri affari, senza immischiarsi nelle faccende altrui, era la prima regola, e pertanto io e mia sorella passavamo del tutto inosservate.
Ma l’indifferenza della gente non faceva male come i colpi di mia madre, che non perdeva occasione per punire l’insolenza con cui mi ostinavo a vivere. Anche quando non c’era un reale motivo per farlo, mamma trovava sempre il pretesto per sfogare su di me la sua frustrazione, come quando mi rifiutai di mangiare il dolce che aveva preparato, pur sapendo quanto non mi piacesse. A quel rifiuto fece seguito una fuga degna di un film d’azione. Ovviamente la fuggitiva ero io, mentre mia madre interpretava perfettamente la parte del mio aguzzino. Trovai rifugio presso la fermata dell’autobus più vicina e per un attimo mi soffermai a pensare a quanto sarebbe stato bello poter salire a bordo del primo pullman disponibile e scappare via, lontano.
Non lo feci.
Quello che accadde fu l’inevitabile sopraggiungere di mia madre, che mi afferrò per i capelli e mi picchiò così forte da farmi quasi perdere i sensi. Mi trasportò a casa dentro una coperta, trascinandomi come se fossi stata un sacco di patate, e alla fine, come se tutto ciò non fosse bastato, mi costrinse a mangiare il dolce.
In momenti come quello rimpiangevo il mio incidente nel piccolo orto di casa, quando mia sorella mi aveva colpito accidentalmente con una zappa sulla testa, ferendomi tanto gravemente da costringere i medici dell’ospedale ad indurre il coma farmacologico.
Non ho mai provato rancore nei suoi confronti, non è sua la colpa di quanto è avvenuto. Due bambine piccole non dovrebbero mai lavorare, soprattutto se il lavoro in questione prevedeva l’utilizzo di utensili pericolosi come una zappa. Mia madre però non si è mai fatta scrupoli a sfruttare me e mia sorella per qualsiasi mansione domestica, anche se all’epoca dei fatti avevamo rispettivamente tre e quattro anni. Anche per nostro fratello, terzogenito e primo figlio maschio, il lavoro fu una costante, ma almeno mamma sembrava nutrire un affetto maggiore nei suoi confronti, cosa che la spingeva ad avere un occhio di riguardo nei suoi confronti. Non poteva immaginare però che proprio questo palese favoritismo avrebbe suscitato la rabbia di mio padre, che pretendeva il monopolio assoluto sulle attenzioni di mamma, a scapito soprattutto dei figli maschi.
Ma mio fratello continuò a godere di un certo riguardo da parte di nostra madre, mentre noi prime figlie subivamo le peggiori angherie; per questo il mio periodo di incoscienza resta, tutto sommato, una parentesi di relativa tranquillità, che mi ha risparmiato non poco dolore.
Mia sorella però ha dovuto sopportare un senso di colpa soverchiante, che il giorno del mio incidente la convinse a restarsene nascosta tra l’ortica per ore. Quando i vicini finalmente la ritrovarono, aveva la pelle così irritata da sembrare ustionata, eppure nemmeno quello sembrò colpire mia madre. Le era tutto indifferente e le cose non sarebbero cambiate fino all’arrivo degli altri figli, gli ultimi tre, gli unici a cui sarebbe stato risparmiato il suo terribile rancore.
Gli unici momenti in cui sentivo di poter tirare un sospiro di sollievo era quando papà rientrava da lavoro. In sua presenza, mamma non aveva modo di punirci e questo principalmente perché era troppo impegnata a preoccuparsi per la sua stessa incolumità. Purtroppo mio padre era un uomo terribilmente geloso, diciamo pure possessivo, e questa sua ossessione per il controllo lo spingeva ad atti di pura violenza, a cui mi capitava di assistere con crescente disagio. La verità è che da bambini, per quanto un genitore ci faccia soffrire, non possiamo fare a meno di amarlo e di cercare la sua approvazione. Io ero cosciente del male che mi veniva inflitto, ma nonostante tutto continuavo a sperare di ricevere un sorriso o un piccolo gesto d’affetto da parte della donna che mi aveva messo al mondo. Per questo soffrivo nel vederla maltrattata da mio padre e mi sentivo in colpa all’idea di trarre sollievo da quel periodo di pace, che per lei significava essere sotto l’occhio vigile di suo marito.
Anche per questo motivo ho sperimentato una sincera lotta interiore quando alcuni vicini si sono offerti di adottarmi. Forse a spingerli ad avanzare una tale proposta furono le terribili scene a cui avevano assistito. Vedere una bambina tanto piccola soffrire in quel modo non deve essere stato facile, quindi quella di adottarmi deve essere sembrata la soluzione più ragionevole. Era evidente che mia madre non mi volesse, dunque perché non effettuare quello scambio?
Certo, sentire oggi una storia del genere mette i brividi, ma io fui davvero tentata di accettare, perché farlo avrebbe significato porre fine a quel tormento. Allo stesso tempo però soffrivo all’idea di lasciare la mia casa, i miei affetti e sì, perfino mia madre.
Non sapevo cosa fare, cosa scegliere, ma alla fine fu lei a prendere una decisione e decise di tenermi con sé.
Ancora adesso non mi capacito del perché lo abbia fatto, ma so per certo che non fu una scelta dettata dal cuore. Mamma non mi amava, non lo ha mai fatto, e ritengo che la sua decisione di rifiutare quell’adozione fu dettata semplicemente dall’impossibilità di giustificare a mio padre una simile ipotesi.
E così la mia vita di sofferenze è andata avanti come se nulla